Nessuna revolución, a Milano il Papa nomina Delpini arcivescovo
Voluto vicario da Angelo Scola, prete "di popolo" ma profondo conoscitore della “macchina”. Non un parvenu preso chissà dove
Roma. L’attesa nomina di mons. Mario Delpini ad arcivescovo di Milano conferma che la linea seguita dal Papa nella scelta dei vescovi da spedire nelle diocesi (e possibilmente rimanerci senza continui trasferimenti, come sarebbe piaciuto al cardinale Bernardin Gantin, gigante che dall’Africa nera finì a sovrintendere la fabbrica degli episcopati) non è affatto univoca. Sì, il modello è quello del pastore con addosso l’odore delle pecore, che sta in mezzo al gregge ed è pescatore di uomini, che più che la dottrina purissima preferisce mettere il dito nelle piaghe dell’umanità ferita. E che magari è pronto pure a coprire i tetti delle cattedrali di pannelli solari e a raccomandare le beghine della domenica di fare la raccolta differenziata. Ma insomma, quando s’è trattato di scegliere chi mandare a dirigere le due più importanti diocesi italiane (e Francesco, in fin dei conti, dell’Italia è primate) è andato sul sicuro. Roma e Milano, Angelo De Donatis e Mario Delpini. Uomini con marcati accenti spirituali, ma soprattutto profondi conoscitori della “macchina” loro affidata. Niente parvenu presi chissà dove, niente scommesse né azzardi. Niente Martini presi in una sera di fine dicembre dalla Gregoriana e messi, come fosse un coup de théâtre, sulla cattedra di Ambrogio dopo la triade Schuster-Montini-Colombo.
De Donatis e Delpini sono entrambi preti che da anni lavoravano nella diocesi che ora governano, entrambi lì divenuti vescovi, entrambi ausiliari. Il neopromosso Delpini addirittura era vicario generale, nominato da Angelo Scola – che ora, dopo aver chiesto d’affrettare la successione per non lasciare nell’incertezza Milano, si ritirerà nella canonica di Imberido, sulla sponda lecchese del lago, tornando a studiare e mettendosi a disposizione del locale parroco – nel 2012. E’ gente che prima di tutto conosce il proprio clero, sempre più ridotto e sempre più gravato d’incombenze, tra agende fitte e compiti amministrativi che si sommano alle necessarie funzioni liturgiche. Il chiacchiericcio sulla successione di Scola andava avanti da tempo, da ben prima che il cardinale presentasse la rinuncia al compimento del settantacinquesimo anno d’età, nel novembre scorso. Si paventavano grandi traslochi da Roma (fronte curia), si ipotizzavano promozioni da fuori regione per rimescolare un po’ le carte dentro la Cei. Si vagheggiava la soluzione “paramistica”, con un servita à la Turoldo messo sulla cattedra del Duomo. Alla fine, Bergoglio ha scelto la continuità più placida, puntando su un vescovo ambrosiano fin nel midollo di cui si sa pochissimo, che non è ascrivibile alle logore categorie conservatori-progressiti, che ha fatto la trafila da docente e rettore al Seminario di Venegono e che ha pubblicato due libri, “E la farfalla volò” e “Con il dovuto rispetto”. Stop.
Se la rivoluzione – quella vera di Francesco non è nel C9 che da quattro anni studia la riforma della curia, tra accorpamenti e soppressioni di dicasteri, bensì nella scelta dei nuovi vescovi – doveva venire da Milano, dunque, l’attesa è andata delusa. Eppure qualcosa che potesse far venire il dubbio c’era. Nella prima parte del pontificato, Francesco ha sorpreso per qualche scelta fuori dal comune. Rimanendo in Italia, si guardi a Padova, dove al termine del quarto di secolo di mons. Antonio Mattiazzo, il Papa ha nominato un semplice prete sessantenne di Goito (Mantova), Claudio Cipolla. Pochi mesi dopo l’ingresso, la prima grana, con le infelici frasi sul “passo indietro” da fare riguardo al presepe se questo dovesse creare tensioni od offendere qualcuno. E, caso ben maggiore, a Palermo. Diocesi estesa e complicata, da amministrare con tatto e delicatezza. Tanti candidati, un outsider a spuntarla: un cinquantaduenne che era arciprete del duomo di Modica, Corrado Lorefice. Che ha subito iniziato il ministero episcopale declamando gli articoli della Costituzione più-bella-del-mondo, definendola addirittura “la mia bussola”. E che ha fatto parlare non tanto per la corsa in bicicletta in cattedrale con tanto di mitra sul capo, bensì per la vicenda del vescovo ausiliare richiesto e poi stoppato dal Vaticano per non meglio chiarite motivazioni (pare che il clero locale si sia rivoltato contro la nomina del prescelto). Azzardi, forse, che hanno poi portato Santa Marta ad agire diversamente quando s’è dovuto decidere per Roma e Milano. Una sicura “forza tranquilla”, stavolta, in luogo della troppo scontata revolución.
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