Leggere il libro di Bruno Forte e capire perché non possiamo non dirci luterani
Il rischio della chiesa gluten free. L’ultimo libro dell'arcivescovo di Chieti-Vasto spiega la convergenza tra cattolici e protestanti
Bruno Forte, chiamato a Napoli Brunello Forte, è un vescovo importante della chiesa romana. Gode della considerazione del Papa, che lo ha scelto come teologo di riferimento (non il solo) per i due sinodi sulla famiglia che hanno poi prodotto la controversa esortazione apostolica Amoris laetitia, di cui alcuni dubitano che sia una sostanziale introduzione del divorzio nella pratica cattolica. La sua residenza è Chieti-Vasto, una bella diocesi. Il suo lavoro teologico è strettamente vaticano, oltre che accademico. Spesso qui polemizzammo con lui, ebbe la gentilezza di darci risposte talvolta gentili, talvolta meno, ma fa niente. Non è questo il punto.
Il punto è che Forte ha appena sfornato un agile libretto, per i tipi magnifici della Morcelliana, allo scopo di meglio celebrare, rielaborandola in base a una parafrasi dei testi di Martin Lutero, la convergenza tra cattolici e protestanti, già ironicamente sospettata da Hans Küng, una specie di gran maestro mezzo cattolico, e da Karl Barth, un genuino luterano svizzero e un talento inarrivabile della teologia del Novecento. Sarebbero tutti d’accordo sul fatto che la fede, non le opere, rende l’uomo giusto ovvero salvo nel segno esclusivo (sola fide) dell’insindacabile fattore di Grazia elargito da Dio attraverso suo Figlio Gesù Cristo. E va bene. La giustificazione per fede è in Paolo e in Agostino, e questo basti. Sebbene sulla recente rivista Concilium, non proprio un nido di ratzingeriani, tutt’altro, Manuel Santos Noya, di Tubinga, dottore in Teologia cattolica, si domandi qualcosa “sul significato teologico delle modifiche di Lutero al testo greco e latino delle lettere paoline”. Svelto e fervente e comunicatore com’era, il sublime Riformatore forzò i testi, aggiunse un “solo” per fede, allo scopo di spiegarsi meglio, dove non c’era, introdusse varianti sul matrimonio e la castità, e sulla giustificazione per fede invertì i termini fede e carità. Paolo diceva, anzi scriveva “in Cristo importa la fede resa operosa dalla carità” e frate Martino scrisse in traduzione, salvo correggersi in vecchiaia, quando il pasticcio era bello che fatto, “in Cristo importa la carità resa operosa dalla fede”, che è se non sbaglio il contrario o l’opposto del significato del testo (sola Scriptura). Ma tant’è. “Il giusto vivrà per la fede”, e questo della Lettera ai romani dovrebbe bastare.
Forte esamina, e testualmente riproduce con accogliente amore, com’è giusto, gli scritti di Lutero sui Salmi e il suo commento alla Lettera ai romani di Paolo. Sono scritti di prima delle famose 95 tesi sulle indulgenze che si festeggeranno il 31 di ottobre del 2017 corrente anno. E le spiegano. Sono un fiore di pensiero intimamente cattolico, dice Forte. Il maggior biografo di Lutero come storico, Heinz Schilling, offre anche lui il ritratto, fino all’esplosione, di un monaco agostiniano fortemente inquieto ma impegnatissimo nelle opere, attivissimo in quella carità che rende operosa la fede, non l’opposto. E Adriano Prosperi, grande studioso cantimoriano che ha riletto il Lutero giovane in un magnifico libro, qui da lui commentato in una bella conversazione con Adriano Sofri, è anche lui del tutto convinto che quella di Martino fu una scoperta spirituale profonda, in cui egli credeva, semplicemente credeva, come missione e vocazione al ripristino di un elemento basilare della teologia e della fede stessa. E chi siamo noi per giudicare?
Giovanni Miegge, se non ricordo male, nel suo vecchio libro su Lutero giovane scavò più a fondo e trovò quelle che nel linguaggio odierno diremo delle “intolleranze”, delle “allergie”, che spiegano meglio come il totus catholicos sia diventato il Riformatore, cioè il fondatore di un’altra chiesa e diversa, con la riduzione dei sacramenti da sette a due e mezzo, l’abolizione del carattere sacrificale della messa, la consegna della fede comunitaria all’autorità di pastori-predicatori sposati e di principi cristiani incorrotti dall’anticristicità costitutiva e originaria del maledetto papato di Roma. Una chiesa gluten-free. Voi direte. Non stare a sottilizzare, lasciaci leggere Forte e godere della cattolicità piena del primo Lutero, che poi si disperse in mille rivoli causa circostanze storiche estrinseche. Io sono d’accordo. Forte va letto, eccome, Sua Eccellenza meriterà anche la giusta ricompensa di un cardinalato per il linguaggio chiaro e lucido con cui riporta all’ovile il monaco apostata sulla scia di una certa interpretazione, va detto, del Vaticano II.
Primato di Dio, primato della Grazia, uomo giusto e peccatore insieme, solo la fede rende salvifiche le opere, e la faccenda è conclusa, nonostante Tommaso, quel testone obeso che Lutero tentò di spazzare via, e che il Concilio di Trento intronò come dottore sempre più angelico, salvo successive correzioni, nonostante la teologia aristotelica della maestà di Dio creaturale, che non si risolve nella sua trascendenza assoluta o nel dolore della croce, anzi si collega alla nostra ragione e alla legge naturale e all’eredità greca che prepara il papato rinascimentale nel culmine della “rinascita del paganesimo antico”. Va bene. Fatto. Missione compiuta. Storia riscritta. Pensiero ripensato.
Se non che, ecco un teologo protestante, che sulla rivista Concilium, dalla quale i ratzingeriani fecero secessione fondando Communio, scrive con precisione puntigliosa, e si tratta di Jürgen Moltmann, 91 anni ben spesi, cose interessanti sulla teologia del dialogo, molto interessanti. Le riporto come sono e faccio molti auguri a Forte per le prossime celebrazioni di Wittenberg.
Moltmann: “Oggi abbiamo a che fare con un’inflazione del dialogo. Si vuole ‘aprire un dialogo’ con ognuno e possibilmente con tutti. La teologia deve essere ‘razionale’ e ‘comunicativa’. Non è tanto importante l’argomento che trattiamo; è più importante la relazione che intessiamo nel dialogo. Il percorso è la meta. Il dialogo dei nostri giorni non è funzionale alla verità, come le dispute al tempo della Riforma e le dichiarazioni della chiesa confessante nel periodo nazista, ma è funzionale alla comunione. Questi dialoghi alla ricerca di unione spaziano oggi da una chiesa alle altre e da una religione alle altre. Al tempo stesso nascono all’interno di tutte le chiese e di tutte le religioni discussioni per la ricerca della verità tra conservatori e progressisti, tra fondamentalisti e relativisti. Perché mai oggi sono fra loro separati dialoghi che mirano alla comunione e le discussioni che cercano la verità? Comunione e verità non procedono più di pari passo? … oggi la teologia è diventata una faccenda totalmente innocua che difficilmente trova ancora pubblica considerazione. Dobbiamo imparare nuovamente a dire no. Una controversia può portare alla luce più verità di un dialogo tollerante. Abbiamo bisogno di una cultura teologica della disputa, condotta con risolutezza e rispetto, per amore della verità. Senza professione di fede la teologia è priva di valore e il dialogo teologico degenera in puro scambio di opinioni. Martin Lutero sostenne una cultura della controversia nel tempo del grobianismo (grossolanità). Che cosa accadrebbe nella teologia se fosse coltivata una cultura della controversia?”.
Ecco perché, in certo senso, non possiamo non dirci luterani.