La Chiesa di St Marks a Belgrado

Tra nazionalismi e islamismo, com'è difficile la pace nei Balcani

Matteo Matzuzzi

La diffidenza verso l’Ue, la situazione dei cattolici. Intervista a mons. Pero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo

Rimini. “Il nazionalismo è forte, qui. E’ stato ed è rimasto anche un modo per tentare di proteggere i diritti che ognuno sente in dovere in qualche modo di avere. La storia, in queste terre, si è realizzata sempre come una indisponibilità dei più forti a riconoscere i più deboli, i meno numerosi”. Ascoltando mons. Pero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo da quasi un quarto di secolo che oggi interverrà al Meeting di Rimini sul tema della pace e della convivenza in terre dove ciò risulta complicato, sembra di essere immersi nelle vicende narrate da Ivo Andric nel Ponte sulla Drina, il capolavoro scritto tra il 1942 e il 1943 che meglio di tante analisi geopolitiche e ricostruzioni giornalistiche spiega perché la ex Yugoslavia è quel che è, mosaico di popoli incapaci di mettersi alle spalle il passato e di farla finita con gli odi etnici e religiosi, perennemente alla ricerca di un equilibrio che non può che risultare instabile e provvisorio. “Da qui – dice Sudar al Foglio – deriva la necessità, il desiderio che è una costante nella storia della Bosnia-Erzegovina, di far rispettare i propri diritti. In questo senso, purtroppo, il sentimento di nazione, che sempre evolve nel nazionalismo quando la nazione non viene riconosciuta, gioca un ruolo deleterio”. Il risultato è che “la convivenza oggi risulta abbastanza dura. Direi – nota il presule – che le conseguenze della guerra, ma specialmente della situazione politica ed economica (che poi è la conseguenza di quella politica), si sono trasformate in un inciampo, in un impedimento per la riconciliazione e per creare i presupposti di una convivenza più sana di quella che c’era prima del conflitto. Abbiamo così in Bosnia-Erzegovina una convivenza pacifica, ma allo stesso tempo non abbastanza ‘vissuta’ e voluta coscientemente”. Cioè? “Intendo dire – prosegue – che essa è sempre stata accettata e vissuta come una condizione per sopravvivere e meno come una scelta. La guerra ha offuscato e negato il significato positivo della convivenza cioè come un’occasione per arricchirsi e conoscersi a vicenda, ma ha favorito il fatto che la gente mostrasse la propria parte negativa, meno conciliante. E la soluzione imposta dopo la guerra, e cioè la divisione della Bosnia-Erzegovina in due parti, ha posto i presupposti per l’incremento di questa sfiducia e per rinfocolare i sentimenti di rivalsa per tutto ciò che era accaduto, non soltanto nell’ultima guerra, ma durate i secoli”.

  

Ci sarebbe un’àncora cui appigliarsi, un faro da seguire per sistemare le cose e cominciare a imbastire un futuro in cui la convivenza sia – per usare le parole di mons. Sudar – “voluta coscientemente”. E’ l’Europa, cui per anni i paesi dell’est, usciti dal dissolto blocco comunista, hanno cercato e voluto, salvo poi rivedere nelle proprie piazze riprendere vigore la fiammella nazionalista che si presumeva ormai spenta. “Ci sono diversi approcci circa l’Europa”, sottolinea il vescovo ausiliare di Sarajevo: “Certamente la gente, qui, si sentiva e si sente parte dell’Europa, ma non dell’Unione europea. C’è sempre, dopotutto, confusione su ciò che significhi Unione europea. I sentimenti al riguardo sono molto divisi. C’è diffidenza, di sicuro si vuole il progresso che c’è lì, ma tutta l’ideologia esportata sul piano dei valori e sul senso della vita, fa sì che si diffidi. Sia da parte della comunità serbo-ortodossa, sia da quella musulmana. I politici – spiega – dicono che la volontà di entrare nell’Ue c’è, ma temo che oggi una tale idea non passerebbe in un referendum. E questo anche a causa del modo in cui i politici e i rappresentanti occidentali hanno trattato e trattano la delicata questione dei Balcani, specialmente quella della Bosnia-Erzegovina”.

  

E poi c’è l’islam. C’era anche prima, c’è sempre stato. Dopotutto il ponte sulla Drina, a Visegrad, fu voluto nel Cinquecento da Mehmed Pasa Sokolovic, ma era un islam diverso. Non sventolavano, sulle montagne della Bosnia, le nere bandiere del Califfato di Abu Bakr al Baghdadi. “Qualcosa è cambiato, non direi nella mentalità della maggioranza dei nostri musulmani, ma una parte si è sicuramente radicalizzata perché in questa strada vede uno strumento per proteggere la propria fede, la propria comunità, il proprio stile di vita. E’ ben percepita l’arroganza dell’Unione europea per come impone i propri valori. Sicuramente – dice mons. Sudar – la guerra ha radicalizzato una parte dei musulmani e specialmente i gruppi che sono venuti qui durante il conflitto e poi sono rimasti. Ma c’è anche un nuovo afflusso di arabi, ben visibile. E pare che una parte dei nostri politici musulmani veda questo afflusso con benevolenza, anzi, crei le possibilità non del tutto legali per far arrivare questa gente. Tutto questo fomenta una tensione anche all’interno della comunità islamica della Bosnia-Erzegovina perché gli immigrati portano con loro un altro modo di vivere la propria fede e cultura. Anche qui, bisogna tornare all’ingiusta soluzione politica che è stata imposta negli anni Novanta, a Dayton”.

  

Ed è una costante, nelle parole del vescovo ausiliare di Sarajevo, la critica al modo in cui è stata spartita la Bosnia, con tanti tratti di penna su una cartina che si ripromettevano di far cessare la guerra civile e di inaugurare un nuovo corso. Un po’ come fecero, dopo la Prima guerra mondiale, Sykes e Picot con il vicino oriente. E “i cattolici non si fidano, non hanno molta fiducia nel futuro di questo paese così come disegnato a Dayton”, aggiunge Sudar. “Una soluzione imposta in modo ingiusto, con la divisione della Bosnia e dell’Erzegovina in due, tra serbi e musulmani bosniaci. La popolazione croata si è sentita discriminata. Questo lo si vede nel grande esodo della nostra gente. L’anno scorso, e sono dati ufficiali, 15.800 cattolici se ne sono andati da qui. Se pensiamo al numero totale dei cattolici rimasti, circa 400 mila, si comprende bene la portata dell’esodo. La comunità cattolica non si sente protetta, da qui nasce la tentazione di andarsene, soprattutto in Germania e in altri paesi dell’Unione europea. Se da un punto di vista politico non cambia niente, è reale aspettarsi nel breve periodo che la chiesa cattolica in Bosnia-Erzegovina e la comunità croata saranno ridotte a numeri davvero poco rilevanti. E poi, naturalmente, a favorire l’esodo ci sono anche ragioni economiche. Manca una prospettiva, lo spettro della disgregazione definitiva del paese non fa stare sicure le persone”. Futuro nero, dunque? “Se sono realista, e devo esserlo, ci sono dei momenti che fanno paura. Però – dice il vescovo – penso che tutto dipenda e vada visto all’interno di un quadro politico mondiale. Qui si giocano grandi partite e i Balcani sono troppo piccoli per sopportare le grandi mosse decise da fuori, da attori del calibro di Stati Uniti e Unione europea, Turchia e Russia. Tutto questo non fa che complicare la situazione. Però, se uno crede che Dio lascia sì la libertà agli uomini, ma poi veglia e non abbandona mai, io spero e prego che i Balcani, e la Bosnia-Erzegovina in particolare, che poteva e doveva servire come esempio della convivenza dopo tanta storia travagliata, troveranno un modo per stabilizzarsi e ripartire. L’Europa e il mondo di oggi hanno bisogno di esempi positivi di convivenza sana e democratica”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.