"E' questa l'età dell'oro dei rapporti tra ebraismo e cattolicesimo", dice il rabbino David Rosen
Intervista al direttore internazionale degli affari interreligiosi del comitato ebraico americano, oggi al Meeting di Rimini
Rimini. “Siamo nell’età dell’oro delle relazioni tra ebraismo e cattolicesimo”, dice al Foglio David Rosen, rabbino e direttore internazionale degli affari interreligiosi del comitato ebraico americano e direttore dell’Istituto Heilbrunn per l’intesa interreligiosa internazionale. Oggi, dopo vent’anni dall’ultima volta, tornerà per la terza volta al Meeting di Rimini per discutere di “un dialogo da riguadagnare”, assieme a Mohammad Sammak, segretario generale del Comitato per il dialogo islamo-cristiano in Libano e mons. Silvano Maria Tomasi, membro del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale. Fu proprio alla vigilia di un Meeting, nel 2002, che don Luigi Giussani disse che “se non ci sarà prima la fine del mondo, cristiani ed ebrei possono essere una sola cosa nel giro di 60-70 anni”.
Rosen vede passi avanti lungo il sentiero dell’amicizia tra ebrei e cattolici. Dopotutto, “Papa Francesco ha detto durante la sua visita alla sinagoga di Roma che il popolo ebraico è considerato far parte di un’unica famiglia con la chiesa cattolica” e, poi, come a suo tempo “affermò san Giovanni Paolo II, ‘l’antisemitismo è considerato un peccato contro Dio e l’uomo’”. Insomma, di strada rispetto alle diffidenze del passato (non troppo remoto) ne è stata fatta, anche se “questo non significa che non persistano tensioni o che l’antisemitismo sia stato eliminato all’interno della chiesa, ma le relazioni non sono mai state migliori”. E però un ostacolo rimane, e neppure di poco conto. E’ il sempiterno conflitto israelo-palestinese, “che pesa ancora in maniera significativa sul dialogo”, spiega Rosen, “se non altro perché la chiesa locale è araba e la sua leadership è prima di tutto palestinese. Oltre a ciò, c’è sempre preoccupazione in Segreteria di stato per le comunità cattoliche e gli interessi nel mondo arabo. Inevitabilmente, questo incide. Va detto però che la Santa Sede ha mantenuto una posizione costruttiva e bilanciata”. Rosen lo sa, c’era anche lui l’8 giugno del 2014 nei Giardini Vaticani in occasione dell’incontro di preghiera per la pace che vide seduti l’uno vicino all’altro Shimon Peres e Abu Mazen, tra il Papa e il patriarca Bartolomeo I di Costantinopoli.
Eppure, nel fluido contesto del medio oriente, Israele è la realtà che più garantisce la libertà religiosa, aspetto questo assai taciuto in occidente. E’ il solito pregiudizio anti-israeliano?
“Israele è lontano dal rappresentare la perfezione, ma è spesso trattato male per diverse ragioni. Innanzitutto di mezzo ci sono interessi finanziari e strategici che vedono interessato il mondo arabo. Da qui derivano i timori che rappresentare Israele in modo positivo possa in qualche modo pregiudicare questi interessi. In secondo luogo – aggiunge Rosen – c’è la paura che commenti positivi su Israele danneggeranno la coesione sociale e gli interessi elettorali con le comunità di immigrati musulmani”. E’ necessario procedere a piccoli passi, con una visione di lungo respiro, guardando più al domani che al contingente. Solo così si potranno ottenere risultati concreti, guardando più quel che unisce rispetto a ciò che divide. Il tutto, poi, va considerato nel più ampio e problematico rapporto tra modernità e religione.
“La modernità – dice David Rosen – è allo stesso tempo una proverbiale benedizione e una maledizione. Essa dà libertà e opportunità senza precedenti, il che comporta anche licenza e irresponsabilità senza precedenti. Paradossalmente, questa benedizione è spesso accompagnata da una perdita di identità e di scopo. La religione – nota Rosen – fornisce le risposte a questi dilemmi e provvede alla direzione morale delle nostre vite”.