La fede del Papa
Nel 1968, mentre tanti cattolici manifestavano contro di lui, Paolo VI proclamò davanti al mondo il suo Credo. Era in gioco la verità della fede. Siamo di nuovo a quel punto?
La confessione di Pietro a Cesarea di Filippo “Tu sei il messia, il figlio del Dio vivente” è stata il presupposto affinché Gesù facesse di Simone, figlio di Giona, la pietra sulla quale edificare la sua Chiesa. Alla professione di fede dell’Apostolo, Gesù risponde con la vocazione unica di Pietro.
Considerando questo, emerge con chiarezza quale significato fondamentale avesse la fede di Pietro per la Chiesa nascente. Ciò vale naturalmente in modo analogo per il successore di Pietro, il papa. Anche il papa è prima di tutto un “uditore della parola” (K. Rahner), un credente, e solo come tale può essere garante e maestro della fede per la Chiesa. Anche in quanto maestro e pastore supremo, egli non si trova di fronte alla Chiesa – o persino al di sopra di essa. Benché capo visibile della Chiesa, il papa è membro dell’unico corpo, in connessione organica con esso.
Se le cose stanno così, diventa comprensibile l’interesse vitale della Chiesa nell’assicurarsi della genuinità e autenticità della fede di quell’uomo che è il successore del principe degli apostoli, Pietro, e portatore del suo potere.
Proprio queste riflessioni portarono all’usanza, conosciuta già dalla fine del V secolo, che il neoeletto vescovo di Roma faccia conoscere la sua professione di fede.
I
Possiamo citare come esempio più famoso la Synodica con la quale Gregorio Magno comunicava al patriarca d’Oriente la sua elezione a successore di Pietro, e alla quale era allegata una dettagliata professione di fede. Di quest’ultima viene spesso citata l’enfatizzazione dei primi quattro concili ai quali Gregorio attribuisce un’autorità allo stesso livello di quella dei quattro Vangeli.
Pare che Leone III (795-816) sia stato l’ultimo ad inviare una tale Synodica.
Tale usanza era espressione della consapevolezza che la comunione nella fede, l’assenso alla fede comune, fosse la base decisiva e il presupposto per la comunione ecclesiale: il consortium fidei apostolicae, la comunione nella fede apostolica.
Diversa dalla missiva della Synodica è, invece, la Professio fidei che si doveva proclamare prima dell’elezione a papa.
La richiesta di quest’ultima è documentata per la prima volta attraverso il Liber Diurnus. Non entriamo nella ricostruzione della storia redazionale di questa raccolta di formule di documenti pontifici e simili del primo medioevo. A noi importa che contenga le formule per la professione di fede del papa neoeletto, da recitare prima e dopo la consacrazione episcopale.
Sembra siano gli anni 682-685, e più precisamente la consacrazione di Benedetto II il 26 giugno del 684, che si debbano associare a queste formule. Sono anni nei quali si sentono ancora gli ultimi sussulti delle diatribe cristologiche e soprattutto la condanna di papa Onorio.
Di fronte a questo scenario, si può comprendere innanzitutto la nascita di questi testi, come pure il loro contenuto. Lo scopo dichiarato era di dare un’espressione formale al consortium fidei apostolicae, cioè a quella comunione nella fede apostolica che unisce il papa e i fedeli nella Chiesa.
Il primo dei testi, intitolato Indiculum Pontificis”, usa la forma stilistica di un discorso rivolto dal successore al predecessore, vale a dire il primo apostolo Pietro. A lui è diretta la professione dell’eletto che afferma la propria fede come retta, fondata da Gesù, consegnata a Pietro e tramandata attraverso i successori fino a lui, l’indegno neoeletto, il quale l’ha trovata presente nella santa Chiesa e da proteggere anche a prezzo del suo sangue.
Questa fede comprende i misteri della Trinità e dell’Incarnazione, così come gli altri “dogmata” della Chiesa consegnati dai concili ecumenici, dalle “constitutiones” dei papi e dei maestri provati della Chiesa. Si fa riferimento qui ai Concili di Costantinopoli, Efeso, Calcedonia e Costantinopoli II. Egli conserverebbe integri i loro insegnamenti “usque ad annum (probabilmente voleva dire: unum) apicem”. Altrettanto vorrebbe fare nei riguardi del concilio celebrato durante il pontificato del suo predecessore.
Parimenti l’electus si impegna a confermare e conservare tutti i decreti dei suoi predecessori.
Risalta con quale insistenza venga sottolineata, soprattutto nell’ultimo paragrafo del testo, la rigorosa conservazione di quanto ricevuto e tramandato: egli promette di conservare i sacri canoni e le decisioni dei nostri papi come delle leggi divine e celesti. Non viene nemmeno fatta distinzione tra il contenuto di fede intoccabile e valido per sempre (depositum fidei) e quello mutevole e contingente. Questo tradizionalismo quasi rigido che traspare da tale formulazione è forse dovuto alle incertezze e confusioni causate dalle diatribe dogmatiche – lo scisma tricapitolino e il monoteletismo – che andavano contrastate.
Visto che il testo indica papa Agato come predecessore del giurante, quest’ultimo potrebbe essere o S. Leone III o Benedetto II.
Ma con ciò non è finita. Nel Liber Diurnus segue la formula per la professio fidei dopo la consacrazione a vescovo di Roma sotto forma di un’estesa enciclica: “Episcopus sanctae catholicae atque ecclesia eurbis et apostolicae Romae… universae plebi…”.
Il papa comunica la sua elezione. Prosegue il testo: Anche se lui è indegno del ministero, tuttavia si trova in lui la pienezza salvifica e incolume della fede evangelica e apostolica: “evangelicae tamen atque apostolicae fidei salutaris integritas inlibata … in nobis est”. Allo stesso modo conserverà le “spiritales regulas” dei suoi predecessori e si appoggerà in ciò ai loro salutari insegnamenti. Si preoccuperà seriamente della fermezza della religione cristiana e della fede cattolica. Proprio di quella fede, appunto, che è stata tramandata dagli apostoli e che i loro discepoli e successori, i papi, hanno conservato invariata e difeso, mantenendo fedelmente la forma di tale tradizione apostolica (huius apostolice traditionis normam).
E poi segue l’elenco dei concili che hanno formulato questa fede. Citandoli vengono nominati anche i singoli imperatori convocanti e i papi, così come anche il numero dei vescovi partecipanti. Soprattutto vengono indicate distintamente le verità di fede ivi formulate come anche i nomi degli eretici contrastanti e perciò condannati. In ciò il nostro testo segue l’esempio di concili anteriori, a partire da Calcedonia (451), che procedevano in questo senso in diversi modi.
A differenza dei concili, la nostra enciclica contiene delle formulazioni più estese dei pronunciamenti cristologici e trinitari del II e III Costantinopolitano (553 e 680).
Infine il papa minaccia con l’anatema tutti coloro che osino affermare il contrario rispetto a queste tradizioni evangeliche o attentino all’incolumità della religione cristiana.
“Tale professione venga fatta affinché la piena rettitudine della nostra fede illumini ancora di più la chiarezza della vostra fede» (“ut sinceritasperfectaenostrae (sc. fideivestrae) claritatimanifestiusclareat”). Poi il papa depone questo documento con la sua firma presso il sepolcro di S. Pietro.
E’ difficile stabilire fino a quando tale usanza venisse osservata. Di sicuro il cardinale Deusdedit inserì il testo nella sua Collectiocanonum che pubblicò tra il 1083 e il 1087, cioè al tempo di Gregorio VII.
II
Passò molto tempo prima che, verso la fine del Trecento, questa usanza e questo testo fossero ricordati. Dal 20 settembre del 1378, nel cosiddetto scisma occidentale la Chiesa si era divisa dapprima in due, poi – dopo il fallimento del Concilio di Pisa nel 1409 – in tre blocchi o obbedienze. Alla vigilia del Concilio di Costanza che doveva ricomporre l’unità, i riformatori facevano ricorso a una Professio fidei che si credeva – erroneamente – risalisse testualmente a Bonifacio VIII (1294-1303). In realtà, si trattava di un testo scritto ad hoc seguendo degli esempi presi dal Liber Diurnus. La risultante formula di una professione di fede papale si metteva a fondamento delle consulte della riforma di Costanza che di seguito promulgava nella sua sessione XXXIX il 9 ottobre 1417 il decreto Quanto Romanus Pontifex:
“Quanto più il papa rifulge tra tutti i mortali per la sua altissima potestà, tanto più conviene che egli sia legato da chiari vincoli di fede e dall’osservanza dei riti dei sacramenti della chiesa.
Perché, quindi, nel futuro romano pontefice, fin dagli inizi della sua elezione risplenda di luce singolare la pienezza della fede, stabiliamo e ordiniamo che da ora in poi chiunque sia eletto romano pontefice, prima della pubblicazione della sua elezione faccia pubblicamente dinanzi ai suoi elettori la seguente confessione e professione.
In nome della santa ed indivisa Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo. Amen.
Nell’anno ecc. del Signore, io… eletto papa, col cuore e con la bocca confesso e prometto a Dio onnipotente, la cui chiesa col suo aiuto mi accingo a governare, e al beato Pietro, principe degli apostoli, che fino a quando vivrò questa mia fragile vita, crederò e terrò fermamente la fede cattolica, secondo le tradizioni degli apostoli, dei concili generali e degli altri santi padri, specialmente degli otto concili universali, e cioè: del primo, Niceno; del secondo, Costantinopolitano; del terzo, Efesino; del quarto, Calcedonia; del quinto e del sesto, ugualmente di Costantinopoli; del settimo, similmente di Nicea; dell’ottavo, ugualmente di Costantinopoli; ed inoltre del Lateranense, di quello di Lione, e di Vienne, concili generali anch’essi. Osserverò immutata fino nei suoi minimi particolari questa fede, la confermerò, la difenderò e la predicherò anche con la vita e il sangue; seguirò ed osserverò, similmente, in ogni modo, il rito dei sacramenti trasmesso dalla chiesa cattolica.
Questa mia professione e confessione scritta per mio volere dal notaio e archivista della santa chiesa romana è stata da me sottoscritta di mia mano; ed io la offro sinceramente a te, onnipotente Dio, con mente pura e devota coscienza sull’altare di.... alla presenza dei tali e tali. Data…”.
Questo testo è notevole sotto diversi aspetti. Paragonandolo con i precedenti nel Liber Diurnus e con le bozze del comitato di riforma di Costanza si vede che nel decreto di Costanza non si parla più delle rivendicazioni di competenza e di altri temi giuridici riguardanti il governo della Chiesa.
Soprattutto risalta che – a differenza delle formule del Liber Diurnus – nella Professio fidei di Costanza non sono contenuti di fede, come la Trinità o l’Incarnazione, ad essere l’oggetto della professione. Piuttosto vengono elencate soltanto le autorità che hanno esposto la fede apostolica, definendola rispetto alle diverse eresie sorte nel corso del tempo. Sono esse che garantiscono per la fede. Perciò in questo testo piuttosto teologico-tecnico bastava richiamarsi a tale autorità.
Esse sono la tradizione apostolica, i concili generali e “altri padri santi”. In particolare si tratta degli otto concili ecumenici dell’antichità – nei quali viene incluso stranamente anche il concilio dell’ 869/70 – e ai quali vengono equiparati il IV Concilio Lateranense, il II Concilio di Lione del 1276 e il Concilio di Vienne del 1311/12. Non sono elencati i primi tre Concili Lateranensi, ma ciò non significa che non fossero considerati ecumenici: il motivo per cui non erano da nominare in una professione di fede sta, piuttosto, nel fatto che in essi non furono decise questioni di fede.
Il neoeletto doveva dunque professare e giurare di confermare, predicare e difendere a prezzo del proprio sangue, “usque ad animam et sanguinem”, la fede dichiarata di questi concili ecc., fino all’ultima virgola “usque ad unum apicem”. Lo stesso promette per i sacramenti e i loro riti trasmessi dalla Chiesa cattolica.
Per una migliore comprensione di questo decreto si deve tener conto che fu formulato e promulgato in una situazione di forte conflitto tra papa, cardinali ed episcopato. Ciò trova eco nell’introduzione del decreto. Se da un lato viene sottolineata la pienezza del potere papale, unico tra i mortali, si fa notare contemporaneamente che proprio perciò lui debba essere vincolato attraverso i legami della fede e obbligato ad osservare il rito dei sacramenti ecclesiali. “Perché, quindi, nel futuro romano pontefice… risplenda di luce singolare la pienezza della fede”, egli deve recitare all’inizio del suo ministero la professione di fede sopraccitata. Infatti, il papa non sta al di sopra, ma dentro la Chiesa; anche lui è un credente in mezzo ai credenti.
Sebbene il Quanto Romanus Pontifex avesse goduto di tutta l’autorità che spetta a un decreto conciliare, non ha avuto delle conseguenze storiche. Non è nemmeno stato accolto nella tradizione canonica o nella legislazione. La ragione si trova probabilmente nel fatto che dopo la fine dello scisma e la ricostruzione dell’unità non ci fosse più motivo di forzare a mettere in pratica il decreto.
III
Se ora guardiamo indietro, vediamo come tutte le professiones fidei dei papi qui citate – quelle del Liber Diurnus, quelle dei Concili di Costanza e di Trento e infine quella di Paolo VI – siano state delle reazioni a delle serie crisi di fede, delle risposte dei papi ai pericoli per la fede genuinamente cattolica in un contesto storico ogni volta diverso.
Il contesto storico della professio fidei del papa prima e dopo l’elezione contenuta nel Liber Diurnus era determinato dalle discussioni cristologiche e trinitarie e infine dalla crisi del monoteletismo, che non si erano più placate dopo il concilio di Nicea (325). Erano esplosi dei conflitti violentissimi che infiammavano ancora il III Concilio di Costantinopoli. In tale situazione furono eletti i papi Leone II (682) e Benedetto II (684) – questi sono molto probabilmente gli anni nei quali fu redatto il nostro testo. In quelle circostanze una professione di fede univoca e articolata del papa neoeletto era di importanza vitale per l’unità della Chiesa sulla base della vera fede, espressa in modo chiaro.
Quando il 9 ottobre 1417, il Concilio di Costanza – nel frattempo divenuto veramente ecumenico – promulgava il decreto Quanto Romanus Pontifex (con testo annesso) sulla professio fidei da prestare dal papa neoeletto, le circostanze erano sostanzialmente diverse, ma altrettanto significative per l’unità della Chiesa, cioè un contesto di scisma. Il concilio si trovava alla vigilia dell’elezione finalmente possibile di un nuovo papa universalmente riconosciuto e, così, davanti all’ultimo passo verso una riconciliazione nella Chiesa che si sperava desse unità e pace dopo quattro decenni di confusione e conflitti. In retrospettiva, durante questo brutto periodo, risultava evidente la necessità di un fermo punto di riferimento in forma di un nuovo papa e di una sua pubblica professione di fede. Tale decreto, insieme al decreto Frequens con il suo capitolo Si vero promulgato nella stessa sessione, era lo strumento per la gestione della crisi che portò, infine, al successo.
Nella stessa ottica va vista la Professio fidei Tridentina di papa Paolo IV che egli propose alla Chiesa con la bolla Iniunctumnobis del 13 novembre 1565. Era questo il passo decisivo con il quale il papa sfidò la Chiesa, dopo un periodo di confusione confessionale, a raggiungere una nuova chiarezza del Credo. Lì, dove le rispettive autorità ecclesiastiche e civili, soprattutto i sacerdoti e maestri, avevano giurato su questa professio, si è originato un nuovo impulso di rinnovamento della Chiesa, la riforma tridentina.
In una situazione paragonabile, cioè nella confusione circa la giusta interpretazione del Concilio Vaticano II, nella festa dei santi Pietro e Paolo il beato papa Paolo VI ha dovuto persino deplorare che il fumo di Satana sia entrato nell’interno della Chiesa. Con grande preoccupazione circa la verità e la chiarezza della fede egli ha proclamato a conclusione dell’“Anno della Fede”, il 30 giugno 1968, il suo “Credo del popolo di Dio”. E’ stato il primo a proclamare con questo gesto il suo credo personale davanti a migliaia di persone per proporlo successivamente a tutta la Chiesa. Ciò avveniva all’apice della rivoluzione culturale del 1968 che ha avuto delle profonde conseguenze anche nella Chiesa. Nello stesso anno al Katholikentag di Essen si arrivava addirittura a protestare in modo violento contro l’enciclica Humane vitae di Paolo VI, documento magisteriale con carattere profetico e provvidenziale come da allora sempre più si riconosce.
Ancora una volta nella storia l’incorruttibilità della pietra di Pietro, della Cathedra Petri, si è rivelata come faro al di sopra degli errori del tempo.
Walter Brandmüller è stato presidente del Pontificio comitato di Scienze storiche dal 1998 al 2009. Il 20 novembre 2010 è stato creato cardinale da Benedetto XVI. Questo articolo è apparso in lingua tedesca nel numero di agosto della rivista Die Neue Ordnung.