Piazze al posto di chiese. E il negoziato tra Cina e Vaticano va in stallo
Trattative difficili e resistenza silenziosa dei fedeli
Roma. Gli sforzi della Santa Sede per trovare un’intesa con la Cina sono in una fase di stallo, scrive il Washington Post ricapitolando gli ultimi anni di trattative, per lo più sottotraccia, volte a ristabilire quantomeno un legame effettivo della chiesa di Roma con il clero del grande paese asiatico. Per le relazioni diplomatiche, sospese dai primi anni Cinquanta del secolo scorso, ci sarà tempo. Molta disponibilità, negoziati intensi e costanti che però vivrebbero ora un momento di pausa. Che possa, questa, essere salutare o meno, lo dirà il tempo. Il problema, sottolinea il quotidiano americano, è che “ancora nessuna delle due parti è disposta ad accettare i vescovi nominati dall’altra parte”. Pechino perché non vuole intromissioni e punta a mantenere il controllo totale sulla chiesa di stato, la Santa Sede perché – come ribadiva Benedetto XVI nella Lettera ai cattolici cinesi del 2007 che vide l’apporto non irrilevante dell’attuale segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin – “la nomina dei vescovi da parte del Papa è garanzia dell’unità della chiesa e della comunione gerarchica”.
Nei mesi scorsi, il cardinale John Tong Hon, da poco vescovo emerito di Hong Kong, in una lunga lettera diffusa in più lingue, spiegava che “gli sforzi compiuti per tanti anni dalla chiesa cattolica a riguardo di questo problema hanno gradualmente guadagnato la riconsiderazione del governo cinese; si vuole raggiungere un accordo con la Santa Sede relativo alla nomina dei vescovi in Cina e cercare insieme una soluzione accettata da entrambe le parti”. L’obiettivo, aggiungeva, “è da un lato di non danneggiare l’unità fondamentale della chiesa cattolica e l’integrità dell’autorità della Santa Sede nell’iter di nomina dei vescovi; dall’altro lato, fare in modo che l’autorità del Santo Padre nel nominare i vescovi non sia considerata una intromissione nella Cina”. Poi qualcosa è cambiato, se è vero che “le notizie che abbiamo sentito di recente non sono così buone”, ha detto sempre al Washington Post Jeroom Heyndrickx, dell’Università cattolica di Lovanio. Dopotutto, il Partito comunista ha di nuovo (e di recente) ribadito ai suoi novanta milioni di aderenti che l’ateismo è un requisito ferreo e che la religione è incompatibile con il socialismo.
Che la situazione resti complicata lo dimostra anche quanto avvenuto nei giorni scorsi a Wangcun, dove le autorità governative avevano ordinato la demolizione di una chiesa cattolica dedicata a santo Stefano per fare spazio a una “piazza per il popolo”. Appena giunti sul posto i bulldozer, decine di fedeli si sono schierate a difesa dell’edificio, gridando (come si vede dai video diffusi) “Gesù salvami!” e “Madre Maria, abbi pietà di noi”. Diversi sacerdoti sono stati feriti negli scontri con le forze dell’ordine. Solo di recente, dopo la restituzione alla diocesi risalente al 2012, le autorità avevano autorizzato il restauro della chiesa, costruita nel primo Novecento. I lavori erano già iniziati quando è stato deciso di raderla al suolo per le consuete ragioni urbanistiche che già qualche anno fa avevano spinto il Partito comunista dello Zhejiang a disporre la rimozione di più di 420 croci perché ree di “deturpare lo skyline”. Il sito della diocesi, che dava conto dei sit-in di protesta contro le ruspe, è stato oscurato, così come i social network che raccontavano quanto stava accadendo dinanzi alla facciata della chiesa di santo Stefano. Della silenziosa protesta sono rimaste alcune foto: uomini e donne con gli occhi chiusi e le mani giunte in preghiera, qualche prete in camice e stola rossa seduto davanti alle ruspe. Alla fine, il governo ha deciso di sospendere la demolizione del sito (chiesa e mura circostanti). Resta da vedere se si tratti d’una misura temporanea o definitiva.
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