In Francia tutto è pronto per "processare la gerarchia della chiesa"
Il cardinale Philippe Barbarin a giudizio: è accusato di avere coperto sacerdoti che hanno abusato sessualmente su minori
Roma. Il cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione e primate delle Gallie, va a processo. Il 4 e 6 aprile del 2018 dovrà presentarsi davanti ai giudici che decideranno se assolverlo o condannarlo per la solita, vecchia storia di presunte coperture di sacerdoti colpevoli d’aver abusato sessualmente su minori. Ormai si conosce ogni risvolto, anche il più nascosto, della vicenda. Tra il 1986 e il 1996, Bernard Preynat, prete, abusò dei ragazzini che facevano parte del gruppo scout affidatogli. Barbarin, secondo l’accusa, non avrebbe punito a dovere il sacerdote, o meglio, l’avrebbe fatto solo nel 2015, cioè tredici anni dopo essere diventato arcivescovo della città francese. Il cardinale aveva risposto che lui s’era mosso solo allora per il semplice motivo che prima non aveva avuto alcuna prova né, tanto meno, una testimonianza attendibile e diretta di quanto accaduto un quarto di secolo fa. Una volta avuto i riscontri del caso aveva agito, sospendendo immediatamente Preynat da ogni incarico, compreso quello di celebrare messa. Insomma, la grazia non l’aveva data neppure lui, al “malato” del caso.
Le associazioni delle vittime avevano però subito invocato pene esemplari, chiedendo alla laica République di mettere ai ceppi Barbarin e al Vaticano di rimuoverlo dall’incarico con disonore. Il tutto accompagnato da una richiesta d’udienza al Papa in persona, cortesemente rispedita al mittente. La giustizia frattanto si muoveva, interrogava per dieci ore di fila il cardinale, su cui pendeva l’accusa di “aver occultato un crimine”, e che crimine: pedofilia. Poi, nel silenzio mediatico, la procura decideva di archiviare tutto, mettendo per iscritto che “non c’è stata alcuna infrazione penale da parte dell’interessato”. Del non luogo a procedere si è saputo solo perché la diocesi, sette mesi dopo la scelta dei giudici, ha deciso di darne notizia. Fine della storia, si poteva logicamente presumere. E invece no, perché su richiesta e pressione di alcune vittime, un giudice ha deciso che è meglio andare fino in fondo, portando il cardinale in Aula. L’accusa, sempre la stessa: copertura. Ma non è finita qui, perché stavolta il mandato di comparizione riguarda anche altre quattro persone, tra cui il novello prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, mons. Luis Francisco Ladaria Ferrer, che da segretario del dicastero anni fa suggerì – secondo una lettera recuperata durante le perquisizioni del caso – a Barbarin di “prendere le misure disciplinari adeguate per evitare lo scandalo pubblico”. E, poco avvezzi di consuetudini ecclesiastiche, i magistrati hanno interpretato quella consegna alla stregua d’un ordine di buttare la polvere sotto il tappeto, lasciando al suo posto Preynat.
Il problema, al di là dei cavilli legali e dei comportamenti più o meno ambigui, è che l’occasione s’è fatta ghiotta per processare pubblicamente la chiesa stessa, un po’ come era abituale negli anni del Terrore rivoluzionario, con i preti chiamati a rispondere delle loro colpe e la ghigliottina dalla lama ben affilata lì accanto. E per capirlo è sufficiente leggere quel che ha detto Monsieur Pierre Germain Thill, una delle vittime del capo-scout Preynat: dopo essersi congratulato con i giudici per la decisione di trascinare l’arcivescovo (che, per la cronaca, all’epoca dei fatti non era neppure vescovo), ha chiarito che tutto questo servirà “per fare evolvere la mentalità” della chiesa e comunque “non si tratta di un processo a un aggressore ma alla gerarchia della chiesa”. Robespierre non avrebbe saputo dirlo meglio. Dalla diocesi, invece, un solo commento: “E’ accanimento”.