Anziché ispirarsi a modelli stranieri, bisogna costruire un vero islam italiano
Esempi da non importare e nuove strade da percorrere
Il magmatico mondo dell’islam italiano vive in queste ore una nuova, e importante, tappa della sua evoluzione con l’elezione del deputato del Partito democratico Khalid Chaouki a presidente del Centro islamico culturale d’Italia. La fondazione del centro risale al 1966, successivamente con l’aumento della popolazione musulmana residente nella città di Roma è stata avvertita la necessità della costruzione di una moschea. Ci troviamo così con la moschea di Monte Antenne, inaugurata nel 1995 e costruita grazie alle donazioni di numerosi paesi come l’Arabia Saudita, il Marocco, la Libia e donatori privati. Il Centro islamico culturale d’Italia è l’unico ente riconosciuto giuridicamente come “ente morale di culto”, caratteristica che lo pone in una posizione ottimale nel caso di eventuali iniziative politiche volte alla stipulazione di un’intesa ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione con una o più rappresentanze dell’islam italiano.
Il Centro è la naturale espressione dell’“islam degli stati” e delle ambasciate che appare però rappresentare con difficoltà l’islam delle periferie delle città, dei paesi dove ormai alle prime generazioni dell’emigrazione si affiancano le seconde generazioni di musulmani nate in Italia e molti cittadini con passaporto italiano di fede musulmana. L’elezione di Chaouki sembra quasi una presa di coscienza con la quale provare a smarcarsi dall’etichetta di “islam degli stati”. Nella lotta per l’egemonia interna alle dinamiche del Centro culturale e della moschea appare in ascesa il ruolo del governo marocchino e del suo modello di gestione dell’islam incentrato sul ruolo dello stato e dei poteri pubblici. Del resto, come lo stesso Chaouki evidenziava in un comunicato del 29 settembre, il Marocco costituirebbe un modello di “islam moderato” da prendere a riferimento e per questo motivo andrebbero rafforzate la cooperazione e gli scambi con il paese di re Mohammed VI. Appaltare a stati stranieri la gestione dell’islam, ad esempio mediante la formazione degli imam, o la gestione dei finanziamenti alle moschee, è stata una tentazione alla quale molti governi europei hanno ceduto. I risultati non sono stati buoni.
Basta pensare alla possibile strumentalizzazione di imam da parte di governi esteri o alla gestione delle donazioni e dei finanziamenti delle moschee come strumenti di diplomazia parallela e radicalizzazione religiosa. Ci sarebbe poi da chiedersi quanto il modello marocchino risponda agli obblighi, alla necessità e alla tradizione del principio di laicità imposto dalla Costituzione italiana e dal principio di non intervento dello stato nelle dinamiche interne delle differenti religioni. Un modello in cui il capo di stato è capo spirituale dei fedeli ed è molto influente nella costruzione del discorso pubblico sull’islam appare lontano dalla nostra tradizione. Mentre il Centro islamico culturale d’Italia continuerà sicuramente a essere un attore di primo piano nelle dinamiche politiche dell’islam italiano, le istituzioni italiane sono chiamate non a ispirarsi a modelli stranieri da importare ma alla costruzione di un vero “islam italiano” così come affermato nel Patto stipulato il 1 febbraio 2017 al Viminale.
E’ un percorso che il ministero dell’Interno ha già cominciato e che dovrà continuare nel rispetto e nella valorizzazione delle nostre tradizioni e dei valori costituzionali: la libertà di coscienza; la libertà di religione; l’uguaglianza tra uomo e donna; il principio di laicità. Politicamente c’è da chiedersi quanto l’elezione di un parlamentare in carica, espressione quindi di una ben definita parte politica, aiuterà il Centro islamico nella realizzazione di questi obiettivi. Resta da vedere quanto i partiti italiani intenderanno investire sulle politiche pubbliche per la gestione del fenomeno religioso. Non si può appaltare tutto all’estero.