Dubbi sul nuovo ecumenismo
Lutero in affitto
La chiesa di Francesco dialoga con i protestanti riscrivendo la propria storia. Altro che “nuova evangelizzazione”. Rileggere Benedetto XVI per capire i danni della Riforma
Pace e bene, come dicono i francescani in segno di saluto. Pace e bene, nonostante tutto. Cattolici e luterani vorrebbero celebrare insieme, o quasi insieme, il quinto centenario delle 95 tesi di Wittenberg contro le indulgenze. Ma come vedremo c’è qualche problema, utile da ricordare in questo 31 di ottobre.
Ecumenismo, si dice, unità dei cristiani. La fede pretende l’universalità, intanto quella dei credenti in Gesù Cristo figlio del Dio vivente, poi con il dialogo inter-religioso si vedrà come procedere. Il dialogo e la convergenza tendono a non avere confini né destinazioni finali. Il cardinale Walter Kasper, autore della teologia in ginocchio amata dal Pontefice e fautore del sacramento eucaristico libero per la somministrazione a coscienze peccatrici inquiete (relazione segreta al Concistoro, pubblicata dal Foglio a sorpresa, e Amoris laetitia), evoca una frase prestata al Riformatore o, come preferiva definirsi lui, che era un semplice professore di Teologia e pamphlettista di mostruosa fecondità, all’evangelico frate e dottore Martino: “Se l’Apocalisse fosse per domani, ancora oggi pianterei un melo”. E il cardinale pianta un tiglio nel giardino del vecchio, colossale nemico della chiesa cattolica romana. Il Papa porta un suo busto nella sala Nervi, dove si fa la catechesi, l’istruzione orale della dottrina della fede cristiana. Francesco officia un anno fa un rito bilaterale a Lund, in Svezia, dove il luteranesimo è religione di stato nel paese più secolarizzato del mondo, con il capo delle chiese luterane. Non si spinge a presenziare alla Festa della Riforma che si tiene oggi con Angela Merkel, figlia di un pastore luterano, a Wittenberg in Sassonia, nella capitale del movimento riformatore, ma in fondo sarebbe nelle cose. Nel 1999 i due tronconi maggiori del cristianesimo che nel Cinquecento si era diviso, cattolico e protestante, si erano messi d’accordo su una dichiarazione comune, non univoca, che intendeva ratificare e porre in comune la scoperta dirompente e decisiva di Lutero, quella stessa scoperta che i teologi ecclesiastici e molti studiosi, ultimo il teologo Bruno Forte, si affannano da tempo a considerare soltanto il ribadimento della dottrina secolare e del vissuto della pietà cattolica. Dio, diceva Lutero, non salva per la carità, i meriti, le opere, l’azione dell’uomo, ma gratuitamente e per sola fede, e la grazia viene dall’esterno dell’uomo peccatore e lo fa giusto senza togliergli il peccato, anzi, lo salva nella misura in cui egli è capace di accusarsi del peccato suo costitutivo, pentirsi sempre e accettare anche la pena dell’inferno se Dio lo vuole, altro che indulgenze.
Ma qui casca l’asino, parlando con rispetto della chiesa di rito latino ovvero dell’istituzione forse più erudita e colta del mondo occidentale, anzi, senza forse. Ai suoi reggitori pastorali e teologici piacerebbe probabilmente che passasse una vulgata, una semplificazione: la chiesa del papato rinascimentale era bella ma corrotta al punto di sostenere, con il predicatore Johann Tetzel, la bestia nera del monaco agostiniano in rivolta che affisse le tesi (o non le affisse, ma fa lo stesso): non appena la moneta sonante raggiunge il fondo della cassetta subito l’anima per cui si intercede se ne fugge dal purgatorio.
A quel tempo (a quel tempo?) gli umani avevano molta paura della morte, e ridare la vita eterna alle anime in pena era un modo di rassicurarsi sulla propria pena di vivere, mettendo al sicuro con una lettera di indulgenza, un certificato ottenibile contro un tariffario preciso di versamenti, il perdono, appunto, dei propri peccati. Cristo e i santi, si diceva ormai da secoli, avevano costituito un tesoro di meriti esorbitanti, si poteva fare una redistribuzione. Si poteva, e come sempre quando si parla di Germania (specie dopo Lutero) questo è uno scandalo, ristrutturare e abolire il debito, die Schuld, la colpa (che poi è la stessa parola, come si sa dopo la crisi finanziaria greca).
Si poteva, e come sempre quando si parla di Germania questo è uno scandalo, ristrutturare e abolire il debito, die Schuld, la colpa
La semplificazione in realtà ebbe successo da subito, com’era naturale viste le circostanze. E accadde che le sottigliezze o i radicalismi teologici, che sono quel che conta davvero in tutta la storia, quel che ha accompagnato e formato caratteri decisivi dell’epoca moderna, fino a ieri, fino a oggi, furono trasformati in faccende per dotti e specialisti messi in ombra dallo scontro tra la riscoperta della Parola evangelica nella sua scabra nudità, da una parte, e la grande fiera o industria finanziaria, dall’altra, alimentata dai cospicui banchieri Fugger non meno che da vescovi e papi e religiosi e preti ordinati e certi principi, quella fiera popolare della monetina che libera le anime dei morti, concede l’assoluzione ai vivi e consente di costruire San Pietro e tenere sotto la “bestia germanica” (questa era l’opinione che dei tedeschi avevano a Roma, dove trionfava sotto il segno dell’umanesimo una paradossale “rinascita del paganesimo antico” fatta di sensualità e belle arti, molto belle). Ma se vuoi dialogare, ricucire, se vuoi una pastorale di tendenziale comunione con i fratelli separati, bisogna fare un passo avanti rispetto alla guerra tra il Bello e la Bestia, non ci si può limitare a dire che le cose sono cambiate, che a Roma c’è una chiesa “povera e per i poveri”, come dice Francesco, e che i Giubilei non sono più da tempo opere di penitenza coatta e ben finanziata bensì segni di misericordia e di gaudio evangelico (Evangelii gaudium). Infatti luterani e affini in cinque secoli hanno generato una coscienza di sé o autocomprensione che va molto al di là della polemica furiosa e apocalittica contro la chiesa dell’Anticristo, la Babilonia delle opere monetizzate. Sono in questione, e lo furono da subito, nei primi decenni del Cinquecento, la natura della fede divina e la natura della ragione umana, la coscienza e il libero arbitrio, mica frottole.
Se vuoi ricucire con i fratelli separati, bisogna fare un passo avanti, non ci si può limitare a dire che le cose a Roma sono cambiate
Lutero credeva di aver avuto una nuova rivelazione quando aveva scoperto che non sono le opere a fare l’uomo giusto con la gentile collaborazione della Grazia ma è la Grazia che rende giusto o salvo (e pur sempre peccatore) l’uomo e dunque fa buone le sue opere. Lutero agostiniano aveva incontrato il suo Cristo e la sua teologia della Croce come Paolo di Tarso caduto da cavallo, un incontro personale, esistenziale, di coscienza, sorretto da un metodo di lettura libera e senza intermediari della Parola, e per quanto civettasse con l’idea umana troppo umana di essere solo un dottore in teologia e un amabile sposo e padre di famiglia, il suo fu un comportamento di profeta. Non ce l’aveva con le indulgenze perché la chiesa era corrotta, ce l’aveva con la chiesa perché non aveva posto nella sua scoperta del vangelo come esperienza del soggetto credente, dell’uomo giusto e peccatore che può sperare il perdono di Dio solo in quanto accetta di accusarsi del peccato originale nel senso più profondo e comprensivo del termine, solo in quanto ama la sua pena e non vuole fuggirne, altro che indulgenze, è pronto anche ad andare all’inferno se Dio lo vuole, e con un cuore ardente che soffre con il Cristo crocifisso. Via le sottigliezze dell’aristotelismo cristiano, del tomismo scolastico, via la fede che dice la sua ragione, via i sacramenti e la pompa superstiziosa della chiesa di Roma. Con un tipo così e con il suo lascito non è facile sbrigarsela né in pastorale né in teologia. Cinquecento anni dopo il problema è ancora tutto lì, squadernato davanti ai maestri di dottrina che fanno speculazione teologica in ginocchio.
E che cosa si sono inventati per tentare di risolverlo? Essendo persone di grande cultura e intelligenza, e in pari tempo furbissime, hanno rovesciato l’impostazione di un famoso domenicano della seconda metà dell’Ottocento (morto nel 1905), Friedrich Heinrich Suso Denifle. Questo formidabile confratello di Tetzel, quello del soldino che salva le anime, era il numero due all’archivio vaticano, un medievista di spicco, e pubblicò a sorpresa, su un argomento di cui non era specialista, un libro vivace ed erudito l’anno prima di morire, “Lutero e il luteranesimo”, che suscitò enormi controversie. Denifle mise a fuoco cultura e teologia perché il suo libro conteneva una sterminata sequenza di accuse alla persona dell’eresiarca e, per lui, di “demistificazioni” della sua leggenda in ambito protestante, leggenda ormai in procinto di essere almeno in parte incorporata anche dalla storiografia e dall’esegesi luterana di parte cattolica. Il grande storico del Novecento Lucien Febvre, fondatore della scuola delle Annales con Marc Bloch, a quelle pagine scandalose e apparentemente strambe dedicò vent’anni dopo un suo eccezionale libretto, “Martin Lutero, un destino”, con capitoli critici, e rispettosi anche nel dissenso, di inarrivabile intelligenza. E segnalò che nella sostanza, alla fine, dopo una analisi storica ed esegetica della personalità per lui ribalda del cattivo monaco concupiscente, debole, un pazzo che voleva salvarsi da solo, Padre Denifle aveva tratto e argomentato questa conclusione: Lutero era un imbroglione di ricchi talenti, pretendeva di aver scoperto cose che la chiesa alla quale si ribellava aveva predicato nei secoli, prima di tutto il Dio misericordioso che rende l’uomo salvo o giusto nella e per la fede, altro che imputare blasfemia alle opere.
Dire che i Papi medicei erano non cattolici, mentre il monaco insubordinato lo era, è troppo grossa per passare dalla cruna di un ago
Il severo teologo gesuita Hartmann Grisar subito corresse l’unilateralità di Denifle con tre volumi di storia luterana altrimenti orientati. Ma ora, cent’anni dopo quelle dispute, i gesuiti sono al potere in Vaticano e, mentre forme di evangelismo militante e altre derivazioni che una volta si sarebbero dette settarie o ereticali dilagano in quella fine di mondo da cui l’ultimo Conclave ha tratto il nuovo Papa, e nel Nordamerica e in Africa e altrove, la teologia cattolica ufficiale, di stampo tedesco, celebra i cinquecento anni delle tesi di Wittenberg rovesciando il giudizio fatale di Denifle con un salto acrobatico: Lutero, dicono, non era affatto un imbroglione, questi toni nel dialogo ecumenico per l’unità dei cristiani non si portano ovviamente più, e per fortuna, ma – ecco la trovata – frate Martino era cattolico, in un certo senso più cattolico dei cattolici. La ricerca più recente, avverte il cardinale Kasper citando il teologo Joseph Lortz e il suo libro del 1949 sulla Riforma in Germania (Lortz, uomo di buoni studi e rette intenzioni, era uscito nel 1938 dal Partito nazionalsocialista, ed era un ecumenista cattolico), ha stabilito che “Lutero ha denunciato un cristianesimo che non era davvero cattolico, e così ha riscoperto qualcosa di fondamentalmente cattolico”. Oltre tutto, aggiunge Sua Eminenza, “sulla questione evangelica, nel senso originario del termine, Lutero era stato preceduto da una lunga tradizione di rinnovatori cattolici” e, dopo aver citato in merito Francesco d’Assisi, conclude che del caso luterano si parlerebbe oggi come di una “nuova evangelizzazione”. Strano ma vero, eppure forse fondamentalmente falso. Spiace per l’ecumenismo, che è questione matura, anche se non si sblocca di molto perché certi dissensi e certe guerre teologali non sono facili argomenti da armistizio, ma fondare le celebrazioni unitive sull’idea che i papi medicei, i loro grandi teologi tomisti come il Caietano, primo interlocutore di Lutero, e le loro opere, a partire da San Pietro e da Raffaello Sanzio, per dire, si muovevano nell’ambito di un cristianesimo non cattolico, mentre il vero cattolico era quel meraviglioso e profetico monaco insubordinato ai sacramenti e alla chiesa nel nome di una relazione personale con Dio, bè, come sottigliezza questa è grossa, è troppo spessa per passare dalla cruna dell’ago.
Non solo l’islam: a Ratisbona Ratzinger criticò i postulati e gli sviluppi storici della Riforma, facendo infuriare anche i protestanti
Più sottile dialogare su basi serie. Lutero fu l’esplosione del cuore credente contro la sapienza cristiana ed ecclesiale, fu l’individualizzazione esistenzialista della fede, e in questo raggiunse vette teologiche immense, e un “destino”, per usare la celebre dicitura di Febvre, che ha pochi paragoni nella storia. Quel monaco fantastico si era stufato dell’essere, dell’oggetto speculativo, ed ebbe rivelata una fede solo scritturale, esterna all’uomo e al suo intelletto razionale. Nel suo discorso di Ratisbona Benedetto XVI aveva usato il dialogo tra l’imperatore bizantino e il dotto persiano, sul tema della violenza insegnata da Maometto che è contraria alla natura di Dio e della ragione umana, come sanno i meno sbrigativi tra i suoi lettori, per una tirata storica e teologica contro lo spirito dei tempi moderni. Alla base aveva messo l’idea luterana di una “forma primordiale della fede”, legata alla sola scrittura biblica e de-ellenizzata, cioè bruscamente amputata del logos greco, di Aristotele, maestro di san Tommaso. Poi aveva citato Immanuel Kant, e il suo illuminismo epistemologico: per fare spazio alla fede, diceva il filosofo, devo rinunciare al pensare. Poi citava la teologia liberale protestante tra Ottocento e Novecento, che puntava sull’umanizzazione di Gesù Cristo, generativa di un culto semplice e moralmente ordinato, una specie di umanitarismo. Poi criticava il positivismo e il pensiero delle scienze naturali che anch’esso autolimita la ragione e la confina nell’esperimento, nei suoi indubbi successi tecnici, nel suo rapporto esclusivo e geloso con quel che è o sarebbe la verità, e nell’idea di una struttura matematica della materia. Poi tirava in ballo la pretesa de-ellenizzante di tornare alle origini neotestamentarie per fare spazio alla molteplicità culturale che non può riconoscersi nell’impianto di idee dell’occidente cristiano. Ratzinger concludeva citando Socrate, dico Socrate, che si rivolse a Fedone come lui si sarebbe rivolto in dialogo a Lutero, dopo aver sentito tanti discorsi filosofici sbagliati: “Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell’essere e subirebbe un grande danno”. Bè, non si arrabbiarono solo gli islamici, e di brutto, per quel modo di rievocare il jihad musulmano, si arrabbiarono anche i protestanti liberali, e molto, sebbene in forme più civilizzate, perché con quelle tirate di Ratisbona Ratzinger, il Professore, aveva preso di mira il mondo e i postulati della Riforma protestante e i suoi sviluppi storici e ideologici. Era il 12 settembre del 2006, Cinquecento anni dalle tesi di Wittenberg meno undici.