La guerra della modernità al diverso passa dallo sterminio legale dell'aborto, dice il Papa
Se ne è accorto perfino Gian Antonio Stella. E noi lo sappiamo bene
Il Papa a Santa Marta ha usato la sua abituale predicazione biblica del mattino per un’apologia del martirio di Eleazaro (2Maccabei 6, 18-31) contro la colonizzazione culturale del popolo di Israele sotto Antioco Epifane. Dice sulla scorta del racconto scritturale che Eleazaro preferisce il patibolo al compromesso della finzione, le nuove istituzioni vogliono ingozzarlo di carne di maiale, che lui sputa, e i suoi vecchi conoscenti gli suggeriscono di mangiare carne kosher e però di dire che si è sottomesso al dettato del nuovo potere, delle nuove istituzioni della colonizzazione culturale. Eleazaro rifiuta, si fa radice esemplare per le generazioni future, radice delle radici, e va al patibolo sereno per farsi abbracciare tra atroci sofferenze dalle braccia dell’Onnipotente. Le nuove istituzioni, specifica Francesco, non sono idee moderne, sono obblighi ideologici, culturali, consuetudini che diventano correttezza politica, uniformità, negazione della differenza, insulto ai costumi del popolo radicati nel tempo, idoleggiamenti di un presente reso eterno dalle nuove disposizioni della modernità, cioè nuove istituzioni coattive, moralmente sorde a tutto ciò che le mette in discussione. E alla fine implicano la persecuzione culturale dei credenti, diversa dalle persecuzioni politico religiose come la strage di San Bartolomeo o la guerra dei trent’anni, diversa dalle persecuzioni del culto religioso libero.
Ci è familiare questa idea della guerra culturale alle diversità, specie se il Papa, come fa, la esemplifica, a contrasto con la civiltà cristiana o con l’annuncio evangelico, con lo sterminio accettato dei bambini, che poi sarebbe la soglia di un miliardo di aborti legalizzati, soglia sorpassata di gran lunga a dieci anni dalla nostra campagna laica, e devota, per una moratoria degli aborti, e a dieci anni dall’uscita del film hollywoodiano “Juno”, storia di una ragazza che rifiuta l’odore di anticamera del dentista di una clinica per aborti e conclude, dopo aver partorito e affidato a una nuova coppia il frutto del suo ventre, “bisognerebbe sempre innamorarsi prima di fare un figlio”. Che la risposta cristiana sia e possa essere solo il martirio ne dubitiamo laicamente, ma alla fine non è affar nostro.
Gian Antonio Stella segnala ieri nel Corriere della Sera, e con toni giustamente accoranti, che dell’aborto sono vittime ormai soprattutto le femmine. Ah, ecco, il femminicidio nascosto, tanto per dirla in modo che suoni politicamente corretto ai democratici, ai progressisti, ai politicamente corretti che sono derrate anche tra i presunti conservatori e tra i presunti cattolici adulti. Uno sterminio demograficamente corretto perpetrato attraverso la genetica dell’aborto selettivo, la riforma delle riforme, quella del Dna nel seno delle donne incinte. Parla del Montenegro, all’occasione, ma si riferisce all’India di Amartya Sen, alla Cina, dimensioni più cospicue, e potrebbe riferirsi se lo volesse a una vasta letteratura fogliante in merito, che comprende naturalmente anche la civilissima Europa, le Americhe, l’Italia, l’Africa, l’Oceania, insomma casa sua e il pianeta di Planned Parenthood. Della persecuzione culturale qui si fece esperienza dieci anni fa, con la proposta del dicembre 2007 e la campagna del 2008 per la moratoria degli aborti, sconfitta in politica dalla mentalità e dalle istituzioni repressive del welfare abortivo, sebbene validamente difesa da polizia e carabinieri nelle piazze tra bombe carta bottiglie piene e uova e sassi. Dicemmo tra le altre cose che la questione non era di legge, di norma, ma di costume, ed era la sordità morale del mondo di fronte a una tragedia omicida, a un aborto che nella sua essenza ha carattere maschio, come si vede bene dai dati offerti con un certo ritardo ma encomiabilmente anche da Stella.
Editoriali
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