Il Papa parla dei rohingya (ma non li nomina)
Il Pontefice, parlando davanti ai rappresentanti del governo birmano, ha invitato al rispetto dei diritti e dell’identità di tutti i gruppi, “nessuno escluso”
“Il problema è l’acqua. I pellegrini che sono arrivati soffrono il caldo, continuano a bere” dice padre Joseph, sacerdote della parrocchia di Sant’Antonio di Yangon. Sotto i tendoni e all’interno della chiesa alloggiano quasi mille persone, arrivate per vedere il papa. Il loro è stato un viaggio molto lungo, anche più di due giorni, perché sono Kachin, etnia all’estremo nord del paese, quasi ai piedi dell’Himalaya. E’ per questo che hanno tanto caldo. E’ uno di quei dettagli psicogeografici ignorati da molti osservatori occidentali ma che sono la vera chiave per comprendere la situazione birmana. Il problema, più che religioso, è etnico.
Chi l’ha compreso è il Papa. L’ha dimostrato nel discorso, in italiano, che ha tenuto di fronte a rappresentanti del governo e al corpo diplomatico all’International Convention Center di Nay Pyi Taw, la capitale birmana, nel tardo pomeriggio di martedì. Papa Francesco, in uno dei passaggi più importanti del discorso, ha sottolineato l’importanza della conferenza di pace di Panglong (località nel sud dello stato Shan). Si tratta della riedizione della conferenza organizzata nel 1947 da Aung San, padre della patria e di Aung San Suu Kyi, in cui si ponevano le basi per un accordo tra i maggiori gruppi etnici birmani. Accordo poi vanificato dopo l’assassinio di Aung San, qualche mese più tardi, e totalmente osteggiato dai successivi governi militari. Aung San Suu Kyi lo ha riproposto nel maggio di quest’anno, segnando un piccolo passo avanti sul percorso di riconciliazione nazionale. Molto piccolo, i combattimenti tra milizie etniche e Tatmadaw, l’esercito birmano, continuano, ma importante perché ha riaperto il dialogo.
Quell’accordo potrebbe ancora una volta essere vanificato se Aung San Suu Kyi fosse delegittimata a livello nazionale. Il che potrebbe accadere qualora la questione rohingya non trovasse una soluzione di compromesso accettabile dalla maggioranza della popolazione. Per i birmani, infatti, comprese tutte le altre minoranze etniche, i rohingya non sono una minoranza, bensì bengalesi, corpo estraneo all’identità birmana. Il destino dei rohingya, poi, sembra anch’esso legato a un percorso di pacificazione etnica, che potrebbe creare le basi per la loro integrazione. Anche questo è stato compreso da Francesco, che lo ha espresso in un altro passaggio del suo discorso, invitando al rispetto dei diritti e dell’identità di tutti i gruppi. “Nessuno escluso” ha sottolineato il Pontefice, evitando di nominare i rohingya, ma affermandone chiaramente l’identità.
Un discorso, quello del Papa, che Aung San Suu Kyi già ben conosceva e che deve aver apprezzato proprio per la sua focalizzazione etnica. “Continuiamo a camminare insieme con fiducia” ha dichiarato, in italiano, a conclusione del suo discorso di benvenuto al Papa. Del resto il Santo Padre sa perfettamente che la maggioranza parte dei cattolici birmani è rappresentata proprio dalle minoranze etniche.
“Lui può aiutare Suu ad articolare la sua strategia per il paese. Non tanto politica quanto etnica” era stato l’auspicio di un osservatore locale. E’ per questo, non per una rappresentazione di folclore, che in quasi tutte le immagini del viaggio papale si vedono uomini e donne in costumi tradizionali.
“Molti di loro non sapevano nemmeno chi fosse il papa. Per molti era difficile comprendere il senso della parola chiesa. La chiamano tempio” ha detto al Foglio il vescovo birmano John Hsane Hgyi.
Che con il discorso di oggi si sia compiuto davvero un passo avanti per ogni tipo di comprensione lo dimostra il sorriso scambiato tra Aung San Suu Kyi e il Pontefice a conclusione di una cerimonia che li ha visti entrambi tesi (soprattutto la Signora). Chi appare insoddisfatto è un giornalista inglese che lamenta l’eccesso di diplomazia del Papa.
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