La realpolitik vaticana e le 135 minoranze birmane innominabili
Non solo Rohingya (che il Papa ha ricordato ieri in Bangladesh)
Roma. Si riferiva ai rohingya, il Papa, quando ieri a Dacca ha lodato “lo spirito di generosità e di solidarietà che caratterizza la società del Bangladesh” in merito allo “slancio umanitario a favore dei rifugiati affluiti in massa dallo stato di Rakhine”. Francesco ha sottolineato che questo “è stato fatto sotto gli occhi del mondo intero” e “nessuno di noi può mancare di essere consapevole della gravità della situazione, dell’immenso costo richiesto di umane sofferenze e delle precarie condizioni di vita di così tanti nostri fratelli e sorelle, la maggioranza dei quali sono donne e bambini, ammassati nei campi profughi”. Da qui, l’appello alla comunità internazionale perché “attui misure efficaci nei confronti di questa grave crisi”. Nei giorni scorsi, nel dibattito mediatico, il viaggio papale in Asia era tutto qui: userà a o no, Francesco, la parola che la maggioranza birmana non vuol sentire pronunciare? Bergoglio, come prevedibile, non l’ha fatto.
Ma non è solo per una mera questione di realpolitik – più volte i vescovi locali avevano segnalato alla Santa Sede che la giunta militare non avrebbe gradito – che il Pontefice ha evitato di fare riferimento diretto alla minoranza musulmana perseguitata. Il fatto è che il tessuto etnico birmano è così complesso che le minoranze sono tante (135 per l’esattezza), molte delle quali discriminate. Non solo rohingya, dunque. L’altro giorno, durante la messa a Yangon, il Papa ha usato una ferula-pastorale realizzata dai rifugiati cattolici Kachin. “Più di 150 mila persone languono nei campi profughi, ridotte alla condizione di sfollati e in attesa di aiuti internazionali”, denunciavano un anno fa i vescovi birmani, come riportato dall’agenzia Fides. Non a caso, a fine agosto il portavoce della Conferenza episcopale locale, padre Mariano Naing, commentava così l’ipotesi che il Papa potesse recarsi in un campo profughi rohingya: “Vi sono voci che il Santo Padre visiterà il Rakhine e i rohingya. Questo è sbagliato. Se abbiamo mai bisogno di portare il Santo Padre alle nostre persone, sofferenti, lo porteremo ai campi profughi cattolici”.
Un po’ a sorpresa, l’incidente diplomatico è stato sfiorato con l’India, più che con i governanti di Nay Pyi Taw. “Con cuore pesante – ha detto il segretario generale della Conferenza episcopale indiana, mons. Theodore Mascarenhas – abbiamo ricevuto la notizia che il Santo Padre non può visitare l’India. La visita sarebbe stata motivo di gioia e prestigio per l’intero paese agli occhi del mondo. Il Papa visita due paesi più piccoli e non l’India: come indiano, questo mi dispiace molto”. In realtà, Francesco si era detto disponibile a visitare New Delhi già quest’anno, ma il governo non ha mai avanzato una richiesta ufficiale in tal senso.
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