L'arte del buon governo
L’elogio del servizio “reso a Milano da un funzionario imperiale”. Il primo discorso per Sant’Ambrogio del neo vescovo è una lezione di politica e ragione contro le fazioni
[Pubblichiamo estratti del discorso pronunciato dall'Arcivescovo di Milano nella Basilica di Sant'Ambrogio il 6 dicembre 2017 e che sarà disponibile in libreria col titolo “Per un'arte del buon vicinato” a cura del Centro Ambrosiano]
“In quel medesimo tempo era morto il vescovo Aussenzio, aderente all’eresia ariana: egli deteneva ingiustamente il governo di quella Chiesa da quando il confessore di beata memoria Dionigi era stato cacciato in esilio. Poiché il popolo si stava sollevando in rivolta nella designazione del nuovo vescovo, Ambrogio, preoccupato di sedare il tumulto affinché la popolazione della città non ne fosse sconvolta con grave pericolo proprio, si recò alla chiesa; e qui, mentre parlava alla folla, si dice che all’improvviso sarebbe risuonata in mezzo al popolo la voce di un bambino: ‘Ambrogio vescovo!’. A quella voce tutti voltarono lo sguardo verso di lui, acclamando: ‘Ambrogio vescovo!’. E così, proprio quelli che poco prima, fra grandi disordini, erano fra di loro in dissidio (infatti sia gli ariani, sia i cattolici bramavano che fosse ordinato vescovo uno della loro parte, cercando di avere la meglio sugli avversari), improvvisamente, con una concordia mirabile e incredibile trovarono consenso su di lui”. (Dalla Vita di Sant’Ambrogio di Paolino di Milano).
Dentro la tensione, dentro lo scontro che esaspera la città, dentro i conflitti di fazioni contrapposte, dentro la rivendicazione di privilegi e di potere, dentro la contrapposizione tra gruppi che pure hanno analoga radice religiosa, si intromette un uomo dell’istituzione, prende la parola un funzionario custode dell’ordine pubblico. L’uomo dell’istituzione si chiama Aurelio Ambrogio: la sua abilità nell’argomentare, la sua autorevolezza personale, la sua determinazione e il suo coraggio convincono i contendenti alla ragionevolezza, zittiscono gli estremisti, impongono una maggior pacatezza. Ma la soluzione del conflitto si presenta come per incanto quando la voce di un bambino – il consenso popolare, l’imprevista possibilità di un successore del vescovo ariano Aussenzio che non desse ragione a nessuno dei due partiti contrapposti – fa convergere tutti sulla candidatura di Ambrogio all’episcopato.
Celebriamo quindi il servizio reso alla comunità di Milano da un funzionario imperiale. Ambrogio, a quanto pare, si è rivelato un candidato promettente a una responsabilità ecclesiastica perché ha esercitato il suo incarico politico amministrativo in modo da guadagnarsi il favore popolare, la stima dell’imperatore e dei suoi superiori. Ha svolto così bene il suo compito di rappresentare l’istituzione civile da essere desiderato nel ruolo di vescovo dentro l’istituzione ecclesiastica. I tratti che raccomandano Ambrogio come vescovo sono la sua vicinanza alla gente, il suo farsi presente e mettersi di mezzo in un momento che poteva degenerare in un conflitto, il suo desiderio di mettere pace e la sua abilità nel persuadere, frutto della formazione e della pratica di avvocato e di impiegato statale.
Elogio dei rappresentanti delle istituzioni dediti alla prossimità
Ispirato da questa vicenda voglio fare l’elogio delle istituzioni che oggi, come allora, si fanno carico della promozione del bene comune, della pace sociale e della promozione di una convivenza civile serena.
Contro la tendenza diffusa a lamentarsi sempre di tutto e di tutti, contro quella seminagione amara di scontento che diffonde scetticismo, risentimento e disprezzo, che si abitua a giudizi sommari e a condanne perentorie e getta discredito sulle istituzioni e sugli uomini e le donne che vi ricoprono ruoli di responsabilità, voglio fare l’elogio delle istituzioni.
Voglio fare l’elogio dei sindaci: sono, specie nei paesi e nelle cittadine, la prossimità più accessibile della pubblica amministrazione. I sindaci sono esposti alle attese e alle pretese di tutti, sono spesso oggetto di polemiche e di denunce, sono spesso intrappolati in una burocrazia complicata, sono condizionati da una cronica mancanza di risorse: però, se sono onesti e dediti, i sindaci sono là, tra la gente, in ascolto di tutti, con il desiderio di rendersi utili, con la frustrazione di essere spesso criticati e di riconoscersi impotenti. Però sono là, in mezzo alla gente.
Voglio fare l’elogio delle forze dell’ordine: dei carabinieri, degli agenti dei vari corpi di polizia nazionale e locale, della guardia di finanza, del corpo forestale dello stato e della polizia locale: sono presenti in modo capillare, sono attenti con una singolare dedizione a custodire l’ordine, la legalità, a esercitare la pazienza dell’ascolto e la fermezza degli interventi. Se sono onesti e dediti, anche tra cittadini prepotenti o indisciplinati, tra cittadini furbi nel far valere i diritti e nell’evadere dai propri doveri, le forze dell’ordine sono là, talora anche in situazioni pericolose, talora esposti alla minaccia e alla violenza.
L'uomo dell'istituzione si chiama Aurelio Ambrogio:
la sua determinazione convince
i contendenti alla ragionevolezza
Voglio fare l’elogio degli insegnanti e dei dirigenti scolastici e del personale della scuola perché la scuola vive la sua vocazione ad accogliere tutti, nella diversità delle provenienze, delle capacità, delle situazioni personali e familiari e propiziare un linguaggio comune, una coesistenza pacifica, la trasmissione dei fondamenti del sapere per dare linguaggi e strumenti per la piena cittadinanza, la condivisione della cultura come premessa per l’edificazione di una comunità civile. Nella sfida dell’irrequietezza dell’adolescenza, nelle problematiche dell’apprendimento e della disciplina, nella demotivazione di ragazzi e adolescenti talora disturbati e smarriti di fronte a un futuro poco promettente per loro, gli insegnanti sono là, in mezzo ai cittadini del futuro, sono là per accompagnare la promessa che la civiltà possa sopravvivere e conoscere ancora nuova giovinezza, sono là per custodire e annunciare agli studenti la cultura del senso promettente e sorprendente della vita.
Voglio fare l’elogio degli operatori nei presìdi sanitari e nei servizi sociosanitari domiciliari (come l’assistenza domestica, l’assistenza domiciliare integrata e le cure palliative a casa), dei vigili del fuoco, della protezione civile, delle istituzioni presenti nei diversi territori a livello provinciale e regionale, dalle montagne alla pianura: quel servizio offerto senza discriminare, senza distinguere tra simpatici e antipatici, quella perseveranza quotidiana in un compito che è talora misconosciuto e talora persino danneggiato proprio da quelli ai quali dovrebbe servire, merita l’elogio, per essere là per incarico e per convinzione, praticando la prossimità spicciola e creativa, non di rado faticosa e persino esasperante.
L’elenco dovrebbe prolungarsi nell’elogio di tante altre istituzioni presenti capillarmente nel territorio: gli assistenti sociali, i custodi sociali e sociosanitari, i giudici di pace, i soldati dell’operazione strade sicure, gli operatori che presidiano le vie e gli angoli della città, assistendo i clochards del giorno e della notte… Non posso non ricordare le tante associazioni e strutture cooperative che creano una rete di attenzione e solidarietà spesso poco notata ma essenziale nel creare coesione e nel dare spessore alla trama dei legami.
Di tutti voglio fare l’elogio, a tutti desidero esprimere la mia gratitudine e ammirazione, contrastando quella tendenza troppo facile alla critica e quell’enfasi troppo sproporzionata su alcuni che, approfittando della loro posizione, hanno cercato il proprio vantaggio, anche con mezzi illeciti, aprendo la porta alla corruzione. Ogni mattino noi ci rendiamo conto che il paese, la città funzionano, possiamo fare affidamento su servizi perché c’è una folla di persone che fanno di giorno e di notte il proprio dovere, a beneficio di tutti: nessuno è perfetto e tutto si può e si deve migliorare, ma noi sappiamo che possiamo contare su gente che ha lavorato e lavora bene, per noi. Voglio fare l’elogio degli onesti e dei competenti, dei generosi e dei coraggiosi. Voglio fare il loro elogio anche per incoraggiare altri, anche per svegliare i giovani, per scuotere i pensionati in piena efficienza: fatevi avanti! Prendetevi qualche responsabilità! Dedicate tempo! Le istituzioni hanno bisogno di voi! La città, il paese, hanno bisogno di voi!
La proposta di un’alleanza per costruire il buon vicinato
L’elogio formulato con rispetto e discrezione esprime anche l’intenzione, che voglio formulare a nome della comunità cristiana e della Chiesa ambrosiana, di proporre un’alleanza, di convocare tutti per mettere mano all’impresa di edificare in tutta la nostra terra quel buon vicinato che rassicura, che rasserena, che rende desiderabile la convivenza dei molti e dei diversi, per cultura, ceto sociale e religione.
Voglio fare l'elogio delle istituzioni che oggi, come allora, si fanno carico della promozione del bene comune, della pace sociale
Lascio che siano le parole di papa Francesco a fondare questa mia proposta, a chiamarci tutti a raccolta, a chiedere il nostro impegno per questo patto di buon vicinato: “Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso” (EG 71).
L’alleanza di tutti coloro che apprezzano la grazia di vivere nello stesso territorio è una convocazione generale che non prepara un evento, ma che impara e pratica un’arte quotidiana, uno stile abituale, una intraprendenza semplice. L’alleanza è stipulata non con un documento formale, ma con la coltivazione di una buona intenzione, con la riflessione condivisa sulle buone ragioni, con la vigilanza paziente che contrasta i fattori di disgregazione, di isolamento, di conflittualità.
L’alleanza intende rendere per quanto possibile superata la desolazione registrata dalla parola del poeta «Milano è un enorme conglomerato di eremiti» (E. Montale).
L’alleanza che propongo chiama a una specifica responsabilità la Chiesa ambrosiana e le istituzioni pubbliche. Le Chiese e le confessioni cristiane (che saluto e ringrazio per la loro presenza a questi vespri), le religioni che ormai abitano le nostre terre e intendono portare il loro contributo alla costruzione della Milano del domani si inseriscono con naturalezza in questa alleanza, secondo la tradizione che, grazie a Dio, si è consolidata nella nostra terra.
Ci chiediamo insieme: quale esercizio delle responsabilità delle istituzioni, quale esercizio del ministero pastorale possono favorire quello stile del convivere che chiamiamo “buon vicinato”?
L’alleanza che propongo non è un impegno che riguarda le istituzioni come fossero delegate a tenere insieme gli abitanti di queste terre, è piuttosto una impresa comune di cittadini e istituzioni, di fedeli e pastori della comunità cristiana e delle altre religioni: è una impresa corale che riconosce il contributo di ciascuno e chiede a ciascuno di non vivere la città come servizi da sfruttare o pericoli da temere, ma come vocazione a creare legami. Sono essi il luogo dell’ospitalità, della possibilità di (ri)dare nome ai soggetti, di offrire dimora alla cittadinanza fraterna e di riconsegnare le istituzioni alla comunità.
Per questo tutti, tutti!, sono invitati a partecipare: chi abita da sempre in città e chi è arrivato oggi, chi abita in centro e chi abita in periferia, chi parla il dialetto milanese e chi stenta a parlare italiano, chi ha un passaporto granata, chi ha un passaporto blu, verde, rosso.
L'Arcivescovo di Milano, Mario Delpini, durante la celebrazione nella Basilica di Sant'Ambrogio
Il presupposto per l’arte del buon vicinato
Abitare nello stesso territorio o addirittura nello stesso condominio non garantisce circa la predisposizione ad essere “buoni vicini”. E’ necessario che sia condivisa la persuasione che il legame sociale, la cura di sé, della propria famiglia, della gente che sta intorno è la condizione per la vivibilità, la sopravvivenza, lo sviluppo mio e della società. Vivere vicini può essere anche una spiacevole coincidenza. Invece noi siamo convinti che dare vita alla città sia l’esito di una visione del mondo e dell’interpretazione della vocazione dell’uomo. La vita condivisa, nel piccolo villaggio come nella città, dimostra che la libertà può essere organizzata in una forma comunitaria ragionevole, che la comunità è meglio della solitudine, che la legge è meglio dell’arbitrio, che la fraternità non è qualche cosa che accade meccanicamente, ma chiede una decisione che organizza la società in modo che agli eguali sia consentito essere diversi. La costruzione della convivenza fraterna dà storia alla possibilità e capacità di rispondere alla ineludibile domanda del come, del dove, del quando siano attivati percorsi di vita buona, anche nelle improvvide stagioni delle fragilità.
Il quadro teorico che interpreta la convivenza fraterna come condizione desiderabile per la vita di tutti merita certo ben altri approfondimenti e considerazioni, ma molto di più delle elaborazioni teoriche agiscono i presupposti che inducono con naturalezza a dare una forma promettente all’“abitare vicini”. In questa festa del patrono della città e della diocesi mettiamo a tema il desiderio di praticare l’arte del buon vicinato.
La costruzione della convivenza fraterna dà storia alla possibilità
e capacità di rispondere anche nelle improvvide stagioni della fragilità
Il tema e la sua pratica risultano urgenti per chi si prende cura del bene comune di oggi e di domani: si tratta infatti di contrastare la tendenza individualistica di cui si è ammalata la nostra società. L’individualismo egocentrico ha radici lontane e una forza persuasiva e pervasiva impressionante, alimentata da enormi interessi. È infatti evidente che chi è solo è più debole e più facilmente manipolabile, anche se pensa di essere più tranquillo: ridurre le persone a individui, rendere labili i rapporti, fragili le famiglie, instabili gli affetti, isolate le persone induce i cittadini a ignorare la città, a preoccuparsi solo di sé, del proprio benessere, della propria sicurezza. Le persone diventano clienti, i loro bisogni cercano soddisfazione nei consumi, le sicurezze si identificano con l’accumulo, lo sguardo sul futuro è miope e la responsabilità un fastidio da evitare. Gli indici per misurare il tempo che si vive si riducono agli aspetti economico-finanziari e la notizia più importante della giornata è l’andamento della borsa. La società è così esposta al rischio di essere sterile, senza bambini e senza futuro, e le persone isolate, senza famiglia e senza comunità.
In tale prospettiva anche le garanzie proprie delle libertà sostanziali e non solo formali (cfr. l’art. 3 della Costituzione della Repubblica), che hanno istituito e costruito, attraverso le politiche sociali, lo stato sociale (il cosiddetto welfare state), chiedono oggi di ridefinirlo e di riscriverlo quale welfare relazionale, comunitario, generativo e rigenerativo: l’unico capace di sorreggere e di custodire sia la libertà che l’uguaglianza, di rendere stabili le relazioni liquide, di presidiare le relazioni interpersonali a fronte di una deriva delle stesse nelle interminabili connessioni virtuali (tascabili e immediatamente consumabili); e infine di custodire la virtuosa correlazione tra qualità della vita e vita di qualità. È per questo che ogni autentica relazione interpersonale è generativa: fa essere e fa vivere l’altro.
Si tratta di dare attuazione all’antica saggezza dell’art. 2 della Costituzione («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»).
Il compito delle istituzioni per la pratica del buon vicinato
Le istituzioni sono chiamate a motivare tutti ad appassionarsi all’impresa e a crederci. Le regole del vivere insieme non sono infatti un prontuario affidato alla buona volontà dei singoli, ma la normativa che impegna tutti e a tutti offre garanzie. Compito delle istituzioni è di garantire il vivere insieme e creare le condizioni perché ciascuno possa realizzare la propria vocazione; di difendere i deboli e di contenere l’arroganza dei prepotenti; di elaborare normative sensate e di farle rispettare, contrastando i comportamenti arbitrari e la suscettibilità di chi crede di avere solo diritti; di offrire i servizi e curarne il mantenimento, evitando lo sperpero e il degrado. Compito delle istituzioni è anche quello di promuovere progetti di sviluppo che orientino le risorse non a incrementare i profitti di alcuni, ma a favorire il vero bene comune ossia “la solidarietà/fraternità della condivisione relazionale”. Così la società si fa comunità.
Occorre promuovere progetti in questa direzione. Si tratta infatti di chiedersi: quali case meritano di essere costruite? Quali infrastrutture sono prioritarie? Quale gestione degli spazi, del verde, dei servizi deve essere perseguita? Quali servizi alla persona (educativi, sociali, sociosanitari e sanitari) devono essere garantiti (per tutta la vita e per la vita di tutti)? Come favorire tra le strutture abitative luoghi di incontro e di condivisione tra persone e tra famiglie? Quale politica urbanistica deve essere progettata per favorire una migliore integrazione tra le diverse fasce della popolazione, evitando la nascita di ghetti e zone di segregazione? Quale gestione e promozione dello sviluppo del commercio va sostenuta, per non perdere il capitale sociale rappresentato dai negozi di quartiere? In che modo immaginare il disegno della città e delle periferie, per rendere lo spazio non solo abitabile ma anche bello e capace di comunicare armonia e serenità? Come favorire lo sviluppo di relazioni e di legami, incrementando in questo modo il grado di sicurezza delle persone che vivono in quel quartiere, non delegando questo compito alle sole forze dell’ordine? Come diffondere e far crescere tra gli abitanti la voglia di conoscere la storia dei luoghi, di condividere la festa, di nutrire la memoria comune, di sentirsi sempre più un popolo e una comunità?
I disagi che soffrono coloro che vivono su questa nostra terra devono essere riconosciuti, interpretati, rimediati: le istituzioni sono chiamate a impegnarsi per ascoltare le paure, comprenderne le ragioni e sradicarle, per contrastare lo squallore e curare l’ordine e la bellezza di ogni angolo di città e paesi, ricchi di storia, sorprendenti per i tesori che custodiscono, generosi nella solidarietà, intraprendenti nella famosa efficienza milanese.
Gli amministratori sapienti devono mettere in agenda i problemi che incombono: le case, le solitudini degli anziani....
La serenità della convivenza e la pratica del buon vicinato sono seriamente compromesse se la casa è un problema e l’occupazione delle case è praticata con arroganza, se la strada è insicura, se il vizio è pervasivo e la sua diffusione è tollerata con indifferenza, se la prepotenza di qualcuno prevarica sui diritti degli altri, se la proprietà non è rispettata, se le abitudini, gli orari degli uni sono motivo di grossolano disturbo per gli altri. È dovere delle istituzioni essere un baluardo contro l’illegalità e la trasgressione delle regole del vivere insieme; è dovere di tutti contribuire a una cultura della legalità e del rispetto; è irrinunciabile da parte delle famiglie e delle agenzie educative formare a una mentalità che apprezza il bene comune, che è il bene di essere e vivere insieme. È necessaria un’alleanza tra tutti gli uomini e le donne di buona volontà per difendere questo bene comune ed è necessaria la prontezza e la fermezza dell’intervento delle autorità competenti per contrastare l’insinuarsi e l’affermarsi di quanto minaccia il convivere in pace.
Quello che manca non si può procurare improvvisamente, quello che è difficile non si può risolvere facilmente, ma gli amministratori sapienti devono mettere in agenda senza esitare i problemi che incombono: le case; le solitudini degli anziani; la resa di giovani e giovanissimi alle dipendenze, all’inconcludenza, al disimpegno senza speranza; lo smarrimento di chi non sa dove andare, non sa prendersi cura di sé; la fragilità dei legami familiari; la denatalità diffusa; la ricerca ossessiva del profitto che snatura le politiche urbanistiche; la rimozione e la censura della grave sofferenza psichica ed esistenziale; la vulnerabilità dei malati cronici, soprattutto nella stagione della progressione e/o nella fase degenerativa della malattia.
Le istituzioni, tutte le istituzioni, sono chiamate ad allearsi per favorire quello sviluppo dei legami sociali che fanno dell’alveare degli eremiti la casa comune. Noi, comunità cristiane, noi uomini e donne di Chiesa, ci sentiamo per vocazione protagonisti in questa promozione del buon vicinato.
La capillare presenza delle parrocchie, gli oratori, le scuole, le associazioni, i movimenti, i consacrati e le consacrate, tutte le forme di carità spicciola, sollecita, quotidiana che pervadono città e paesi sono le forme che la missione della Chiesa ha assunto a Milano. Ci piacerebbe essere riconosciuti, ci sembra legittimo sperare di sentirci alleati con tutte le istituzioni del territorio. Possiamo dire con fierezza che non ci siamo mai tirati indietro: in ogni emergenza, in ogni quotidianità, in ogni normalità e in ogni situazione estrema i preti, i diaconi, i fedeli laici, i consacrati e le consacrate sono stati là, come una casa accogliente, come una porta alla quale bussare a tutte le ore, come una compassione indiscriminata per ogni bisogno, per ogni lacrima, come uno spazio aperto per ogni festa, per ogni convenire, per ogni sogno.