Cristo sempre più a est
E’ l’Asia la sfida per la chiesa del Terzo millennio. Un continente immenso dove i cristiani sono ancora una minoranza quasi invisibile. La profezia di Paolo VI e la missione di Francesco
“Come Papa ci rechiamo laggiù, non come privato escursionista, e nemmeno come protagonista di feste e di cerimonie, ma come Vescovo e capo del Collegio episcopale, come Pastore e missionario, come pescatore di uomini (Cfr. Matth. 4, 19), cioè ricercatore di popoli e di gente del nostro globo e del nostro tempo; andiamo per una serie di incontri, che ci sembrano riflettere scene e parole evangeliche, per visitare fratelli e figli, per avvicinare uomini e istituzioni, per onorare persone che più lo meritano: i responsabili, i poveri, i giovani, gli affamati di giustizia e di pace, i sofferenti, i lontani” (Paolo VI, 25 novembre 1970)
Il cattolicesimo in Asia vuole essere una presenza più che una grande forza religiosa o sociale, i numeri sono in crescita ma insomma, sono sempre quel che sono: il due e mezzo per cento della popolazione dell’intero, immenso continente. Non può contare poi molto. E’ una presenza sfumata, magari attiva dietro le quinte, ma minoritaria che più minoritaria non si può.
Il lungo pellegrinaggio di Paolo VI nel 1970, le tappe scelte
da Francesco per i suoi viaggi asiatici. Dalla Corea al Myanmar,
fino al Bangladesh
Scriveva più o meno così, ed è buona cosa andare a rileggerselo, il 27 novembre del 1970, sulle auguste e sobrie pagine del New York Times, Edward B. Fiske. Non parlava di cattolicesimo in Asia tanto per parlare di qualcosa. E’ che in quelle lande così lontane dal cuore della cristianità, dalla Roma fresca di assise conciliare, c’era andato il Papa. Paolo VI, il Pontefice che avrebbe lasciato ai posteri e per l’eternità due documenti più che mai attuali, la Populorum progressio e – soprattutto – la Evangelii nuntiandi. Montini era andato a esplorare una terra ignota e a tratti anche ostile. Nessuno, prima di lui, l’aveva fatto. Quindici giorni di pellegrinaggio da moderno apostolo delle genti che toccò l’Iran, l’odierno Bangladesh, le Filippine, le isole Samoa, l’Australia, la nuova Guinea, l’Indonesia, lo Sri Lanka. Celebrò messa in un sobborgo dell’allora britannica Hong Kong da dove si vedeva bene la grande Cina. Scrisse Fiske: “Il viaggio è stato definito come uno sforzo pastorale e apostolico per dimostrare la preoccupazione del Pontefice verso i cristiani asiatici. Nondimeno, lo scalo a Hong Kong è stato interpretato come l’ultima di una serie di mosse vaticane per migliorare i rapporti con le nazioni comuniste”. Sembra ieri.
Paolo VI toccò queste realtà in quindici giorni, Francesco su queste terre ci sta costruendo il pontificato, la sua missione. Andare al largo, senza necessariamente conoscere la meta. Anche lì circumnavigando il cuore del continente, entrando in punta di piedi dalle periferie, con la terra promessa ancora inaccessibile che qui si chiama Cina.
Sono passati quasi cinquant’anni, il mondo non è quello di allora, ma il filo che unisce Montini a Bergoglio è più teso che mai. Profetico com’era, il Papa di Concesio aveva capito in quale direzione si sarebbe spostato l’ago della bussola nei decenni a venire. Non nell’Europa stanca e ripiegata su se stessa, ma verso il sud del mondo, dall’Africa all’America latina, fino all’Asia dalle distanze immense e dal cattolicesimo ridotto a fiammella quasi invisibile, capace di dare una luce fioca. E però quella fiammella andava alimentata, un po’ alla volta, senza badare al contingente. A raccogliere il risultato della semina ci avrebbero pensato altri, più avanti.
Chiese giovani e vitali che hanno
ben poco da perdere nell'ostica sfida con la realtà contemporanea.
In crescita il numero dei battesimi
Il New York Times notava, in modo superficiale, che al di là dei discorsi e delle grandi cerimonie in questo o quel palazzo, al di là delle riverenze fatte al Papa di Roma, “l’impatto del cattolicesimo in Asia è modesto. Permanente ma modesto”. E’ proprio il permanente che conta e Francesco lo dimostra andando a visitare luoghi impensabili, gocce nel mare del cattolicesimo, come il Myanmar che di cattolici ne conta una manciata, l’uno per cento di una grande popolazione. O il Bangladesh, con il novanta per cento della popolazione che è musulmano. E’ qui che va a pescare i cardinali da rivestire di porpora. Il salesiano birmano Maung Bo, il bengalese Patrick D’Rozario, il malese Anthony Soter Fernandez, e poi il laotiano Louis-Marie Ling Mangkhanekhoun, preso da un paese che conta quarantacinquemila cattolici e ha venti sacerdoti. E’ stato in prigione per volontà del governo: “Lo accettai, avevano ragione, stavo promuovendo Gesù. Era un’accusa corretta”, disse con un sorriso rivelatore poco dopo la notizia della sua creazione cardinalizia.
Quando, all’inizio del pontificato, l’intenzione di macinare chilometri in Asia divenne palese, in modo sibillino – e gesuita – Francesco disse che sì, avrebbe visitato quel continente anche perché “Benedetto XVI non aveva fatto in tempo ad andarci”. Insomma, una sorta di riparazione geopolitica volta a corroborare l’immagine di universalità della santa romana chiesa. C’è tuttavia molto altro.
Le conversioni cinesi dovute
alla modernità: secondo Rodney Stark, le religioni orientali
sono incapaci di rispondere
alle sfide della modernità
Non è tutto riducibile ai dossier politici, all’eterna e delicata trattativa con la Cina, alla lettura in diagonale dei segnali – concreti o di fumo – che Pechino e il Vaticano si mandano a intervalli regolari da anni. Né si tratta di mediare tra i moniti del cardinale Joseph Zen, ostile a qualunque accordo con il governo cinese che sa d’appeasement, e le aperture dei suoi due successori, che per realismo politico sono disponibili anche ad accettare quel poco (ma sufficiente per vivere) che Pechino potrà dare alla comunità cristiana. Non c’entra neppure la mera statistica demografica, che individua in quell’oriente estremo uno dei bacini più floridi per rimpinguare il calo di fedeli nell’asfittico occidente secolarizzato. Il cristianesimo cresce per attrazione, non per proselitismo. Quella fase storica, anche gloriosa, è finita. L’aveva detto Ratzinger, lo ribadisce appena può Bergoglio. Non è più tempo di travestimenti, di indossare i panni dei mandarini cinesi mentre si celebra l’eucaristia per convincere il curioso cinese che quella è la fede, l’unica vera fede rivelata.
Francesco, prima dell’ultimo tour in Myanmar e Bangladesh, è andato in Corea, poi nello Sri Lanka, quindi nelle Filippine. Chiese giovani e vitali. Che il focus sia lì, è indiscutibile. Il perché lo spiegò bene, quasi tre anni fa, uno che di Asia se ne intende, padre Piero Gheddo, missionario del Pontificio istituto per le missioni estere: “Una scelta significativa, che deve far riflettere tutti i credenti in Cristo: il Papa vuole orientare la chiesa universale verso l’ultima ‘frontiera’ della missione alle genti, il continente asiatico, dove vive il 62 per cento di tutti gli uomini e l’85 per cento dei non cristiani. Su 4 miliardi e 262 milioni di asiatici, i cattolici sono circa 170 milioni, metà dei quali nelle Filippine, l’unico paese a maggioranza cattolica (oltre al piccolo stato di Timor est, ex colonia portoghese). Con le chiese orientali e protestanti, i cristiani asiatici sono meno di 300 milioni. A duemila anni da Cristo, più di metà del genere umano non ha ancora ricevuto la ‘buona notizia’ che gli angeli davano ai pastori nella notte di Betlemme: ‘Oggi è nato per voi il Salvatore, il Messia, il Signore, che sarà di grande gioia per tutto il popolo’. Per la Giornata missionaria mondiale 2014 Francesco ha lanciato questo messaggio: ‘Oggi c’è ancora moltissima gente che non conosce Gesù Cristo. Rimane perciò di grande urgenza la missione ad gentes, a cui tutti i membri della chiesa sono chiamati a partecipare, in quanto la chiesa è per sua natura missionaria”.
Le statistiche, anche quelle diffuse dalla Santa Sede, sono concordi: in Asia ci sono sempre più cristiani (e quindi anche cattolici), un trend lento – quantomeno rispetto all’Africa – ma costante. Ci sono terre dove l’evangelizzazione è forte (le Filippine, ma anche la Corea del sud) e nuovi contesti che fanno ben sperare: il Vietnam e la Cina. Qui la situazione è più fluida, le cifre ballano, le conferme spesso stentano ad arrivare. Fece però grande scalpore quando, nel 2012, l’agenzia Fides accreditò che lì, nella sola notte di Pasqua di quell’anno, erano state battezzate ben 22.104 persone, il 75 per cento delle quali adulte. Un numero ancora di più impressionante se si considera che non tutte le diocesi sono solite celebrare i battesimi durante la madre di tutte le veglie. Ma cosa spinge un cinese a convertirsi, a essere attratto dalla fede cristiana? Una risposta l’aveva data il grande sociologo delle religioni Rodney Stark, autore (tra le altre cose) di A Star in the East: The Rise of Christianity in China. Secondo lui, i cinesi si sono convinti che le religioni orientali non sono adatte al mondo moderno, hanno bisogno di guardare all’occidente per trovare filosofie di vita e religioni. Questione di progresso, dunque, che gli antichi credo locali, dal taoismo al confucianesimo, non sono in grado di garantire né – tanto meno – di contemplare. “Proclamano tutte che il mondo sta degenerando rispetto a un passato glorioso e quindi è necessario volgersi all’indietro, non guardare in avanti”, diceva un paio d’anni fa in un’intervista all’americana Catholic news agency. Si tratta di religioni per le quali “l’universo è un qualcosa su cui meditare e non formulare teorie”. Insomma, sono “la modernizzazione e l’industrializzazione a favorire la conversione. L’opposto di quanto accade in occidente, dove la modernità ha portato con sé anche l’ondata secolarizzante. Spiegava ancora Stark che “la società industriale e la scienza su cui è fondata non si adattano bene alle visioni del mondo religioso orientale”. Però la domanda delle domande, quella sul senso ultimo del mondo e su come viverci, “resta”.
"La forza della chiesa risiede
nella chiesa locale, in quella piccola, debole e perseguitata", disse
il cardinale laotiano, Mangkhanekhoun
Per comprendere l’attitudine del Papa verso la chiesa asiatica è d’aiuto quanto disse il cardinale laotiano Mangkhanekhoun, commentando la visita ad limina in Vaticano: “Durante la visita, il Papa ci ha detto che la forza della chiesa risiede nella chiesa locale e, in modo particolare, in quella piccola, debole e perseguitata. Questa è la spina dorsale della chiesa universale. Ero un po’ perplesso. Il giorno dopo abbiamo celebrato la messa con il Santo Padre e ancora una volta ha ripetuto lo stesso tema nella sua omelia. Mi ha molto colpito. Da queste affermazioni sono giunto alla conclusione che la forza della chiesa viene dalla pazienza, dalla perseveranza e dalla volontà di accettare la realtà della fede. Questo mi ha fatto pensare che la nostra povertà, la sofferenza e la persecuzione sono le tre colonne che rafforzano la chiesa”.
Sette anni fa, regnante ancora Benedetto XVI, si tenne in Corea del sud il Congresso dei laici cattolici dell’Asia. Il cardinale Stanislaw Rylko, all’epoca presidente del Pontificio consiglio per i laici, definì la presenza cattolica in quel continente “una minoranza creativa in crescita, di certo non timida, chiusa e ripiegata su se stessa”. Già allora si parlava di quella variegata e complessa realtà come della sfida per eccellenza della chiesa del Terzo millennio. Una partita dura, che doveva scontrarsi con le derive integraliste e con il relativismo anche lì incalzante. “E’ un continente che subisce l’influsso potente della postmodernità, che informa una mentalità secolarizzata e stili di vita senza Dio”, aggiungeva Rylko, che però vedeva il bicchiere mezzo pieno. Una chiesa “bambina” – come ebbe a dire, ancora, il cardinale Mangkhanekhoun, ha tutto da guadagnare e ben poco da perdere dalle sfide portate dal mondo contemporaneo.
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