La croce degli zar
Il 1917 la spazzò via, Stalin la evocò nel momento più drammatico La religione ortodossa e lo spirito russo: oggi un grande ritorno
Non è stato un russo, bensì un ceco a descrivere per primo l’essenza della chiesa ortodossa. Era Rainer Maria Rilke che nel misconosciuto “Libro d’ore” racconta la sua ricerca, intensamente spirituale, della Russia e quindi “dell'infinito silenzio di Dio”, come scrisse il poeta boemo. Protagonista delle poesie di Rilke è un monaco, un pittore di icone che parte per un pellegrinaggio che lo porterà a contemplare la povertà e, infine, la morte. Che sia stato un artista non di origine russa a descrivere la vicenda così ortodossa del monaco non è un caso. Solo gli occhi e la sensibilità, nonché l’indiscussa maestria tormentata del poeta di Praga avrebbero potuto mostrare ciò che un russo aveva dentro e che coincideva con la sua stessa “russità”: la fede ortodossa. Rilke restituisce con i suoi versi l’autentico sentire di una religiosità, sterminata come il territorio in cui era nata. Il poeta, amante di penna di Marina Cvetaeva, è morto nel 1926 e farà appena in tempo a conoscere le trasformazioni della Russia che aveva tanto amato anche grazie alla poetessa in esilio. La religiosità intima e controversa che l’artista boemo aveva cantato, stava per essere inghiottita dalla forza della storia.
I russi non avevano mai nutrito un forte sentimento per la politica, creatura informe e trasparente, impossibilitata a formarsi nella robusta struttura del potere zarista e forse proprio perché lasciata sopita per troppi secoli alla fine è esplosa con il desiderio di sostituirsi a ogni forma della vita russa. Incluso lo spirito.
Nel film di Andrej Zvjagincev "Leviathan", il protagonista si confida con un prete che gli risponde con i versi del libro di Giobbe
La rivoluzione del 1917 impose ai russi di abbandonare la fede ortodossa. Vista da una prospettiva storica, la vocazione antireligiosa del socialismo russo è un’eccezione. Il socialismo non è nato come forza secolarizzante, ma, da Pierre Leroux, prima del quale il termine socialisme non era mai esistito, ai sansimoniani che predicavano “il ritorno alla cristianità di Gesù Cristo”, a Félicité de Lamennais al quale George Sand dirà: “Lei è il padre della nostra nuova chiesa”, prima di Marx il socialismo era la via che riconduceva alla chiesa, all’essenzialità della dottrina cristiana.
In Russia, la fede ortodossa aveva mantenuto una dimensione intima, lontana dagli sfarzi, vincolata ai monasteri che fecero del monachesimo russo uno dei più evocativi topoi letterari. Nel mondo dostoevskiano del male, l’azione viene spesso purificata dalla presenza dell’icona, del santo spesso rappresentato da un monaco. Il pellegrino Macario ne “L’adolescente”, Tichon ne “I demoni”, il mistico Zosima e soprattutto Alesa il più piccolo dei fratelli Karamazov non agiscono mai, ascoltano, sono fermi, lontani dalla vita e tramite la loro sola presenza purificano, stravolgono le anime dei peccatori, strappandone via il peccato. L’icona, l’immagine che permette all’uomo di osservare l’infinito, è la rappresentazione di questa religiosità povera, contemplativa e silenziosa, coltivata nel sibaritismo spirituale che il socialismo russo cercò di sostituire con la grandiosità monumentale.
Dalla rivoluzione del 1917, nacque una creatura statale che non ambiva solo a riformare le istituzioni, ma gli spiriti. Per farlo doveva di diventare l’unica fede e la Russia, per quanto grande, non avrebbe potuto ospitare sia la chiesa sia il partito. L’Unione sovietica si cimentò nella scristianizzazione sistematica del popolo, che reagì conservando, e nascondendo caparbiamente il proprio sentimento religioso. Alla ritualità cristiana venne sostituito il surrogato della ritualità socialista.
Russità e ortodossia. Il partito perderà la sua lotta contro la religiosità, che si trasformò in un sentimento privato e per questo più intimo, quindi più forte.
Nella “Lettera ai dirigenti dell’Unione sovietica” che Aleksandr Solgenitsin decise di pubblicare dopo averla inviata ai capi del partito, l’autore scrive: “In Russia, per mancanza d’abitudine, le democrazia è durata solo otto mesi, da febbraio a ottobre del 1917”. A suo giudizio questa breve democrazia fu una vergogna, un modello importato dall’occidente al quale Mosca non era abituata. “Siamo vissuti mille anni sotto un sistema autoritario”. Il regime di cui parla l’autore di “Arcipelago gulag” aveva alla sua origine non l’ideologia, ma l’ortodossia, “quella antica, fiorita per sette secoli, non ancora straziata da Nikon e da Pietro il grande”. Solgenitsin chiedeva ai dirigenti: “La Russia nel futuro è destinata a subire un regime autoritario? Forse è matura solo per questo”. Il nuovo regime non avrebbe dovuto derussizzare la nazione, per la quale l’ortodossia era un elemento fondamentale. Negli scritti dell’autore è spesso difficile, a tratti impossibile, distinguere la religiosità dallo spirito nazionale. Accettare di vivere in un regime era consustanziale alla stessa essenza dell’uomo sovietico, l’autoritarismo, giustificato, secondo Solgenitsin, dalla storia, avrebbe però potuto riscattarsi solo attraverso il recupero dei valori tradizionali, tra i quali, centrale ed essenziale, è la fede ortodossa.
"In Russia per mancanza
di abitudine la democrazia è durata soltanto otto mesi", scriveva Aleksandr Solgenitsin
Stalin si rese subito conto che la religione ortodossa costituiva un elemento di coesione nazionale. La sua posizione divenne storicamente evidente quando il 3 luglio del 1941, durante l’annuncio via radio dell’inizio dell’attacco nazista, si rivolse al suo popolo usando la tradizionale espressione ortodossa: “Fratelli e sorelle”, al posto della formula ufficiale “compagni”. “Fin dai primi giorni della guerra”, scrive Solgenitsin, “Stalin ha giustamente respinto il puntello tarato dell’ideologia e ha brandito il vecchio stendardo russo e quindi ortodosso”. Nel momento in cui la Russia era in pericolo, Stalin capì di aver bisogno della chiesa, sapendo che il popolo non era pronto a dare la vita per il partito, ma per la fede forse sì. Chiamò i pope per andare a parlare con gli eserciti, a benedire i carri armati. Per risollevare gli animi e recuperare il senso della patria, Stalin si appoggiò alla chiesa, quando ormai era sul punto di estinguersi come istituzione e le diede la possibilità di sopravvivere. Con questo patto fragile e leonino, il regime sovietico aveva congelato il pensiero della chiesa al punto in cui esso si trovava alla vigilia della rivoluzione.
“Tra i credenti ci sono anche persone per niente anziane”, scriveva allarmata la Komsomolskaja pravda negli anni Trenta. La campagna ideologica, propagandistica ed educativa dell’Unione sovietica era rivolta soprattutto ai bambini, ai giovani che dovevano essere cresciuti coltivando come unica fede quella nel partito. Nei programmi scolastici, avevano particolare rilevanza fatti come le persecuzioni di Galileo e Bruno, l’Inquisizione, le Crociate. Con lo scopo di eliminare ogni manifestazione religiosa, vennero create le leghe degli atei militanti, organizzazioni che raccoglievano operai, contadini, studenti, intellettuali. La chiesa veniva descritta come servitrice corrotta e ipocrita del regime zarista: cattiva, oscurantista.
Se Stalin , per necessità e astuzia, si sentì di dover ristabilire i rapporti con la chiesa, Nikita Kruscev decise di dedicarsi a una caccia capillare, senza concedere tregua né ai credenti né ai vertici. Ordinò la distruzione delle chiese nelle maggiori città russe. A Mosca ne furono demolite un migliaio, inclusa la Cattedrale del Cristo Salvatore. Dopo la morte di Lenin, il terreno sul quale sorgeva una delle chiese più care ai moscoviti, venne scelto dai dirigenti del partito per costruire un monumento al socialismo che avrebbe dovuto chiamarsi palazzo dei soviet. Doveva essere una struttura enorme, costruita secondo gli schemi e i principi architettonici del classicismo socialista, con degli enormi gardini che avrebbero dovuto condurre alla gigantesca statua di Lenin. Stalin non aveva scelto a caso il posto. Sul luogo del tempio ortodosso sarebbe stato eretto il simulacro della nuova fede del popolo russo: il rivoluzionario bolscevico. Nel 1931, la cattedrale venne fatta saltare in aria, ma il palazzo dei soviet non venne mai eretto. I fondi non erano sufficienti e il terreno era soggetto ad allagamenti per le frequenti esondazioni della Moscova. Per anni rimase solo un buco, sempre pieno d’acqua, che Nikita Kruscev decise di trasformare in un’enorme piscina a cielo aperto. Una decisione di un sadismo sottile: laddove i russi cercavano la cura per il proprio spirito, avrebbero trovato la cura per il proprio corpo.
Dalla rivoluzione del 1917, nacque una creatura statale che non ambiva solo a riformare le istituzioni,
ma gli spiriti
Con l’ormai irreversibile caduta del messaggio ideologico ufficiale, si formò un profondo vuoto spirituale che portò un numero crescente di individui alla riscoperta della religione. Il 1990 è l’anno della speranza per la chiesa ortodossa. Quell’anno, in modo simbolico, venne posta la prima pietra della cattedrale del Cristo Salvatore e a un restauratore fu affidato il compito di ricostruirla così com’era prima che Stalin decidesse di distruggerla. Luogo di culto religioso e storico, la cattedrale fu teatro della canonizzazione dell’ultimo zar e della sua famiglia e, per chiudere il cerchio di una storia estremamente tormentata, nel 2007 vi venne esposto il corpo di Boris Eltsin. Il primo presidente russo e l’ultimo dirigente sovietico.
I russi avevano perso la loro identità storica, la loro identità di federazione. Era rimasta la Madre Russia, che però, aveva smesso di essere grande. Dalle macerie dell’Unione sovietica rinacque, più forte di quanto non fosse mai esistita, la chiesa ortodossa russa.
Nel tentativo di svestire il nuovo stato dei suoi panni sovietici, i presidenti della federazione iniziarono a corteggiare il patriarcato di Mosca e Vladimir Putin ne ha fatto uno dei suoi pilastri del potere. Uno dei più solidi. Chiese, soldi, fedeli. Il sodalizio inquietante tra la chiesa e il Cremlino ha portato alla ricostruzione di centinaia di edifici di culto per tutto il paese e al progetto “200 chiese”, voluto dal patriarca Kirill con l’obiettivo di avere un tempio ogni 11.200 abitanti.
La Russia di oggi è una temibile metafora biblica che il regista Andrej Zvjagincev ha portato al cinema con il film “Leviathan”. Il Leviatano nella Bibbia è una creatura mostruosa, “simbolo della potenza del Creatore”. Soffocata dall’“ateismo scientifico” la chiesa ortodossa è rinata sotto forma di un potentato ben lontano dall’ideale romantico del monachesimo cantato da Dostoevskij. Nella Russia di Putin e nel film vincitore del Golden Globe 2015 come miglior film straniero, il Leviatano è la chiesa ortodossa. Ambientata in una città sul Mare di Barents, l’opera del regista russo racconta la storia di Nikolaj, un meccanico che si scontra con il sindaco corrotto della città, Vadim, che vuole espropriargli la casa e per farlo è disposto a tutto. Dopo una serie di eventi, tragici e sfortunati, Nikolaj viene arrestato, la casa buttata giù e al suo posto il sindaco fa costruire una moderna e lussuosa chiesa ortodossa. Al suo interno, nell’ultima scena del film, viene celebrata una messa. Politica e religione si fondono, si stringono in un pericoloso abbraccio. Nella cittadina fittizia del film l’enorme scheletro di un mostro marino, adagiato sulla costa, gioca un ruolo silenzioso e importante. Nessuno sa dire di cosa si tratti o a quale specie animale appartengano le ossa. Gli abitanti di Pribrezhny subiscono il fascino di questa presenza, spaventosa ma estraniante. Das Unheimliche, lo avrebbe chiamato Freud, quel mostro è il perturbante, quella sorta di “spaventoso che risale a quanto ci è noto da sempre”. E’ sempre stato lì, eppure è il segreto che affiora generando paura, è l’accesso all’antico e al rimosso. Uno scheletro gigante adagiato su una spiaggia gelata sul Mare di Barents nell’estremo nord russo, diventa così l’incarnazione dell’altro Leviatano: la chiesa ortodossa. Il rimosso che riaffiora e spaventa. Nel film, il protagonista, distrutto, confida le sue disavventure a un prete che gli risponde parlandogli del libro di Giobbe, lo stesso che contiene la più importante descrizione del Leviatano: “Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura. Lo teme ogni essere più altero; egli è il re su tutte le bestie più superbe”.
Nel mondo dostoevskiano del male, l'azione viene spesso purificata
dalla presenza dell'icona
Il Leviatano di Thomas Hobbes era lo stato al quale l’uomo doveva cedere “i diritti su tutte le cose” per uscire dallo stato di natura. Seppur con i dovuti distinguo, l’Unione sovietica era una trasfigurazione del mito hobbesiano. Il cittadino sovietico si trovava nella condizione di dover rimettere i propri diritti allo stato, così l’uomo era costretto a fare nella dottrina del filosofo britannico. Consegnando le proprie libertà a un monarca abbandonava lo stato di natura, il “bellum omnium contra omnes”, e aveva salva la vita. Hobbes riconosceva l’esistenza di un solo potere e il suo monismo coincideva con la fusione della chiesa nello stato, Cesare doveva essere anche Pietro e il potere spirituale doveva rassegnarsi a cedere di fronte al Leviatano. In Urss, il partito aveva ingaggiato una battaglia spirituale, non politica, contro la chiesa. Il socialismo non aveva dichiarato guerra alle fede ortodossa perché gli uomini dovessero diventare atei, ma perché voleva che credessero in un’unica religione: lo stato.