Dalla libertà al senso dell'uomo nel mondo
Omelie brevi del cardinale Caffarra, per nulla ideologo
Roma. L’umanità è il tratto di Carlo Caffarra che viene in mente al suo successore sulla cattedra di Bologna, mons. Matteo Maria Zuppi, chiamato a firmare la prefazione a questo volume che raccoglie alcuni interventi (omelie, catechesi, discorsi) del cardinale scomparso improvvisamente lo scorso settembre. Già il titolo potrebbe essere uscito dalla penna di Caffarra, Omelie brevi e tagliatelle lunghe, chiaro rimando all’esigenza di non costringere il povero cristiano a divagare con la mente mentre il prete tiene la predica domenicale spesso teorizzando concetti talmente astrusi da essere incomprensibili. Il cardinale bussetano badava al sodo, sovente con ironia e qualche volta con il tono burbero del Don Camillo, il parroco che parlava con Cristo in croce nato dalla penna del suo amato Giovannino Guareschi – “per me è il miglior scrittore italiano del Novecento, leggete Mondo piccolo e scoprirete che la conoscenza è sempre un avvenimento”, aveva detto qualche anno fa al Meeting di Rimini, dove nell’ultima delle sue cinque partecipazioni era intervenuto per parlare di Verità. Da grande teologo qual era, certo, ma soprattutto come prete appassionato e divertito che di amori ne contava tre: i giovani, le famiglie e i sacerdoti.
Il volume tratta svariati argomenti a lui cari, dalla difesa energica della differenza sessuale da chi vuole l’omologazione generale a quella del Natale dalle pretese di chi vuol farne una ideologia, sottolineando solo i tratti moralistici, fino al ruolo dell’uomo nel mondo contemporaneo, costantemente alla ricerca di un senso da dare alla propria esistenza. “La persona umana ha una sua propria natura non solo in senso biologico; ha una sua verità. Non solo. E’ certamente una domanda decisiva circa l’uomo quella che riguarda la sua origine: da dove viene, da dove deriva l’uomo? Ma è ancora più importante la domanda circa il suo destino finale: a che cosa è destinato definitivamente l’uomo?”, si chiede in uno dei suoi scritti. In un altro, racconta lo sconcerto di una mamma di un bambino di quinta elementare che andò a dire all’insegnante: “Sono preoccupata, perché mio figlio mi chiede: ‘a che serve vivere, se poi moriamo? A che serve studiare, se poi moriamo?’. Non era un ragazzo svogliato. La ragione, quando si sveglia, non censura nessuna domanda, e chiede sempre il significato di ciò che vede. La madre voleva portare il bambino dallo psicologo. Forse ne aveva bisogno lei! Si introduce nella realtà rispondendo alle domande, fatte più o meno esplicitamente, sul senso della vita”. Parole poco in linea con il politicamente (e il religiosamente) corretto dominante, come quando invitò a non lasciarsi “ingannare dalla retorica della giustizia, dei diritti, e da simili cose. Sono orpelli. Perché il vangelo nasce nel cuore dell’uomo nel momento in cui la notte di Natale quattro sporchi e maleodoranti pastori si sono stupiti di come Dio si prendesse cura di loro. In quel momento il cristianesimo è nato. E in quel momento è stato interdetto all’uomo di disprezzarsi. Togliete la possibilità all’uomo di stupirsi di fronte alla sua dignità che ha il fondamento su quell’amore che spinge un Dio fin sulla croce, e a quel punto, come già nel poemetto di Chesterton, succederà che ‘dall’onta scesa su Dio e sull’uomo, dalla morte e dalla vita rese un nulla riconoscerete gli antichi barbari. Saprete che i barbari sono tornati’”.
Diverse pagine sono dedicate alla questione della libertà, che “non può consistere nell’abbandonarsi alla forza delle passioni; nella decisione di vivere conformemente a esse. Questa decisione infatti comporterebbe la negazione di una dimensione della propria persona; comporta il contrasto fra le scelte e ciò che la mente intuisce essere la verità circa il bene della persona. Questa sarebbe una sorta di liberazione autodistruttiva: di liberazione suicida”.
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