Dio non è morto
Il mondo non è mai stato così religioso come oggi. Il cristianesimo cresce quasi ovunque più di islam e induismo. Un libro del sociologo Rodney Stark sfata molti miti, anche europei
Quando il Papa entrò nella cattedrale di Bangui, nella Repubblica centroafricana, i fedeli presenti si inginocchiarono. Niente selfie, niente corsa allo scatto con il vicario di Cristo in terra da far vedere ai figli, ai nipoti e ai pronipoti. In ginocchio e a capo chino, mentre il Papa incedeva lento lungo lo stretto corridoio che portava all’altare. In Corea del sud, l’anno prima, schiere di bianche velette facevano da scenografia alla messa papale. Poco più di un mese fa, tra il Myanmar e il Bangladesh, la fede profonda di minoranze sovente calpestate e costrette a rintanarsi nelle moderne catacombe è stata notata a ogni latitudine. Tre momenti, tre regioni del mondo diverse, che poco hanno in comune l’una con l’altra. Eppure, si tratta di tre spie pronte a segnalare che il cristianesimo vive, è radicato, si sviluppa. Non ha niente del “fai-da-te” che tante volte si osserva alle nostre latitudini occidentali. Il mondo crede in Dio e mai come ora. Sembra un paradosso: si discetta tanto di chiese messe all’asta o trasformate in sale da ballo, di preti che non ci sono più, di gente che oppone e privilegia la partecipazione razionalissima a qualche festival letterario alla messa domenicale, quasi fosse una medaglia d’appuntarsi al petto: la ragione supera la superstizione.
La devozione profonda in Africa
e in Asia, la crescita dei fedeli
in America latina. La peculiarità europea
E’ la prospettiva a ingannare, è il ridurre tutto alla dimensione occidentale, al nostro orticello, ha scritto Rodney Stark, tra i massimi sociologi delle religioni viventi. Non ha avuto paura di esagerare mandando in stampa un libro che ha per titolo Il trionfo della fede. Lo spiega bene nell’Introduzione che nella traduzione italiana ha per titolo Contro i fanatici della secolarizzazione: “Si tenga presente soltanto un unico fatto: la stragrande maggioranza degli americani che dichiarano di non avere alcuna appartenenza religiosa pregano e credono negli angeli! Si tratta di una dimostrazione di non-religiosità?”. I numeri, in modo inequivocabile confermano che da tempo, nel mondo, è in atto un massiccio risveglio religioso. Non solo cristiano, sia chiaro. Ma islam e induismo non crescono con la stessa rapidità del cristianesimo, nonostante quel che si potrebbe immaginare limitandosi a una superficiale osservazione di quanto quotidianamente accade nel mondo. L’ottantuno per cento della popolazione mondiale dichiara di appartenere a una religione organizzata, il cinquanta ammette di partecipare ogni settimana ai riti della propria confessione, i paesi al mondo con più del venti per cento della popolazione non credente sono solo tre: Vietnam, Cina e Corea del sud (in quest’ultimo caso, però, la crescita dei cattolici è costante da tempo). Eppure, sottolinea Stark, “mi aspetto che neppure questi dati concreti avranno un qualche impatto sulla schiera di intellettuali occidentali che sbandierano l’inevitabilità di un trionfo a livello mondiale della secolarizzazione, ovvero la scomparsa della fede nel soprannaturale, sostituita da credenze interamente materiali o laiche. Per loro, la secolarizzazione è un’incrollabile questione di fede”.
Ancora una volta, è questione di paradigmi: “Uno dei pilastri cui si basa la fede nel definitivo trionfo della secolarizzazione è costituito dalla non frequentazione delle chiese nell’Europa moderna. Si suppone – prosegue il sociologo – che questo rappresenti un gigantesco declino rispetto a epoche più antiche e che rispecchi il rifiuto delle credenze religiose. Falso”. L’esempio, che Rodney Stark porta da anni, è quello del medioevo, considerato – “giustamente” – “l’età della fede”. Indagini accurate hanno rivelato che in quei secoli “quasi nessun europeo andava in chiesa, e i teologi cristiani medievali condannavano la religiosità popolare come pura e semplice superstizione e magia, o persino stregoneria. Eppure, nessuno oserebbe ipotizzare che l’Europa medievale fosse fortemente secolarizzata”. Già Walzer, nel 1965, aveva scritto che la società medievale era composta in gran parte da non praticanti e i resoconti giunti fino a noi lo testimoniano. Nel Duecento, il priore domenicano Umberto di Romans ammetteva sconsolato che “la gente in chiesa ci va raramente”.
Nel Medioevo pochi andavano
in chiesa, ma nessuno oserebbe ipotizzare che l'Europa medievale fosse secolarizzata
Se poi qualcuno avesse condotto approfonditi sondaggi sessant’anni fa, avrebbe concluso che il mondo allora era assai meno religioso di quanto lo sia oggi. Ci saranno stati magari più preti nelle nostre parrocchiette, ma il fatto è che “nel 1950 in Cina c’erano cinque milioni di cristiani e oggi sono circa cento milioni, nel 1950 in America latina ad andare a messa erano molto pochi, probabilmente non più del venti per cento. Oggi in molti paesi latini la percentuale supera il cinquanta”. Dati che però sono sempre guardati con diffidenza, quasi si trattasse di realtà esotiche e lontane. E’ l’Europa il paradigma centrale, da sempre. Vent’anni fa, Peter Berger diceva che il mondo è sì molto religioso, sottolineando però che “l’unica eccezione è l’Europa occidentale. Attualmente – diceva – nella sociologia della religione una delle domande più interessanti non è ‘come si spiega il fondamentalismo in Iran?, ma ‘perché l’Europa occidentale è diversa?’”. La spiegazione più ovvia, ma al contempo la più banale, è che la religione è incompatibile con la modernità. Dopotutto, lo pensavano gli illuministi e anche i giacobini che sulla tomba di Pio VI morto in esilio in Francia scrissero in modo beffardo “sesto e ultimo”. La conseguenza è scontata: poiché la modernizzazione è più avanzata in Europa, è qui che le istituzioni religiose sono in forte declino. Basterebbe addentrarsi in qualche via di Saint Denis, dove un tempo venivano sepolti i re francesi e oggi in vetrina s’espongono burqa, per smentire tale assunto. O pensare alle tante Molenbeek che puntellano l’Unione delle cattedrali cara a Robert Schuman per avere conferma che la tesi è debole.
Rodney Stark è uno di quelli (pochi, per la verità) che non vedono alcuna relazione causale tra la modernizzazione e la religiosità. “Dobbiamo invece chiederci se il livello di religiosità in Europa sia davvero così basso come comunemente si crede”. Intanto, nonostante il declino fosse annunciato fin dal XIX secolo, è solo con gli anni Sessanta del secolo successivo che si iniziò a notare un cambiamento rilevante. Una delle ragioni, disse al Foglio qualche mese fa il professor Massimo Borghesi, è che “prima della celebre rivoluzione antropologica pasoliniana c’era un popolo cristiano. Negli anni Cinquanta c’era ancora un ethos, una sensibilità permeati dalla fede, anche quando questa non veniva esplicitamente professata. La sensibilità morale
“La stragrande maggioranza della popolazione della terra si pone il problema del significato e dello scopo della vita”. I numeri
era quella e c’era una grande partecipazione popolare ai riti della tradizione cristiana. Il vero problema è che la chiesa non si dimostrò all’altezza di quella partecipazione”. In poche parole, “a fronte di una società che stava cambiando a livello sociale e di mentalità, la chiesa si limitò a un messaggio di tipo morale e a una morale di tipo moralista”. L’errore, nel valutare il declino presunto, è stato quello di spiegare la non frequentazione delle chiese come la conseguenza di un generale declino della religiosità, “declino che ben presto sarebbe stato incorporato nella tesi della secolarizzazione”, scrive Stark che a tal proposito rispolvera la tesi – da lui condivisa – sviluppata più di un secolo fa da Margaret Loane. Anche oggi, al di là del proliferare dei culti new age e orientaleggianti, è frequente ripetere lo stesso errore. C’è un caso di scuola, la Svezia, presente in testa a tutte le classifiche dei paesi secolarizzati. Nonostante tutto, la grande maggioranza della popolazione si dice cristiana, seppure “a modo mio”. Il settanta per cento ammette di porsi il problema del significato e dello scopo della vita. Il settantotto per cento vuole una funzione religiosa al momento della morte. Il sessantadue, in occasione del matrimonio. Fede un po’ naïf o tiepida? Può darsi, ma l’elemento religioso c’è, di certo più evidente nei paesi a tradizione cattolica rispetto a quelli protestanti. “Il motivo principale – scrive Stark – è che il clero cattolico accetta e predica ancora il messaggio cristiano di base, mentre un gran numero di ecclesiastici protestanti si considera troppo ‘illuminato’ per farlo”. C’è un episodio che dice molto e che per gli storici inglesi è una delle ragioni principali che hanno dato inizio al forte declino della frequentazione delle chiese in Gran Bretagna: nel 1963, il vescovo anglicano John A. T. Robinson pubblicò Dio non è così, libro in cui rigettava i dogmi fondamentali della dottrina cristiana e riduceva l’Onnipotente a un semplice aspetto della psicologia umana. Dopo di lui, altri pastori, sempre anglicani, diedero alle stampe volumi che negavano l’esistenza di Dio come essere consapevole e senziente. “Clero non credente”, osserva il sociologo: niente di cui stupirsi, visto che in Danimarca il pastore Thorkild Grosboll scrisse in un librò in cui confessò di non credere in Dio, ritenendolo un qualcosa “che appartiene al passato. Non credo in un Dio di carne, nell’aldilà, nella resurrezione, nella Vergine Maria. Credo che Gesù fosse soltanto un bravo ragazzo”.
Ma è spostando il punto di osservazione, è andando a guardare quelle periferie così care a Papa Francesco che il ragionamento di Stark comprende appieno. Il Sudamerica, prima di tutto. Qui il paradosso è eclatante: “L’America latina – scrive – non è mai stata così cattolica e questo perché oggi ci sono così tanti protestanti”. In sostanza, qui la chiesa cattolica ha toccato nuove vette di impegno da parte dei suoi membri grazie “all’adozione di strumenti tipici dei suoi competitori protestanti pentecostali.
La scienza si limita a studiare
il mondo naturale, ma nulla può dire sull'esistenza o la natura di una realtà non empirica
La cattolica America latina del mito sta diventando una terra di cristiani carismatici”. E’ l’attrazione che fa crescere la chiesa, non il proselitismo o il compromesso politico, insomma. “La stragrande maggioranza della popolazione della terra si pone il problema del significato e dello scopo della vita”, nota l’autore: “La Cina è il paese in cui ce lo si pone di meno, ma persino lì metà della popolazione dice di pensarci. Altrove, quasi ovunque a porsi il problema sono i tre quarti”. E’ così smentita la tesi secondo cui sulle proprie scelte religiose l’uomo non ragiona, limitandosi a darle per scontate in base alla cultura ereditata dalla famiglia d’origine. Altrettanto falsa è l’idea che la religione sia qualcosa di irrazionale. Carl Sagan, astronomo e divulgatore scientifico morto nel 1996, spiegava che i miracoli non esistono perché semplicemente violano le leggi di natura. L’esempio che amava ripetere era quello del Mar Rosso: impossibile che si sia aperto per far passare Mosé e il popolo di Israele, visto che nessun principio fisico ammette la circostanza. Ma “quello che Sagan non riusciva ad afferrare era che nulla può essere definito miracolo a meno che violi leggi della natura. Sostenere che la scienza confuta la religione è assurdo”, osserva Stark: “La scienza si limita a studiare il mondo naturale, empirico. Non è in grado di dire nulla sull’esistenza o la natura di una realtà non empirica”. Ovviamente, si è liberi di crederci oppure no, ma nessuno “può produrre una prova scientifica della sua affermazione”.
Dopotutto, perfino un ateo convinto come il capostistipe del neodarwinismo Richard Dawkins, nel 1986, ammise che “i sistemi viventi danno l’impressione di essere stati progettati per uno scopo”. Subito aggiunse che trattavasi sicuramente di una impressione sbagliata, però insomma, tutto appariva troppo ordinato, troppo complesso per essere un mero prodotto del caso, privo di un senso.
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