Mongolia finis terrae
I missionari che “sussurrano il Vangelo” in un paese dove essere cristiani non è uno scherzo
Sette parrocchie, settantasette missionari, un solo sacerdote locale, milleduecento battezzati in un territorio immenso, grande cinque volte l’Italia e incastrato tra la Siberia e la Cina. Della Mongolia si sa pochissimo, a parte qualche racconto sulla sua epica e millenaria storia. Della presenza cattolica in quella terra, dove la popolazione si divide per lo più tra buddisti, seguaci dello sciamanesimo e atei, ancora meno. Distanze infinite, clima ostile, una cultura agli antipodi rispetto a quella occidentale. Come si fa a evangelizzare, con queste premesse? Tutto iniziò nel 1992, quando in seguito all’apertura delle relazioni diplomatiche tra il paese asiatico e la Santa Sede, misero piede nella capitale Ulaanbaatar i tre primi missionari.
Di strada da allora ne è stata fatta. Padre Giorgio Marengo, poco più che quarantenne missionario della Consolata, è in Mongolia dai primi anni Duemila. “Toccare il cuore è opera di Dio e della sua grazia; noi missionari siamo al servizio di questo mistero e ci doniamo a lui affinché si serva anche di noi per manifestare se stesso”, dice al Foglio. “E’ vero”, aggiunge: “La realtà della Mongolia è molto ricca e articolata, ma tali erano peraltro l’Impero romano e quello persiano del Primo secolo, quando le prime generazioni di cristiani iniziarono a diffondere il ‘buon profumo di Cristo’. Noi sentiamo molto la sintonia con i cristiani antichi, come ci vengono descritti dagli Atti degli Apostoli”. E l’evangelizzazione? “Considerata da un punto di vista puramente umano, è un’impresa quasi impossibile, se non persino azzardata; molti oggi non la capiscono più, ne sono quasi indispettiti. I credenti però la vedono come segno della sovrabbondante misericordia di Dio, che continua a volerci raggiungere attraverso le mediazioni umane che noi gli offriamo. Ecco allora tutto l’impegno profuso nel conoscere, studiare, amare questa terra e questa cultura, incarnate nelle persone concrete che incontriamo”. In un certo senso, dice padre Giorgio, “si ridiventa bambini, cominciando dagli anni spesi a imparare la lingua – che appartiene al gruppo delle uralo-altaiche – adattandosi a temperature critiche (in questi giorni abbiamo raggiunto i 42 gradi sotto zero) e a un mondo di riferimenti altri rispetto a quelli da cui proveniamo. Difficoltà, insomma, ma anche bellezza di questo immergersi in un altro mondo, volendolo raggiungere in punta di piedi per poter ‘sussurrare il Vangelo’ al cuore di questo popolo. Tempi lunghi, precedenza data all’ascolto e al dialogo, insieme a fede operosa e disponibilità a lasciarsi spogliare di tanti orpelli, per giungere al cuore delle cose. Questi mi sembrano gli ingredienti più necessari per la missione in Mongolia”.
"Sentiamo la sintonia con i cristiani antichi descritti negli Atti degli Apostoli", dice padre Marengo, missionario della Consolata
Qualche tempo fa, ad Asianews proprio padre Marengo disse che “la fede di queste persone è coraggiosa come quei fili d’erba che timidamente spuntano dalla terra ghiaiosa” del deserto. Metafora utile per capire quel popolo, sottolinea oggi: “Quando il lungo inverno mongolo – che sembra davvero precludere qualsiasi speranza di ripresa della vita – finalmente molla la presa, la steppa arida lascia spuntare i primi timidi fili d’erba. E’ sempre uno spettacolo incantevole, un’iniezione di fiducia. La fede di chi in questi anni ha accolto Cristo nella sua vita assomiglia un po’ a quegli steli, che stupiscono e danno gioia. Essere cristiani in Mongolia non è uno scherzo, lo scandalo del Vangelo è ancora tale. E’ una scelta che provoca reazioni forti nella società, abituata a identificarsi con altri riferimenti religiosi. Talvolta si deve passare attraverso incomprensioni familiari ed esclusione sociale, se non vera e propria discriminazione. Ecco perché è una scelta coraggiosa, non scontata”.
Quella mongola è una chiesa giovanissima, dotata quindi di una notevole freschezza. Un po’ come le realtà cristiane d’Africa, in continua espansione. Polmoni della chiesa che funzionano a pieno ritmo ma che possono ammalarsi, come ricordava Benedetto XVI nell’omelia pronunciata in apertura del Sinodo speciale per l’Africa del 2009. “La bellezza dell’accompagnare chi viene alla fede provenendo da un mondo che storicamente ha seguito percorsi molto diversi è un dono prezioso e come tale esposto ad alcuni rischi”, dice padre Marengo. “Il primo è probabilmente l’inesperienza, che è poi l’altra faccia della novità: un valore certamente, ma anche una grande responsabilità. Essendo in pochi e tra i primi a evangelizzare questa terra, le scelte che facciamo hanno un peso notevole, possono lasciare un buon segno o condizionare pesantemente, addirittura scandalizzare. Un rischio – osserva – può essere quello di cercare conforto e rassicurazione nei modelli ecclesiali da cui proveniamo (siamo missionari di diverse parti del mondo), riproducendo schemi a cui siamo abituati, senza verificare se siano davvero adatti a questa realtà. Oppure l’eccessiva timidezza di fronte a una società che mette costantemente alla prova le nostre scelte: accontentasi di quanto raggiunto, senza osare di spingerci un po’ più avanti. Essere minoranza è di grande beneficio, perché ricorda un po’ le parabole del Regno: piccolo seme che cade in terra e muore, pizzico di lievito nella massa, luce debole ma in grado di rischiarare le notti. A volte però si fa fatica ad apprezzare questa qualità evangelica e si cerca di cambiarla a proprio piacimento, o chiudendosi in discorsi autoreferenziali o forzando una visibilità che non pare ancora possibile”.
Ma com’è scandito il ritmo quotidiano di una comunità cattolica così piccola, come quella in Mongolia? Padre Giorgio Marengo premette che “per descrivere le tante attività che portiamo avanti bisognerebbe tenere conto delle diverse congregazioni religiose coinvolte nell’evangelizzazione, ognuna con il suo carattere specifico: l’educazione, la sanità, il disagio sociale e tanti altri. Come missionari e missionarie della Consolata – aggiunge poi – noi ci adattiamo alle diverse realtà in cui viviamo, avendo di mira l’evangelizzazione laddove il Vangelo non è conosciuto e vissuto. Concretamente, qui in Mongolia abbiamo tre presenze: Arvaiheer, una realtà di campagna a 430 chilometri da Ulaanbaatar, ai margini di un centro abitato in mezzo alla steppa che degrada verso il deserto del Gobi. Qui ci siamo progressivamente inseriti nella comunità locale, offrendo iniziative di solidarietà e di aiuto ai più poveri, come una scuola materna ospitata in una ger (le tradizionali tende mongole), un programma di doposcuola, le docce pubbliche gratuite, un progetto per la promozione della donna e un gruppo di accompagnamento per chi cerca di uscire dall’alcolismo. Negli anni – prosegue – qualcuno ci ha chiesto di conoscere di più il Vangelo ed è iniziato un percorso d’iniziazione cristiana, che ha portato alla formazione di una piccola comunità credente; molto del nostro impegno è volto a sostenere questo cammino di fede e ad aiutare chi lo vuole intraprendere. A Ulanbaatar, oltre a prestare servizio nelle parrocchie e al vescovo, abbiamo avviato un progetto nella periferia nord della città, in una realtà di emarginazione e difficoltà sociali. Anche qui ci rivolgiamo soprattutto ai bambini e alle famiglie, con varie iniziative educative e assistenziali. Infine, siamo presenti anche a Kharkhorin, l’antica capitale dell’Impero mongolo. Qui vorremmo essere un segno di continuità con il ricco passato di convivenza pacifica tra religioni diverse, a servizio soprattutto del dialogo interreligioso e della ricerca culturale”.
"Essere missionari qui assomiglia un po' al seme gettato, che si lascia morire nelle crepe della terra. Serve tempo per penetrare in profondità"
Piero Gheddo, grande missionario da poco scomparso, era solito dire che “la missione è annuncio di Cristo, non generica filantropia”, e il senso di tale affermazione si comprende ancora meglio sentendo padre Marengo dire che “essere missionari qui assomiglia un po’ al seme gettato, che si lascia morire nelle crepe della terra. Per penetrare in profondità ci vuole tanto tempo, ma come sottolineava Paolo VI, l’evangelizzazione non può rimanere al livello di ‘pittura superficiale’”. Ecco, “penso che essere missionari qui assomigli un po’ all’esperienza di Abramo, che partì per un paese che non conosceva, fidandosi di chi lo mandava. La missione in Mongolia conduce a un incontro sempre più vero con colui che manda e si nutre di amore per questo mondo così affascinante e complesso, che chiede di essere conosciuto a fondo e fecondato dal Vangelo. L’incontro quotidiano con la nostra povertà e inadeguatezza è forse la strada sempre aperta per la nostra conversione”.
Quanto alla diffidenza della popolazione locale per i missionari cattolici, il nostro interlocutore risponde che “esiste una diffidenza verso la religione in generale, soprattutto se considerata ‘straniera’, ma come risultato dell’esperienza storica degli ultimi tre secoli. La dominazione mancese tra il XVIII e il XX secolo aveva inizialmente favorito una nuova diffusione del Buddismo per scopi politici – dominare più facilmente un popolo fiero e combattivo. D’altra parte, il comunismo sovietico subentrato subito dopo predicava invece l’ateismo di stato e voleva azzerare lo stesso Buddismo per scopi ideologici”. Ecco perché “chi viene in Mongolia in nome di una religione deve tener conto di questo retroterra, accorgendosi però anche dello spirito profondamente religioso di questo popolo, che nessuna manovra politica è riuscita a soffocare. C’è poi da considerare anche il grande isolamento culturale in cui il paese è a lungo vissuto, soprattutto nelle zone rurali. E’ quindi abbastanza normale che la presenza di stranieri di una tradizione religiosa poco radicata desti curiosità o diffidenza iniziale. Nel tempo, se si costruiscono relazioni fraterne, l’iniziale sospetto può trasformarsi in tolleranza e accettazione”.
Sette parrocchie, settantasette missionari, un sacerdote locale, mille battezzati. In un paese grande cinque volte l'Italia
Una chiesa ai confini del mondo, insomma. Viene facile pensare alle periferie così tanto presenti nella predicazione del Papa, “una figura molto cara alla piccola comunità cattolica della Mongolia, un vero padre della fede con cui i credenti s’identificano, così come i devoti buddisti si riferiscono al Dalai Lama”. Anche la società, dice padre Marengo, “ha un occhio di riguardo per il Pontefice romano, riservandogli qualche sporadica – ma significativa – comparsa nelle news a diffusione nazionale. Non conta tanto la provenienza del Papa, quanto la sua figura di leader spirituale. Invece sono rare nel notizie sulla chiesa in generale”.
Quanto alla periferia, “se con questo termine s’intende una condizione marginale e un po’ trascurata rispetto al centro, direi che non ci sentiamo periferici. Semmai – spiega il missionario della Consolata – si potrebbe piuttosto parlare di un senso di piccolezza e timidezza rispetto al panorama della chiesa universale. Se invece ci si riferisce alla dimensione di frontiera, allora la risposta è sì. Il venticinquesimo dall’apertura delle relazioni diplomatiche e dall’arrivo in epoca recente dei primi tre missionari ci ha fatto prendere ancora più coscienza dell’essere in una condizione privilegiata di vero primo annuncio e di consolidamento di una comunità credente nata da poco. Forse un significato dell’essere chiesa di periferia è quello di sentirsi in prima linea, di non poter dare nulla per scontato, perché il Vangelo in queste condizioni è davvero una novità dirompente, che ha bisogno di testimoni autentici”. E poi, “associato a questa consapevolezza, c’è un senso di stupore e di riconoscenza, nell’accompagnare cuori che si aprono alla persona di Cristo e cominciano a rileggere la loro identità personale e collettiva attraverso la nuova prospettiva della fede. Sentiamo molto forte la sfida dell’inculturazione, a cui cerchiamo di dedicare il meglio delle nostre risorse”.