I martiri del silenzio
La Santa Sede e i regimi dittatoriali. La complicata questione turca e il vecchio enigma cinese
“Le analogie reali fra la chiesa che oggi stenta, soffre, e a malapena sopravvive nei paesi a regime ateo e totalitario e quella delle antiche catacombe sono evidenti. Identico è il motivo della resistenza della chiesa di allora e oggi: difendere la Verità”.
(Paolo VI)
Che cos’è la sofferenza?, domandava nell’ultimo scritto apparso sul suo blog il cardinale Joseph Zen, arcivescovo emerito di Hong Kong, che da anni ammonisce Roma a non scendere a patti con il regime di Pechino, accettando compromessi sulla nomina dei vescovi. In Vaticano non sanno cosa sia la sofferenza di una chiesa clandestina, diceva il porporato salesiano che nonostante le ottantasei primavere sulle spalle lo scorso gennaio si è presentato a Santa Marta per dire al Papa che non si può accettare un appeasement che per la comunità cattolica locale sarebbe una catastrofe, politica e spirituale. A leggere i diari dei martiri cristiani di Mao, qualche tempo fa ripubblicati dall’Editrice missionaria italiana (In catene per Cristo), non vi sarebbero dubbi sull’accogliere senza titubanza alcuna le parole di Zen e di quei tanti cattolici cinesi che patiscono la silenziosa sofferenza pur di restare in comunione con il Papa. “La ragione principale dell’accanimento dei comunisti nei confronti della gerarchia cattolica e dei fedeli più impegnati è presto detta: si voleva a tutti i costi spezzare il legame fra la chiesa cattolica cinese e quella universale, quel legame rappresentato in forma suprema dal Papa”, scriveva il giornalista e scrittore Gerolamo Fazzini.
Nel caso cinese ci sono due fronti in campo: il primo constata la spaccatura profonda tra la chiesa patriottica e la chiesa clandestina ma pensa che per ricomporla, e dare visibilità e più “libertà” ai cattolici, sia necessario scendere a patti con le autorità, anche cedendo qualcosa al tavolo del negoziato. Il secondo, invece, sostiene che qualunque accordo con Pechino significherebbe nient’altro che la resa e la legittimazione del controllo statale sulla chiesa.
Il discorso di Paolo VI alle Catacombe romane, bussola per capire il modo d’agire della Santa Sede nei confronti dei regimi
Che fare, dunque? Restare fermi o andare avanti? A Roma davvero non si sa cosa sia la sofferenza? Viene in soccorso un’omelia vecchia di più di cinquant’anni, pronunciata da Paolo VI il 12 settembre del 1965 alle Catacombe romane. “La Santa Sede cerca sempre di condurre una difficoltosissima azione, non solo in difesa della propria esistenza e dei propri diritti, ma altresì della libertà e della dignità umana e degli interessi morali e spirituali delle popolazioni. La Santa Sede si astiene dall’alzare con più frequenza e veemenza la voce legittima della protesta e della deplorazione, non perché ignori o trascuri la realtà delle cose, ma per un pensiero riflesso di cristiana pazienza e per non provocare mali peggiori”. Quindi, “essa si dice sempre pronta a oneste e dignitose trattative, a perdonare i torti subiti, a guardare più al presente e al futuro, che non al recente e doloroso passato, sempre che tuttavia incontri segni effettivi di buona volontà”.
Paolo VI aveva in mente la situazione delle chiese nell’Europa orientale, impedite a vivere liberamente dal sistema comunista. Solo un anno prima era stato siglato con l’Ungheria il primo accordo di quella che poi sarebbe diventata l’Ostpolitik vaticana, l’approccio pragmatico e realista con cui il Vaticano cercava una mediazione e una coesistenza con i regimi atei. Pregando nelle catacombe, Montini disse che “le analogie reali fra la chiesa che oggi stenta, soffre, e a mala pena sopravvive nei paesi a regime ateo e totalitario e quella delle antiche catacombe sono evidenti. Identico è il motivo della resistenza della chiesa di allora e di oggi: difendere la Verità, e insieme rivendicare il sacro diritto di ogni uomo a una sua propria responsabile libertà, soprattutto nel campo fondamentale della coscienza e della religione”.
In queste poche parole di Paolo VI si rintraccia la linea che la Santa Sede ha seguito, ora con più ora con meno slancio e fortuna, nel successivo mezzo secolo, davanti alle crisi internazionali che inevitabilmente colpivano anche le comunità cattoliche.
Dalla metà degli anni Sessanta il quadro è mutato profondamente, non ci sono più i blocchi contrapposti, eppure i regimi autoritari con cui la chiesa ha a che fare non mancano. Sempre evitando lo scontro frontale, ma cercando un terreno comune su cui imbastire un dialogo per rendere viva la presenza e la testimonianza. In una posizione di “facilitatore” e non di mediatore, perché la Santa Sede è gelosa della propria autorevole terzietà. Un’azione porta avanti ora con scarso successo – l’approccio con la Russia post sovietica e in particolare con la chiesa ortodossa di Mosca non fu ottimale almeno fino alla metà del primo decennio degli anni Duemila – e spesso con risultati evidenti. L’exploit più chiaro del recente passato è la benedizione dell’accordo tra gli Stati Uniti e Cuba che hanno favorito il disgelo dopo il lungo freddo iniziato a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Il ruolo fondamentale della Santa Sede – e in particolare di Francesco – nell’avvicinare le parti, fu sottolineato sia da Barack Obama sia da Raúl Castro.
I negoziati con la Cina e i paragoni impropri con la Ostpolitik del cardinale Casaroli: troppo diversi il contesto culturale e religioso
L’elemento nuovo che il pontificato di Jorge Mario Bergoglio ha introdotto nella visione geopolitica della Santa Sede – espressione che di certo il Papa non amerebbe sentire – è il concetto secondo cui “la realtà è sempre superiore all’idea”. Detta così parrebbe uno slogan, ma è la chiave per capire l’atteggiamento di Roma nei confronti del mondo, in particolare nei riguardi delle crisi dolorose e laceranti che l’attraversano. Diceva tempo fa il cardinale Parolin che per Francesco è fondamentale il fatto che “ci si incontra sul piano reale, quello della vita concreta, prima che nel confronto tra idee e sistemi di pensiero differenti”. E ciò vale anche per la Cina. C’è solo un’intervista nella quale Francesco ha affrontato la questione cinese in modo completo, non limitandosi all’auspicio sintetico di un futuro viaggio nell’immenso paese asiatico, ed è quella concessa al professor Francesco Sisci, sinologo e collaboratore di Asia Times. Scorrendo il testo e le parole del Papa, risalta subito all’occhio quanto Bergoglio intendesse superare ogni incomprensione di un passato che non si può cambiare. Guardare al domani, calare gli sforzi della chiesa nella realtà, nel vissuto quotidiano. Non negando la sofferenza, ma – come diceva Paolo VI – guardando “al presente e al futuro, più che al recente e doloroso passato”. Il Papa, ha ricordato padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e uomo vicino a Francesco, “non si schiera, ma cerca soluzioni concrete a situazioni da ospedale da campo. Si assume la responsabilità di posizioni nette, parla con tutti ma è molto chiaro”. E, a volte, “assume posizioni rischiose rispetto al profilo diplomatico”. Insomma, quella di Jorge Mario Bergoglio è “una diplomazia poco diplomatica che si deve sposare con la parresia, cioè la chiarezza e in alcuni casi la denuncia scomoda”. Solo così, ha aggiunto, può sollevare la questione del ruolo globale del cattolicesimo oggi”. Si guardi alla relazione con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ricevuto solo pochi giorni fa in Vaticano. Il rapporto tra i due fornisce la spiegazione più efficace di tale quadro. Francesco non tentennò quando si trattò di denunciare il genocidio armeno, parlando nella basilica di San Pietro solo pochi mesi dopo la delicata visita in Turchia (ecco la diplomazia poco diplomatica). Subito la reazione fu veemente, con Ankara che ritirò il proprio ambasciatore presso la Santa Sede e convocò il nunzio. “Il Papa è un uomo che distorce la storia”, disse subito il ministro degli Esteri turco, e il capo del dipartimento per gli Affari religiosi – che aveva avuto modo di incontrare il Pontefice in un colloquio eufemisticamente definito “freddo” dai media internazionali – non ci pensava due volte prima di ricordare a Bergoglio che “se tutti dobbiamo essere considerati responsabili per le sofferenze e i dolori passati, il Vaticano ne uscirà fuori come il grande sconfitto”. Ciò non ha impedito che il filo delle relazioni rimanesse integro e che Erdogan in persona chiedesse di essere ricevuto a Roma dal Pontefice per discutere dello status di Gerusalemme. Un tentativo andato parzialmente a buon fine, visto che Francesco – al quale non si può dettare l’agenda – ha allargato lo spettro degli argomenti sul tavolo, mettendo subito in chiaro che la preoccupazione per le condizioni della comunità cattolica in Turchia è particolarmente avvertita nelle stanze di Santa Marta.
“La realtà è superiore all’idea”: ecco la novità introdotta dal pontificato di Bergoglio nella lettura geopolitica del Vaticano
Il negoziato con Pechino ha ricordato, nella narrativa generale, i fasti della Ostpolitik vaticana, stagione complessa e a suo modo controversa che divise anche la chiesa al suo interno tra chi ne esaltava la grandezza, alimentando una fiammella di speranza per i cattolici d’oltrecortina e chi, invece, nella strategia di Roma null’altro vedeva se non un cedimento totale ai desiderata di Mosca e dei suoi satelliti. In realtà, i casi non sono sovrapponibili: al di là della cortina pulsava un cuore cattolico, in alcuni casi enorme (la Polonia di Wyszynski e Wojtyla, ad esempio), in altri più piccolo (la Cecoslovacchia di Beran). Ma erano pur sempre paesi con un forte radicamento cattolico. La Cina no, è un altro mondo, un’altra cultura, un paese dove – diceva Sisci a questo giornale – “non c’è una massa di gente disposta ad ascoltare le parole del Papa, ma una massa di uomini e donne che non sa nemmeno chi è il Papa”.
La diplomazia poco diplomatica di Francesco, necessaria per “sollevare la questione del ruolo globale del cattolicesimo”