Michel Aupetit

La campagna del vescovo di Parigi sulla bioetica: "La chiesa deve parlare"

Matteo Matzuzzi

Un presule interventista nella capitale della laïcité

Roma. “Cosa aspettarsi da monsignor Michel Aupetit?”, si domandano da due mesi quotidiani e settimanali francesi – non solo quelli a tema religioso – che cercano di capire chi sia l’uomo che Papa Francesco ha scelto come nuovo arcivescovo di Parigi. Quello di Aupetit era un nome che circolava da tempo, ma fino all’ultimo in pochi credevano che alla fine sarebbe stato scelto questo medico sessantaseienne ordinato prete a quarant’anni. Troppo lontano dal profilo “sociale” che pure in tanti, soprattutto nel vasto mondo laicale, auspicavano, benché lui abbia deciso di celebrare ogni domenica la messa in una delle parrocchie parigine, da quelle vuote del centro a quelle complicate delle periferie. Aupetit è un bioeticista che Libération ha definito “combattente conservatore”. In effetti, l’arcivescovo, nelle sue numerose interviste dopo la nomina – “un regalo alla frangia più radicale del conservatorismo francese”, ancora Libé – ha lasciato intendere che è ora di tornare in piazza a far sentire la propria voce, perché ciò “è un dovere della coscienza, anche se la cosa non è più di moda”. L’occasione propizia è data dagli Stati generali della Bioetica, aperti lo scorso 18 gennaio e che ogni sette anni segnano l’avvio della revisione delle leggi bioetiche. Aupetit ha detto che questa è una grande opportunità per la chiesa di giocare la propria partita, mobilitando il più possibile i fedeli: “Va fatto per illuminare le coscienze. La maggior parte delle persone pensa che tanto non cambia niente. Invece noi vogliamo che dicano ‘sì, c’è un problema”. Qui – ha detto l’arcivescovo in un’intervista al settimanale La Vie – “è in gioco una questione di civiltà”. Qualche settimana prima, sulla Croix aveva spiegato che “alla chiesa non spetta il compito di fare le leggi, ma deve illuminare le intelligenze e aprire i cuori” ed evitare che prevalga – come appare oggi – “la legge della giungla”.

 

La chiesa è troppo silenziosa sulla bioetica?, gli è stato domandato. “La chiesa deve parlare. Se noi non ne parliamo, le pietre grideranno, dice Gesù. Abbiamo sentito, non abbiamo sentito… non potremo essere accusati di non aver detto niente”, ha risposto. Emmanuel Macron, gli è stato fatto notare, si è definito progressista. “Che cos’è il progresso?”, ha osservato Aupetit: “Il progresso è tecnico o umano? La scoperta della fissione nucleare è stata un progresso tecnico. Poi due bombe hanno ucciso oltre duecentomila persone in Giappone. La tecnica deve essere sempre valutata in termini etici. ‘La scienza senza coscienza è solo la rovina dell’anima’, scrisse Rabelais. Un martello è un progresso, ma se serve a distruggere la testa del vicino, non lo è più. Ancora, la diagnosi prenatale permette ai bambini di essere operati nell’utero o alla nascita per consentire loro di vivere. Ma se questa diagnosi viene utilizzata per rilevare un’anomalia che porterà a determinare un arresto per via medica della gravidanza, allora qui c’è una differenza etica”. Sull’eutanasia, la posizione è netta: “Davanti a situazioni drammatiche raccontate dai media dico che non possiamo partire da un caso singolo per scrivere una legge generale. Cosa può proteggere tutti i pazienti, fornendo loro la migliore assistenza allo stato attuale delle conoscenze scientifiche e mediche? Bisogna partire da questa domanda”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.