Lo scontro sulle finanze vaticane e l'ipoteca sul prossimo Conclave
Tra riforme, allontanamenti e dimissioni, lo scontro sullo stato dei forzieri del Vaticano è tra curiali e americani
Roma. Cinque anni fa, più o meno in questi giorni, uno dei punti in testa all’agenda delle discussioni tra i cardinali alla ricerca del profilo adatto a succedere a Benedetto XVI riguardava lo stato dei forzieri vaticani. Banche, soldi, trasparenza e finanza. Nel chiuso delle congregazioni generali, oltre alle sortite sulla necessità di evangelizzare di più e meglio e di fare entrare aria fresca dai finestroni dei palazzi d’oltretevere, ci s’accapigliò sullo Ior e tutto ciò che ruotava attorno al celebre torrione. Era la pietra dello scandalo, uno dei grattacapi che più avevano fatto penare Ratzinger, con presidenti nominati e poi d’improvviso messi alla porta, senza che mai sia stato chiarito il motivo.
Si ricorda ancora il botta e risposta tra Tarcisio Bertone, segretario di stato uscente e principe della curia, e il brasiliano Joao Braz de Aviz che applaudito da numerosi confratelli sciorinava l’uno dopo l’altro i problemi di una gestione travagliata che aveva nell’opacità della “banca” vaticana il suo fulcro. Il cardinale nigeriano Onayiekan sbottò dicendo che lo Ior non è un dogma, auspicandone la chiusura così come fece Schönborn. Gli americani, che giravano in un pulmino tutto loro e organizzavano conferenze stampa differenziate, chiarivano che era giunto il loro momento. Chiedevano un manager per sistemare le cose, a partire dall’economia, facendo intendere di avere in tasca – a mo’ di monito – l’elenco dei donors loro connazionali che mantenevano in piedi le finanze di San Pietro. Bergoglio, una volta eletto, disse che a sbarrare le porte della banca ci aveva pensato ma poi aveva concluso che non sarebbe stato possibile. Meglio cambiarne la ragion d’essere, anche se paradossalmente il compito si presentava più arduo. Si trattava di smontare pezzo per pezzo la vecchia struttura, tornando alle origini: un istituto al servizio delle opere di religione e d’aiuto al “Santo Padre nella sua missione di pastore universale”, supportando altresì “istituzioni e individui che collaborano con lui nel suo ministero”, come si legge nel comunicato dell’aprile 2014 che chiuse ogni supposizione circa il destino dello Ior. Ma era l’intero sistema economico-finanziario a essere messo sotto la lente e questo fu il primo terreno su cui si applicò lo spirito riformatore di Francesco: commissioni create ex novo, sostituzione di dirigenti, un taglio più o meno netto con il passato che culminò con la nomina di George Pell a capo della nuova segreteria per l’Economia, che più d’un malumore e tante resistenze creò in curia.
Un braccio di ferro con i vecchi dicasteri competenti sui beni e la segreteria di stato, conclusosi con la sconfitta di Pell, che prima ha ceduto competenze che lui considerava ormai acquisite e poi è tornato in Australia per difendersi nel processo che lo vede imputato per altre questioni che con le finanze poco hanno a che vedere. Nell’ultimo anno, poi, se n’è andato prima il Revisore generale Libero Milone, con scia d’accuse divulgate a mezzo stampa contro i vertici della curia, poi il numero tre dello Ior Giulio Mattietti è stato allontanato dal territorio vaticano senza che mai sia stato chiarito il motivo. Infine, ed è notizia di pochi giorni fa, si è dimessa dal board dell’Istituto per le opere di religione Mary Ann Glendon, prima donna a ricoprire un incarico così in alto nella banca vaticana. Ufficialmente, la professoressa americana – già ambasciatrice di Washington presso la Santa Sede – ha scelto di dedicarsi ad altre “cause cattoliche”, ma non pochi addetti ai lavori hanno definito l’addio di Glendon come la chiusura d’epoca. Il sigillo sulla stagione “degli americani” che tanto peso avevano avuto sotto le precedenti gestioni. Meno consulenti esterni, meno manager e più controllo diretto della curia. Un ritorno alle origini, insomma. Ma è proprio dagli Stati Uniti che sul tema delle finanze si fa sentire un vento contrario alla spinta verso il cambiamento. Se sullo Ior gli americani escono un po’ ammaccati e con peso minore rispetto a prima – benché un anno e mezzo fa nel Consiglio di sovrintendenza sia stato nominato Scott Malpass, che di finanza è più specializzato della professoressa Glendon – la linea “interventista” in materia economico-finanziaria ne risente anche altrove, dove la Segreteria per l’Economia è ormai un moloch sprovvisto perfino dei suoi vertici: detto di Pell, da molti mesi costretto a stare dall’altra parte del mondo, lunedì è stata annunciata la nomina di mons. Alfred Xuereb, segretario generale del dicastero, a nunzio in Corea del sud e Mongolia. “E’ tempo di riportare un po’ di tranquillità, aspettare che l’acqua torni a scorrere nel verso di sempre, senza inutili strappi, pugni sul tavolo o metodi che nulla hanno a che vedere con la tradizione della chiesa”, dice un sacerdote che ben conosce la materia. L’allusione è a Pell, che pretendeva di sovvertire usi e costumi ormai consolidati. Non è un caso che il cardinale Jean-Louis Tauran, camerlengo e diplomatico di lungo corso, avesse ammonito sul rischio di “sovietizzazione” del sistema. Un’operazione, quella del cardinale australiano, che molti agganci aveva nel mondo anglosassone, e non solo per mere questioni linguistiche.
Ma la partita è ben più ampia e dietro il ritorno a una gestione domestica degli affari finanziari in Vaticano c’è anche il tentativo di smarcarsi da una sorta di “controllo” esercitato dai grandi finanziatori americani, pronti a ritirare o rivedere l’appoggio economico se a Roma il clima fosse non in linea con i loro desiderata. E’ recente la protesta del miliardario filantropo Ken Langone, che minacciò di non versare neanche più un dollaro per il restauro della cattedrale di San Patrizio a causa delle posizioni papali sul capitalismo: “Eminenza – disse Langone al cardinale arcivescovo Timothy Dolan – questo è un ostacolo ulteriore di cui non abbiamo bisogno. Gli americani sono tra i più generosi filantropi del mondo, ma devono essere approcciati nella maniera giusta. Si ottiene di più col miele, che con l’aceto”. Un’antifona chiara che mise in allarme i vertici dell’episcopato americano, e che in Vaticano fu interpretata come una specie di ricatto: o si cambia linea, o di soldi ne vedranno sempre meno. L’ospedale da campo bergogliano, che nulla c’entra con i sibillini messaggi à la Langone, ha però bisogno (e tanto) dei fondi per poter curare le anime sofferenti. “Non so se agli americani piacerà il nuovo corso”, aggiunge al Foglio lo stesso sacerdote, spiegando che più che di fazioni stavolta bisognerebbe parlare di una contrapposizione ormai acclarata tra una visione di chiesa propria delle alte gerarchie americane – più rumorosa e muscolare e attenta a generare profitti – e una più “conservatrice”, curiale e poco propensa ormai ad avallare progetti in odor di megalomania e considerati rischiosi. Ed è probabile che i due poli verranno allo scontro nel prossimo Conclave, quando sarà. Se nel 2013, come ebbe a dire il cardinale Dolan, Jorge Mario Bergoglio fu eletto anche perché gli elettori statunitensi ottennero rassicurazioni circa una svolta manageriale – poi in gran parte disattesa, come si vede oggi con il fallimento di due dei tre grandi progetti di riforma finanziaria (Segreteria e Revisore generale) – in futuro da oltreoceano si chiederà qualcosa in più: se non l’elezione di un proprio candidato, quantomeno il controllo totale del forziere.
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