La complicata Pasqua del Papa, tra fake news e vescovi in manette
Dalle lettere censurate alle interviste inventate, fino al negoziato con la Cina. Quanti ostacoli ha il pontificato
Roma. Vergogna, pentimento, speranza. Sono le tre parole che più il Papa ha usato nella preghiera scritta per la Via Crucis al Colosseo. Vergogna “per averti lasciato (Gesù, ndr) solo a soffrire per i nostri peccati”, “vergogna per essere scappati dinanzi alla prova”, “vergogna per aver scelto Barabba e non te, il potere e non te, l’apparenza e non te, il dio denaro e non te, la mondanità e non l’eternità”. E vergogna “perché tante persone, e perfino alcuni tuoi ministri, si sono lasciati ingannare dall’ambizione e dalla vanagloria perdendo la loro degnità e il loro primo amore”. La “vergogna di aver perso la vergogna”. Pentimento “che germoglia dalla certezza che solo tu puoi salvarci dal male, solo tu puoi guarirci dalla nostra lebbra di odio, di egoismo, di superbia, di avidità, di vendetta, di cupidigia, di idolatria, solo tu puoi riabbracciarci ridonandoci la dignità filiale e gioire per il nostro rientro a casa, alla vita”. Speranza “perché la tua chiesa, santa e fatta da peccatori, continua, ancora oggi, nonostante tutti i tentativi di screditarla, a essere una luce che illumina, incoraggia, solleva e testimonia il tuo amore illimitato per l’umanità, un modello di altruismo, un’arca di salvezza e una fonte di certezza e di verità”.
La sesta Pasqua da quando Jorge Mario Bergoglio è vescovo di Roma è forse la più complicata anche se lui, pranzando giovedì con alcuni parroci romani, ha detto di non soffrire per le critiche che gli vengono rivolte perché “sono a posto con la mia coscienza”. Alla fine, le interviste mai concesse a Eugenio Scalfari – della smentita della Sala stampa vaticana Repubblica non ha dato conto, quasi che le fantasiose ricostruzioni scalfariane siano dogma di fede – su improbabili scariche energetiche che un Dio più simile a Zeus che al Padre cristiano avrebbe prodotto per creare l’universo sono una facezia. Un inghippo che però è andato a sommarsi su questioni ben più delicate e rilevanti. La Cina, prima di tutto. Da tempo si parla di un’intesa imminente, con il Papa pronto a firmare l’accordo che darebbe al presidente eterno Xi Jinping, di fatto, il potere di nominare i vescovi. A Roma gettano acqua sul fuoco, spiegano che nulla è dietro l’angolo, che bisogna ancora riflettere, pregare e pensare a una soluzione che non scontenti le parti. Anche perché la situazione è ancora fluida, se è vero che nei giorni scorsi un vescovo cosiddetto “sotterraneo”, cioè non riconosciuto dal governo comunista di Pechino, mons. Vincenzo Guo Xijin, è finito in manette – poi rilasciato – per essersi rifiutato di celebrare il Triduo pasquale con il pastore “legittimo” Zhan Silu.
Più d’un osservatore, anche in curia, si domanda fino a quando questi fatti potranno essere ignorati e sacrificati sull’altare della realpolitik, che vuole un accordo (anche se non ottimale) con la Cina per sbloccare le relazioni diplomatiche interrotte da decenni. Una curia che nell’ultimo anno ha perso elementi importanti, creature di questo pontificato: dal cardinale George Pell tornato in Australia a difendersi nel processo in cui è imputato per pedofilia, a mons. Dario Edoardo Viganò, gran capo di tutti i media vaticani costretto alle dimissioni per l’imbarazzante pasticcio sulla lettera censurata di Benedetto XVI che rifiutava di elogiare un testo scritto dal teologo Peter Hünermann. Le riforme, che a giudizio dei più ottimisti vanno avanti senza problemi, sono al palo. Il grande cambiamento in curia, annunciato fin dal 2013, per ora è poco più di un maquillage: qualche dicastero accorpato, qualche monsignore pensionato. I grandi scandali che sembravano sepolti e appartenenti al passato torbido dell’epoca dei corvi, sono riemersi.
Un assaggio amaro il Papa l’ha provato di persona, durante il viaggio in Cile dello scorso gennaio. Francesco finora si è sempre preoccupato poco delle polemiche, del chiacchiericco da sacrestia, delle “defaillances” più o meno gravi di suoi collaboratori. Ostacoli superabili, seccature che non hanno intaccato il rapporto diretto e senza mediazioni tra lui e il popolo fedele, tra le masse poco interessate a edotti discorsi e ancor meno propense a subire somministrazioni di complicate dottrine magari elaborate da teologi che dovrebbero stare “su un’isola deserta” (cit.). E però il passo così veloce d’inizio pontificato, l’incedere spedito verso la rivoluzione – “l’aria fresca” così cara al cardinale Oscar Maradiaga, capo del C9 cardinalizio – ha subìto una battuta d’arresto. Anche per quegli impicci sottovalutati dovuti ai superbi pavoneggiamenti dei cortigiani.
Il cristianesimo non è utopia