L'infaticabile difensore del diritto alla libertà religiosa che mancherà alla chiesa
In morte del cardinale Jean-Louis Tauran (1943-2018)
Roma. La chiesa sentirà la mancanza di Jean-Louis Tauran. Il porporato francese, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, è morto il 5 luglio nel Connecticut, dove s’era recato per curare il Parkinson che lo tormentava da molti anni. Aveva 75 anni. Noto ai più per aver annunciato al mondo l’elezione di Jorge Mario Bergoglio al Soglio di Pietro, è stato un uomo d’immensa cultura, tra i migliori diplomatici che la scuola vaticana ha prodotto nell’ultimo mezzo secolo. Ha lavorato fino all’ultimo. Lo scorso aprile, piegato dalla malattia, era in Arabia Saudita a dire ancora una volta quel che tante altre volte – anche sfidando certi circoli salottieri benpensanti – aveva affermato, e cioè che “tutte le religioni devono essere trattate allo stesso modo, senza discriminazioni” e che “i cristiani non devono essere considerati cittadini di seconda classe”. Detto alle nostre latitudini è quasi normale, ma pronunciare tali parole davanti al re wahabita, al vicegovernatore di Riad e al segretario della Lega musulmana mondiale è ben altra cosa.
Tauran è stato un infaticabile difensore del diritto alla libertà religiosa ovunque nel mondo. Anche laddove per i cristiani sembrava non esserci alcuna possibilità di professare la propria fede. Non credeva all’esistenza di uno scontro tra civiltà, cristiani da una parte e musulmani dall’altra: lui parlava di “scontro di ignoranze e radicalismi” il cui esito non poteva che essere tragico. Ma fu anche il primo cardinale a parlare di “genocidio” dei cristiani nel vicino oriente quando in occidente giunsero le immagini dell’avanzata jihadista del Califfato in Siria e Iraq. Scuotendo dal torpore in cui era caduta anche una buona parte di intellighenzia clericale – soprattutto laici devoti a un umanitarismo “sentimentale” – disse che in quelle terre “i cristiani vengono uccisi, minacciati, ridotti al silenzio o cacciati via, con le chiese che vengono distrutte o rischiano di trasformarsi in musei”. Tauran poteva permetterselo, sia per statura intellettuale sia per conoscenza della materia sulla quale si esprimeva. E questo gli consentiva di parlare direttamente con i massimi esponenti delle altre confessioni religiose, di negoziare con le autorità di al Azhar sostenendo che “la prima condizione per un dialogo interreligioso è quella di avere un’idea molto chiara del contenuto della propria fede”. E bacchettando, con l’ironia che gli era propria, quei cattolici (sacerdoti, professori e perfino vescovi) che parlano di dialogo avendo una “conoscenza molto debole della propria fede”. Dialogo interreligioso sì, “ma non nell’ambiguità o quando gli interlocutori non hanno un profilo spirituale definito. Così – diceva – nascono il relativismo e il sincretismo”. Sempre netto e poco avvezzo alle perifrasi diplomatiche, nonostante la sua formazione. Come quando, parlando a un convegno con esponenti delle altre religioni prese la parola per dire di non condividere la teoria secondo cui il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam sono le tre religioni del libro: “No, il cristianesimo non è una religione del libro. Il cristianesimo è un incontro con un avvenimento. E’ una cosa diversa”.
E’ stato al fianco di tre Papi: Giovanni Paolo II lo volle in Segreteria di stato e lo creò cardinale nel 2003, Benedetto XVI lo nominò alla guida del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, Francesco lo scelse nel 2014 come camerlengo di Santa romana chiesa, affidandogli tutte le missioni più delicate nell’ambito del rapporto con le altre confessioni religiose. Jean-Louis Tauran partiva sempre da un assunto, e cioè la constatazione che la dimensione religiosa, nonostante ogni sforzo umano per cancellarla, non può essere eliminata: “L’abbiamo visto con i nostri occhi, per più di settant’anni si è cercato di eliminare Dio, e Dio è ritornato”.
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