Il martirio di un seminarista. Un delitto in odio alla fede nascosto per 60 anni
Storia di Rolando Rivi, assassinato a quattordici anni da un gruppo di partigiani comunisti. Vittima dalle grandi ideologie del XX secolo. “Io sono di Gesù”, disse alla madre che lo implorava di nascondere la talare
“‘Beati voi quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male a causa mia, rallegratevi ed esultate, poiché grande è la vostra ricompensa nei cieli’ (Mt 5, 11-12). Quanto si addicono queste parole di Cristo agli innumerevoli testimoni della fede del secolo passato, insultati e perseguitati, ma mai piegati dalla forza del male!” (san Giovanni Paolo II)
Forse il cuore della questione è tutto qui: “Apparteneva al Signore con tanto amore da suscitare l’odio di chi voleva cancellare Cristo dalla storia dell’uomo”. Emilio Bonicelli, giornalista e scrittore, nonché segretario e portavoce del Comitato “Amici di Rolando Rivi”, lo dice subito, appena gli si pone la banale domanda sul perché quel ragazzino di quattordici anni di nome Rolando, seminarista convinto tanto da non smettere mai la sua talare nera, ormai sbiadita e sdrucita a forza di essere lavata, sia stato ucciso con due colpi di pistola nei pressi di Monchio, Modena, il 13 aprile del 1945. “Assassinato solo dopo essere
Tra il 1944 e il 1947 furono centotrenta i sacerdoti e i seminaristi assassinati in Italia dai partigiani comunisti
Inizia qui la storia del martirio di questo ragazzo, beatificato il 5 ottobre del 2013 perché ucciso “in odio alla sua fede, colpevole solo di indossare la veste talare in quel periodo di violenza scatenata contro il clero”, dirà Papa Francesco. Quella veste talare che i suoi persecutori avrebbero arrotolato e trasformato in una sorta di pallone da prendere a calci, appendendola poi a un chiodo alla stregua d’un trofeo. E’ questa la chiave, l’odio per la fede appunto, così forte da ammettere anche l’assassinio di uomini poco più che bambini solo perché devoti a Cristo.
Rolando Rivi, ha detto il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, mons. Massimo Camisasca, “è testimone, martire, perché porta la prova della veridicità della sua testimonianza: il sacrificio della vita, espresso dal suo attaccamento a Gesù, simboleggiato dalla veste”. “Io sono di Gesù”, disse Rolando alla madre quando lei gli suggerì di essere prudente, di girare per il borgo in abiti civili, come i coetanei, ché era troppo pericoloso andare avanti così, come un prete in sottana con il
La veste talare arrotolata e trasformata in una sorta di pallone da prendere a calci, appendendola poi a un chiodo alla stregua d’un trofeo
cappello nero sul capo. Una risposta semplice, quella di Rolando, ma che rivela molto più di quanto sembri, leggendola così a distanza di decenni. “Io sono di Gesù è innanzitutto un giudizio. E’ la risposta alle domande: ‘A chi appartengo?’, ‘Qual è il senso della mia vita?’. Sono domande che ogni uomo deve porsi, non fosse altro perché obbligato dagli stessi eventi dell’esistenza. E quanto più profonda sarà la risposta, tanto più grande sarà il Tu a cui riconosceremo di appartenere e tanto più grandi saranno anche gli orizzonti e i destini della nostra vita”, ha aggiunto mons. Camisasca.
Quando il giovane viceparroco di Castellarano, don Alberto Camellini, riuscirà a portare la notizia della morte di Rolando Rivi al vescovo Brettoni questi, malato e affranto per l’uccisione di suoi dieci preti scoppiò in pianto e disse: “Adesso mi ammazzano anche i seminaristi”. I preti erano il bersaglio privilegiato. “Quando ci incontravano per strada, lanciavano nei nostri confronti frasi oscene con minacce per il futuro non certo rassicuranti, che [Rolando] sopportava con spirito cristiano e paziente. E soprattutto gioioso”, disse Dante Bursi, ex seminarista e memoria storica della vita del beato Rivi.
Ha ricordato Andrea Zambrano in Beato Rolando Maria Rivi. Il martire bambino (Imprimatur editore) che “già nell’estate del 1944 la guerra aveva cominciato a coinvolgere più da vicino la comunità di Castellarano, con il conseguente strascico di odio e di violenza”. Il tutto va inquadrato storicamente “all’interno delle complesse vicende che hanno animato la Resistenza nella Repubblica di Montefiorino, nel cui territorio gravavano le frazioni di Costrignano e Monchio”. La Repubblica di Montefiorino “fu il tentativo di creare una zona a sovranità partigiana. Un esperimento durato appena quarantacinque giorni, dal 17 giugno al 31 luglio 1944”.
E’ fondamentale comprendere la genesi dell’esperimento, che affonda le radici nella strage del 18 marzo 1944, quando una divisione nazista assassinò lì centotrentuno persone, tra cui molti partigiani. I sacerdoti cattolici erano visti spesso come spie, informatori dei tedeschi e ostili per loro stessa natura ai partigiani. Tra il 1944 e il 1947 furono centotrenta i sacerdoti e i seminaristi uccisi in Italia dai partigiani comunisti – trecento, secondo uno studio dell’Azione cattolica, tra il 1940 e il 1946 –, in particolare in Istria e nel cosiddetto “triangolo della morte”, tra le provincie di Ferrara, Bologna e Reggio Emilia. Terre dove attecchì un socialismo anticlericale molto forte.
“Stiamo cercando un giovane seminarista”, disse il sacerdote. “L'ho ucciso io, ma sono perfettamente tranquillo”, rispose il partigiano
Rolando Rivi, che nemico dei partigiani non era “perché dei partigiani viveva l’idealità fin quanto possibile”, dice Bonicelli, è stato vittima delle due grandi ideologie del Ventesimo secolo. La resistenza partigiana di Reggio Emilia nacque in parrocchia, il primo responsabile fu don Domenico Orlandini, “Carlo”. Poi le strade si separarono quando nei garibaldini alla dolorosa necessità della guerra si affiancò – fino a sostituirsi – la volontà di instaurare sulle macerie dell’Italia sconfitta uno stato comunista, prodotto di una rivoluzione proletaria. Il nemico, allora, diventava anche chi testimoniava la fede in Cristo. Non si comprende la portata degli avvenimenti di allora se non si consultano i verbali delle testimonianze dell’epoca, i ricordi di chi allora c’era. Come il racconto del pietoso ritrovamento del corpo di Rolando, con il dialogo tra il padre del ragazzo, Roberto, don Camellini e il venticinquenne uccisore, Giuseppe Corghi. “Stiamo cercando un giovane seminarista”, esordisce il sacerdote. “Non so nulla”, è la risposta. “E’ qui, ce l’ho ha detto il vostro comandante”, replica don Camellini. “Se è così, allora non ho nessun problema a rispondere. Sì, è stato ucciso qui. L’ho ucciso io, ma sono perfettamente tranquillo”, risponde Corghi. “Domani avremo un prete di meno”, avrebbe poi detto il commissario politico garibaldino secondo quanto raccontato dai testimoni durante la causa di beatificazione.
Depistaggi, omertà, perfino calunnie, come quelle che arrivarono a definire Rolando Rivi una spia al soldo dei tedeschi
Vittima delle ideologie, appunto. Ma Corghi tranquillo non lo era affatto. S’illudeva di esserlo, durante le udienze del processo a Lucca pareva freddo e poco disposto a un vero pentimento. La sua confessione fu gelida: “Egli capì che stava per essere ucciso e allora mi si buttò ai piedi supplicandomi di aver pietà di lui. Ma senza nemmeno pensarci, io gli sparai contro due colpi di pistola: il primo alla tempia lo freddò; poi per assicurarmi gli tirai un secondo colpo alla fronte”.
Lo scorso aprile, proprio nella chiesa della piccola pieve di Castellarano, Meris Corghi, figlia di colui che sparò due volte al giovane seminarista, ha abbracciato la sorella di Rolando, Marisa. “Ognuno ha un compito nella vita, una missione: la mia era fare ritrovare la pace a mio padre”, segno che quella tranquillità apparente di Giuseppe Corghi mascherava in realtà un’inquietudine che probabilmente lo ha tormentato fino alla morte. L’incontro tra la figlia dell’assassino e la sorella della vittima davanti alle reliquie del beato. Un incontro definito “un miracolo” per chi ha vissuto immerso nella
Rolando Rivi non era nemico dei partigiani, “perché dei partigiani viveva l’idealità fin quanto possibile”
cultura dominante che per decenni ha seppellito la storia di Rolando Rivi e del suo martirio, riducendolo a uno dei tanti episodi della guerra civile italiana che così aspramente si combatté sull’Appennino. Un miracolo che ha avuto una gestazione lunga, “piano piano hanno cominciato ad affiorare dei tasselli, ho cominciato a pormi delle domande e ho iniziato un cammino che mi ha portato fino a qui oggi”, ha detto Meris. “Non ho quasi idea di come sia successo, so soltanto che è stato come essere guidata. Sì, sono stata guidata, forse dalla presenza di mio padre nel cercare una risoluzione per poter ritrovare la pace. Forse dalla luce divina che ognuno di noi porta nel cuore, forse dallo stesso beato Rolando che desidera più di ogni altro in questo momento storico e decisivo per il mondo l’unione e la pace”. Un avvenimento, quello del 15 aprile scorso, che ha squarciato la coltre di silenzio che fin da subito è calata su quelle terre insanguinate che avevano patito la guerra e i sommovimenti a essa connessi. Depistaggi, omertà, perfino calunnie, come quelle che arrivarono a definire Rolando Rivi una spia al soldo dei tedeschi, finendo quindi per giustificarne implicitamente l’assassinio. “La molla che fece scattare l’omicidio di Rolando fu l’odio antireligioso”, ha detto Morini: “Dissero che era una spia, ma non era vero niente e lo sapevano tutti. Il beato Rivi dava noia perché, con la sua personalità e continuando a vestire l’abito talare, era un esempio di testimonianza cristiana per i più giovani”.
Il “triangolo della morte”, tra le provincie di Ferrara, Bologna e Reggio Emilia. Terre dove attecchì un forte socialismo anticlericale
Eppure quel seme deposto nella terra, la memoria del martirio di Rivi, lentamente germogliava. “L’uccisione di Rolando – ha detto mons. Camisasca – non è stata la vittoria del male, dell’ingiustizia, della morte. Il suo martirio è in realtà il trionfo della vita. La sua giovane esistenza infatti non è stata strappata via dalla terra, ma vi è stata deposta come un seme silenzioso. E ora, a distanza di tanti anni, non smette di crescere e benedirci con tanti frutti”.
“Durante il suo martirio, la parola più eloquente di Rolando è stata la sua pazienza, il suo silenzio”, ha detto mons. Camisasca
La lettura politicamente corretta della Resistenza ha fatto dimenticare questa e tante altre storie di martiri, eliminati in odio alla fede solo perché devoti totalmente a un Altro. Memorie a lungo secretate in qualche archivio per la fatica che l’Italia ha mostrato nell’accettare che nella Resistenza, fenomeno articolato e ancora non del tutto indagato dalla storiografia, ci siano state anche pagine buie che del fine alto di quell’esperienza non possono far parte. Clamoroso è il caso dell’assassinio di don Umberto Pessina, l’ultimo dei centotrenta sacerdoti uccisi nella guerra civile italiana seguita al crollo del fascismo. Pessina fu ucciso davanti alla sua chiesa a San Martino di Correggio, sempre in provincia di Reggio Emilia. Era il 18 giugno del 1946, la guerra era finita da un pezzo, c’era già stato pure il referendum costituzionale per la scelta tra la repubblica e la monarchia. Eppure, il suo essere prete ancora disturbava. Disturbava il suo costante monito scagliato dal pulpito sui rischi dell’invasione comunista. Ecco una di quelle “aberrazioni” denunciate da Giorgio Napolitano nel discorso con cui s’insediò al Quirinale, nel 2006. “Don Umberto Pessina, l’avvocato Fernando Ferioli, il sindaco di Casalgrande Umberto Farri, uccisi nell’estate del 1946, non erano mai stati fascisti ma furono uccisi. La dirigenza del Pci di allora conosceva chi aveva sparato a don Pessina, ma lo coprì e lasciò che venisse condannato l’innocente sindaco Nicolini”, ha sottolineato Danilo Morini. I preti erano in mezzo, bersaglio ideale e simbolico. Da una parte e dall’altra, come dimostra il caso di don Pasquino Borghi, fucilato nel gennaio del 1944 per decisione del Tribunale speciale repubblichino come rappresaglia per l’omicidio di Angelo Ferretti, caposquadra della Guardia nazionale repubblicana, assassinato da un commando partigiano. A dargli il colpo di grazia fu un ragazzo di quindici anni, Sergio Paderni. Anche lui, come Meris Corghi, ha affidato a una lettera inviata a chi a Reggio Emilia si occupa della valorizzazione della figura di don Borghi, il suo desiderio di riconciliazione per quanto avvenuto. “Settantacinque anni dopo (…) credo che vi sia una necessità generale di invocare tutti un perdono vicendevole, anche nei confronti di chi, più adulto e con responsabilità maggiori, ha permesso – anzi, ordinato – che due ragazzi di appena quindici anni, cresciuti ed educati nel collegio che era il fiore all’occhiello del regime fascista e dove vigeva la parola d’ordine ‘credere, obbedire e combattere’, venissero coinvolti nell’episodio cruento dell’uccisione di don Pasquino Borghi. La fede nel Dio d’amore, che è alla base del nostro cristianesimo, e l’esempio di Gesù, che ha perdonato i suoi uccisori – giustificandoli per di più ‘perché non sanno quello che fanno – richiedono anche a noi, sia individualmente che come collettività cristiana, di fare del perdono, della comprensione e della compassione il connotato fondamentale dei rapporti vicendevoli”.
Il perdono era già arrivato, decenni prima. La madre di Paderni lo chiese per conto del figlio a Orsola Del Rio, madre di don Pasquino, che lo concesse. “In nome di Cristo e della Vergine santissima, sull’esempio eroico dell’amato figlio don Pasquino e in sua memoria, per la pacificazione degli animi da lui auspicata nel supremo istante del sacrificio della propria vita, perdono cristianamente all'esecutore materiale dell'iniqua sentenza, che ho saputo essere stato un disgraziato giovanetto di appena 15 anni di nome Sergio Paderni, irresponsabile per la sua età, per la cattiva educazione ricevuta”, scrive Orsola Del Rio in una lettera datata 2 gennaio 1946. Poco più di due mesi dopo, il 5 marzo, la risposta di Elsa Paderni: “Mi inginocchio riverente alla memoria del suo don Pasquino e alla generosità del suo sacrificio, per ringraziarla a mani giunte, così come si prega un santo, per la grande grazia che ho ricevuto. E’ la madre del giovane Paderni Sergio, che si permette di rivolgerle tutta la sua riconoscenza. E’ una mamma che, dopo tante sofferenze, ha riavuto libero il proprio figlio grazie all’intervento di un’altra Mamma che purtroppo il suo non lo rivedrà più su questa terra di dolore e di lacrime. (…) Seguendo le orme del suo martire, ha salvato un giovinetto che meritava di essere salvato. (…) Il suo generoso perdono lo ha salvato fisicamente; il martirio del suo don Pasquino lo ha salvato moralmente. Mio figlio non potrà mai dimenticare quello che ha visto in quella tragica mattina e quel ricordo sarà sempre di sprone a bene operare in ogni azione della sua vita. E con l’aiuto di Dio vorrei poterlo dimostrare in seguito (...)”.
Rolando Rivi, Pasquino Borghi, Battista Pigozzi, Giuseppe Donadelli e tanti altri confermano che “le persecuzioni, in realtà, non sono mai terminate”, diceva nel 2013 mons. Massimo Camisasca. “La Chiesa, fedele a Cristo, ha rappresentato
Il martirio di don Pasquino Borghi, fucilato nel gennaio del 1944 dai fascisti. Il colpo di grazia sparato da un quindicenne
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