La croce non è un confine
Le radici cristiane dell’Europa non si difendono brandendo il crocifisso come un’arma politica
Sopra, in alto, le grandi croci piantate nella roccia, a dominare le vette e ad abbracciare i morti, caduti per la patria che reclamava il sacrificio per princìpi poco compresi. Sotto, le piccole croci. Come quelle conservate nei tanti musei che raccontano quel che è stato tra il 1914 e il 1918, la vita di trincea. Croci rudimentali, spesso due stecchi di legno recuperati da un albero, un chiodo a fermarli. In entrambi i casi non c’è voglia di marcare un territorio. La croce grande richiama il silenzio, non è un vessillo da battaglia. E’ un invito alla pietà umana. La croce piccola è il segno di una fede, personale ma profonda. La fede insegnata ai contadini analfabeti dalle proprie madri. Semplice e sincera. Senza indugiare troppo – e senza scadere nel narrare docialstro – per farsene un’idea è sufficiente leggere qualche pagina tratta dai libri sui grandi conflitti del Novecento, romanzi o diari che siano.
Le librerie, nonostante l’affastellarsi di storie da ombrellone poco impegnative e thriller che mischiano il sacro e il profano con consueto spargimento di sangue di monache misteriose o abati custodi di segreti millenari, hanno ancora una buona scorta. L’esibizione del crocifisso è tema vecchio, i firmatari del disegno di legge parlamentare che ne vuole l’installazione in ogni luogo pubblico, “in luogo alto e ben visibile”, dalle scuole agli ospedali, dai porti agli aeroporti, non hanno inventato nulla. A cadenza più o meno regolare torna sul tavolo, miscelandosi alla questione mai superata delle radici cristiane dell’Europa e al problema identitario. Cent’anni fa l’ansia identitaria si legava a doppio filo al tema delle nazionalità (letture consigliate: Joseph Roth e Stefan Zweig, ma la scelta è personale), oggi lo fa con le religioni. Nell’Europa in crisi e un po’ alla deriva, il cosiddetto sovranismo punta a porre steccati che circondano oasi che si vorrebbero protette, uniformi per credo religioso. Ma ha senso, nella complessità del mondo contemporaneo, riesumare le vestigia della Res publica christiana?
L’immigrazione islamica “pone un grave problema di integrazione con la nostra cultura cristiana”, ha scritto il vescovo di Ventimiglia
Non si tratta di dire no al crocifisso, confinando nello spazio intimo e privato la religione, né è questione di melense riflessioni umanitarie, di ripetizione banale di versetti evangelici sempre buoni per fare da slogan alle proprie posizioni. E’ che il proposito del disegno di legge non ha nulla a che fare con la riaffermazione di un’identità cristiana che si vorrebbe veder inscritta sui marmi dell’Altare della Patria. Per meri scopi politici, a uso propagandistico, da sfruttare magari in qualche campagna elettorale, tra il Vangelo brandito come un’arma e il Rosario sventolato a mo’ di lancia da conquista (o reconquista). Non è ricoprendo l’Italia di crocifissi tramite disegno di legge che si renderà più allettante la proposta cristiana. Che è proposta di vita, data in libertà all’uomo in ogni tempo. “Ma cos’è la croce per noi?”, domandava Papa Francesco durante un’omelia pronunciata a Santa Marta. “Sì, è il segno dei cristiani, è il simbolo dei cristiani. Per alcune persone è un distintivo di appartenenza: ‘Sì, io porto la croce per far vedere che sono cristiano’. Sta bene quello, ma non solo come distintivo, come se fosse una squadra, il distintivo di una squadra: come memoria di quello che si è fatto peccato”.
Il che non esclude, ovviamente, che sia anche un simbolo culturale oltreché religioso. Benedetto XVI, nell’omelia dell’Assunta pronunciata nel 2005 a Castelgandolfo disse che “è importante che Dio sia grande tra di noi, nella vita pubblica e nella vita privata. Nella vita pubblica, è importante che Dio sia presente, ad esempio, mediante la croce negli edifici pubblici”. Il dubbio è se la rivendicazione ex lege di metterlo “in luogo alto e ben visibile” sia motivata dalla volontà di mettere Dio al centro di tutto, segnalandone quindi la presenza, o se il fine sia quello di usarlo nel quotidiano battagliare politico. Da agitare alla stregua di un “vade retro” che poco ha da invidiare a quello messo sulla copertina di Famiglia Cristiana un paio di settimane fa. Ridurre quel simbolo a mero strumento identitario, a gagliardetto.
In tempi non sospetti, era il 2009, uno dei più grandi islamologi contemporanei, padre Samir Khalil Samir, disse al Foglio che “il crocifisso, da oggetto di obbrobrio, è diventato simbolo di fede per miliardi di persone e più ancora simbolo di amore. Quest’uomo Gesù ha così rovesciato il senso della croce, a causa della propria vita: morendo, ha dato significato al fatto di dare la vita per altri. Così la croce, indipendentemente dal cristianesimo e dalla fede cristiana, ha preso un significato umanistico: dare la vita per salvare altri è l’atto umano più nobile”. Era l’anno in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo sentenziava il divieto di affiggere nelle scuole pubbliche italiane il crocifisso, perché “discriminatorio”. Aldo Giordano, allora osservatore della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa e oggi nunzio in Venezuela, disse che “il simbolo della croce è un simbolo che impressiona proprio perché è un simbolo che unisce, raccoglie, che va veramente al di là delle differenze, anche delle differenze di Credo”.
Il rischio è quello di una banalizzazione ideologica, la stessa perseguita da anni dai ferventi sostenitori della laïcité
Non è insomma un feticcio da sventolare o – per usare le parole del Papa – un distintivo da apporre sul petto. Nel provvedimento fermo in Parlamento si legge che “rispettare le minoranze non vuol dire rinunciare, delegittimare o cambiare i simboli e i valori che sono parte integrante della nostra storia, della cultura e delle tradizioni del nostro paese”. Il che è legittimo e pure sacrosanto, ma che col crocifisso c’entra poco. Altro che simbolo che unisce; il simbolo qui è ridotto a un semplice segno di “una tradizione” diversa da quella delle minoranze. E’ una banalizzazione ideologica, la stessa perseguita da anni dai ferventi sostenitori della laïcité, che considerando anch’essi il crocifisso come un simbolo identitario, si ripropongono di rimuoverlo da ogni luogo: un simbolo religioso discriminatorio, perché appartenente a una parte.
Non c’è alcuna differenza tra questo filone di pensiero ben strutturato al di là delle Alpi e i propositi ideologici di chi vuole mettere il crocifisso un po’ dappertutto perché emblema di una tradizione. Chi in Francia vuole strappare la croce dal gonfalone comunale di Tolosa ragiona allo stesso modo di chi, da noi, vuole mettere all’imboccature dei porti le croci: considera il crocifisso un segno che marca un territorio, la bandiera sul confine: voi lì, noi qui. Chi lotta per anni, tra sit-in, carte bollate, denunce e comunicati diffusi sui social network per rimuovere da una piazza cittadina una statua di san Giovanni Paolo II perché sovrastata da una croce, parte dal medesimo presupposto dei novelli identitari: la croce non c’entra nulla con l’umanesimo, ma è un qualcosa che caratterizza una parte ben precisa.
E lo stesso vale per quei comitati laici che reclamano e ottengono lo spostamento di una piccola statua della Vergine Maria da uno spazio pubblico a un giardino privato, per i sindaci che proibiscono i presepi pubblici – con la complicità, in qualche caso, anche di vescovi pavidi devoti forse più al politicamente corretto che a Dio – e per quanti riescono a far zittire le campane ree di “disturbare” e perché – è il refrain da un po’ di anni à la page – lo stato è laico. Senza tralasciare i gesti più stupidi, come la distruzione avvenuta alla fine di luglio di due croci piantante sulle vette dei Pirenei da ignoti, che poi hanno disperso a terra i frammenti.
Si confondono i piani: la tradizione va preservata, i simboli identitari vanno custoditi anche con orgoglio. Altra cosa è far entrare il simbolo cristiano, travisandone il significato, nella più misera guerricciola politica. Scriveva nove anni fa Umberto Eco: “Un cristiano sensibile dovrebbe indignarsi per il fatto che una croce in oro orna sia il petto villoso dei maschiacci romagnoli specializzati in turiste tedesche, che la scollatura di molte signore di facili costumi (ricordiamo che il cardinal Lambertini, vedendo una croce sul seno fiorente di una bella dama, faceva salaci osservazioni sulla dolcezza di quel calvario). Portano catenelle con croci ragazze che vanno in giro con l’ombelico scoperto e la gonna all’inguine. Se fossi il Papa chiederei che un simbolo così oltraggiato scomparisse, per rispetto, dalle aule scolastiche”. Il problema, appunto, era la banalizzazione del segno.
Cent’anni fa l’ansia identitaria si legava a doppio filo al tema delle nazionalità, oggi lo fa con le religioni. Non c’è differenza
Parlare di tradizione da custodire apre un ulteriore scenario, che non è tanto quello della riscoperta delle radici cristiane – opera meritoria che l’Europa della burocrazia bruxellese censurò perché anch’essa persa nel suo ideologismo perbenista – bensì quello dell’affermazione delle radici cristiane come ulteriore cortina a protezione del territorio. Il crocifisso a delimitare lo spazio identitario. Il cardinale Angelo Scola diceva al Foglio, nell’agosto di due anni fa, che se è vero che è “importante riprendere, anche descrittivamente tutte – e in questo senso è necessario non escludere nessuna – le radici dell’Europa”, è altrettanto doveroso, “partendo dalle esigenze concrete del presente, guardare al futuro.
E’ chiaro che il cristianesimo è stata la radice portante dell’Europa. Ma vi sono state anche le radici anteriori: Roma ha assunto la Grecia, Gerusalemme. Ci sono le varie realtà germaniche, galliche e pre-celtiche. E, a posteriori, quelle della modernità e dell’illuminismo, senza escludere la cosiddetta matrice socialista. Questo è certo e rimane. Oggi – aggiungeva l’allora arcivescovo di Milano – il cristianesimo si gioca dentro una realtà interculturale e interreligiosa, e quindi deve essere un co-agonista, che in Europa può essere anche il protagonista del lavoro che tutte le religioni e tutte le mondovisioni sono chiamate a fare”.
Mettere il crocifisso in ogni porto, al di là di richiamare Lepanto e rievocare fasti del passato, manderebbe un messaggio anche sul fronte dell’immigrazione non cristiana in Europa. Un avvertimento chiaro. Il problema esiste ma è risolvibile cavalcando un identitarismo che appare sempre più sbiadito nelle secolarizzate società occidentali? Di analisi serie ne esistono, senza il corredo di slogan barricaderi.
Il cristianesimo si gioca dentro una realtà interculturale e interreligiosa, e quindi deve essere un co-agonista
Qualche settimana fa, ad esempio, il vescovo di Ventimiglia-San Remo, mons. Antonio Suetta, aveva affrontato in una lunga lettera pubblica, il “difficile tema dell’immigrazione islamica, che pone un grave problema di integrazione con la nostra cultura occidentale cristiana”. Il vescovo non parlava di crocifissi o rosari, ma si richiamava a quanto “ben argomentato a suo tempo dal compianto cardinale Giacomo Biffi”, che quando propose di preferire un’immigrazione di cristiani anziché di musulmani fu linciato su giornali, televisioni, salotti pieni di intellò d’avanguardia e retroguardia. Ricordava, mons. Suetta, “dati obiettivi, fonte spesso di problemi non indifferenti, posti dalla difficile conciliazione di concezioni assai diverse del diritto di famiglia, del ruolo della donna, del rapporto tra religione e politica”.
Ne sono una dimostrazione “i richiami provenienti in questi anni dai vescovi che in medio oriente vivono quotidianamente queste difficoltà”. Difficoltà, aggiungeva il presule che “sono ben note anche in alcuni paesi europei, come la Francia, dove l’integrazione è ancora di là da venire, come ci dimostrano le tristi cronache di questi anni”. Tuttavia – è la sottolineatura – “i fatti gravi di tipo sovversivo e terroristico non sono fondamentalmente espressione di una guerra di religione, essendo più variegate e complesse le motivazioni”.