“Rod Dreher dice il vero, ma la sua analisi è manchevole”
Parla mons. Camisasca, vescovo di Reggio Emilia: “Non so se la purificazione consisterà in una riduzione della chiesa ai minimi termini”
Roma. L’Opzione Benedetto di Rod Dreher, volume battezzato da David Brooks sul New York Times come “il più importante libro a tema religioso del decennio”, ha fatto parlare di sé in settimana. Non solo per le varie presentazioni “italiane”, ma anche per le reazioni che ha suscitato. Se, infatti, dalla Scuola di Bologna è arrivata la messa all’Indice – si tratterebbe, secondo il professor Alberto Melloni, “del tentativo di dare a una destra estrema un’anima religiosa e a una religiosità ultraconservatrice una visibilità politica” – a firmare il più prestigioso endorsement è stato il segretario di Benedetto XVI, mons. Georg Gänswein, che ha parlato di “11 settembre della chiesa”. Dreher scrive che i cristiani dovranno rendersi conto che vivono in una cultura in cui le loro credenze hanno sempre meno senso, che parlano una lingua che il mondo non capisce più. Ma davvero non c’è altra soluzione che quella di salire sull’arca prima che arrivi il diluvio? Mons. Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, non la pensa così: “Non sono d’accordo con l’analisi di Dreher”, dice al Foglio. “O meglio, riconosco come vero tutto ciò che dice, ma la sua analisi è manchevole. Sperimento ogni giorno la pressione dei media, dei social e più in generale della mentalità corrente che vuol farci credere che la vita è un attimo, che essa va gustata e rapinata senza curarci degli altri, che non c’è un futuro oltre il dolore e la morte. Ma questo – aggiunge – non è tutto: più forte ancora di tutto ciò è il cuore dell’uomo che vuole coniugare presente e futuro, terra e cielo, che desidera la durevolezza dell’amore, il bene per i propri figli, un futuro e un senso per quanto va costruendo col proprio lavoro”.
Nel lavoro del saggista americano ci sono anche pregi, però, e quello maggiore “è di averci posto una domanda: che cosa è costitutivo dell’esperienza cristiana? Essa mi ha portato a riflettere sull’elemento comunitario. Il cristianesimo non è la risposta di un individuo a un dio riconosciuto come Signore del cielo e della terra, ma è l’edificazione nel tempo, nella storia, di una comunità umana a opera dello stesso Dio, inizio reale di quel raduno finale che sarà l’eterno. Questa comunità non è una comunità di separati, di puri, ma vive nella storia, nel mondo. Essa stessa partecipa delle domande di tutti gli uomini e anche delle loro debolezze. Eppure è una comunità animata, costruita e sorretta da qualcosa che il mondo non conosce, anzi, da qualcuno che ne è l’anima, il centro, di cui essa è il corpo. L’umanità di Cristo Signore è il cuore della storia del mondo. Essa è perciò il punto attrattivo della vita di ogni uomo e di ogni donna. In realtà non possiamo salvarci a dispetto degli altri, possiamo farlo soltanto assieme agli altri”. “Non amo – confessa mons. Camisasca – le immagini apocalittiche, anche se riconosco che il richiamo di Dio al nostro male e al nostro rifiuto è molto forte e perlopiù inascoltato. Non so se la purificazione consisterà in una riduzione della chiesa ai minimi termini. Talvolta sono tentato di pensarlo. Ma con tutto me stesso voglio lavorare con i miei fedeli e i miei amici perché questo non accada”.
Torna il riferimento alle parole di Alasdair MacIntyre, alla sua “profezia” sul crollo dell’occidente, simile – per Dreher in modo inquietante – alla caduta dell’Impero d’occidente.
E’ un paragone condivisibile o troppo azzardato? “Ho letto anch’io alcuni anni fa le tesi di MacIntyre che si collocavano, a dire il vero, all’interno di una riflessione molto articolata e profonda”, risponde mons. Massimo Camisasca: “A prima vista le similitudini sembrano forti. Come per la crisi dell’Impero romano, anche oggi si tratta di un intero ordine mondiale che sembra venir meno. Alcuni storici hanno individuato le ragioni del dissolvimento di allora nella crisi demografica, nelle fragilità enormi delle famiglie, in una generale debolezza morale, nella diffusione dell’aborto e della contraccezione… Le similitudini sono attraenti, ma anche inadeguate a farci comprendere le ragioni della situazione in cui ci troviamo. Per quanto riguarda l’Europa penso si tratti di una stanchezza mortale, seguita alle due guerre mondiali. E purtroppo resa ancora più crudele dal rifiuto di Dio. L’esistenza di Dio costituisce infatti l’unica radicale fonte di speranza per ogni generazione della storia. Troncare i rapporti con lui vuol dire chiudersi in una visione corta del desiderio e del futuro. Alla fine si finisce per essere travolti dalle difficoltà e per pensare che la vita sia male. Proprio questo è il punto di ribaltamento della prospettiva: riconoscere le luci presenti anche nell’oggi, dare loro possibilità di respiro e di collegamento. E questo non può avvenire senza una visione religiosa dell’esistenza”.
Pochi giorni fa, il 12 settembre, cadeva il decimo anniversario del discorso di Benedetto XVI al Collège des Bernardins di Parigi, e quelle parole sul monachesimo e il quaerere Deum, sono risuonate più volte nei commenti alla Opzione Benedetto. Se mons. Gänswein vi vede una sorta di legame con le tesi di Dreher, Giuliano Ferrara – nel corso dell’evento organizzato dal Foglio lunedì 11 settembre (che potete vedere qui) – ha espresso qualche perplessità in proposito: sono due cose diverse, ha detto. L’esperienza proposta dal libro non rischia di favorire una sindrome di accerchiamento nel tagliare i ponti con il mondo? Risponde il vescovo di Reggio Emilia: “Se si legge la Regola di san Benedetto non si nota nessuna sindrome di accerchiamento. Egli voleva semplicemente e interamente vivere il cristianesimo. Così sant’Agostino, che precedentemente aveva fatto coincidere la sua conversione con la scelta monastica, che cercherà di vivere anche una volta diventato vescovo. Anch’io penso che, a imitazione di Benedetto, dobbiamo costruire delle comunità con un’ossatura monastica, come ho scritto tanti anni fa facendo di questo tema il centro della mia riflessione e della mia opera di questi ultimi trent’anni. Una comunità con ossatura monastica non è un luogo chiuso, che si ritira dal mondo. Se rifiuta alcune forme di vita mondana, lo fa proprio per una maggiore solidarietà e vicinanza agli uomini e alle donne di tutto il mondo. Se sceglie il silenzio – aggiunge –, non è per disprezzo della parola, ma per farsi discepolo delle parole autentiche. Se sceglie la vita comune, è perché crede che abbiamo bisogno di sanare le nostre divisioni. Se sceglie una certa distanza, una certa verginità, dalla frenesia dei social e della chiacchiera di oggi, è perché vuole occuparsi di cose che non passano. Se sceglie la comunione dei beni, è perché sa che nulla ci è dato come nostro e tutto è per l’edificazione reciproca e per i poveri”.
“In altre parole – prosegue mons. Camisasca – non vedo affatto nell’esperienza di quelle che Benedetto XVI ha chiamato ‘minoranze creative’ un ritiro dal mondo inteso come rifiuto di solidarietà alla vita degli altri uomini, ma all’opposto una coscienza ancor più profonda del momento drammatico che siamo chiamati a vivere, sperimentato con un cuore pieno di luce e di gioia”.
Rod Dreher sostiene che l’uomo mai come prima d’ora è posto davanti al bivio decisivo: o Dio o il mondo. La soluzione da lui proposta è di vivere il cristianesimo in modo autenticamente controculturale. E’ chiaro che tutte le evidenze in occidente sono crollate, ma davvero l’onda che oggi sembra così impetuosa non può essere arrestata ma solo cavalcata? Dice mons. Camisasca che “la storia del mondo cambia per fattori che sono imprevedibili e imponderabili. Dobbiamo badare a ciò che possiamo fare, senza preoccuparci di incidere sull’universo. San Benedetto non voleva creare una civiltà cristiana, ma un luogo di vita autentica per sé e i suoi amici, senza escludere nessuno. In questo modo la sua offerta gli è tornata da Dio come inizio di una storia moltiplicata. Questo è il compito che tutti abbiamo davanti”.
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