I padri sinodali dovrebbero studiare bene il quasi santo Paolo VI
“Schiacciato” tra i pontificati di due giganti, Papa Montini, ha avuto il merito di tenere la barra del timone ben dritta in uno dei momenti più burrascosi della storia della chiesa
Che la scelta di Paolo VI, la cui canonizzazione sarà celebrata oggi, di pubblicare l’Humanae vitae nonostante le fortissime resistenze dei novatori del tempo si sia rivelata profetica, è stato certificato – a beneficio (si spera) di chi ancora si attarda a leggere i “segni dei tempi” anziché quelli molto più interessanti del Cielo – dai due miracoli, riconosciuti nel 2013 e nel 2017 dagli organi competenti, richiesti dal complesso iter della canonizzazione.
Entrambi infatti hanno a che fare con la vita nascente; in entrambi i casi una gravidanza a rischio sia per la la madre sia per il bambino; e tutti e due felicemente risolti grazie all’intercessione di Papa Montini e contro il parere dei medici che consigliavano l’aborto. Eppure, la partita dell’Humanae vitae sembra non essere finita. Non solo. Ma per quanto possa apparire paradossale e per certi aspetti grottesco, proprio Paolo VI rischia più di ogni altro di uscire con le ossa rotte, metaforicamente parlando, dal Sinodo dei giovani in corso di svolgimento. Le premesse, inutile girarci intorno, ci sono tutte. All’insegna dell’andazzo che oggi va per la maggiore, ossia il gattopardismo in salsa ecclesiale: non cambiare nulla per cambiare tutto. E non c’è solo l’Humanae vitae; nella black list dei novatori sono finiti anche i rapporti pre-matrimoniali, l’aborto, la convivenza prima del matrimonio e, tanto per non farsi mancare nulla, l’omosessualità e la famigerata ideologia del gender. Leggere per credere l’Instrumentun laboris, laddove si dice che dalla riunione presinodale dello scorso marzo è emersa la richiesta indirizzata ai responsabili ecclesiali di “affrontare in maniera concreta argomenti controversi come l’omosessualità e le tematiche del gender, su cui i giovani già discutono con libertà e senza tabù”. Ora, sorvolando sul richiamo alla “concretezza” (cioè? Che vuol dire?), sfugge in particolare il senso di quel “senza tabù” riferito al discutere dei giovani su omosessualità e gender. Significa forse che il gender è un problema solo per quegli adulti un po’ bigotti e ottusi che vedono fantasmi e complotti ovunque, financo nelle fiabe per bambini, ma non per i giovani? E in che senso non sarebbe un problema? Magari nel senso che per un giovane d’oggi non è più scontata l’equazione tra identità di genere e dato biologico? O forse è questo il messaggio che si vuole far passare, spinto da quegli ambienti, esterni ma anche interni alla chiesa, che lavorano per sdoganare il gender tanto quanto l’omosessualità? Staremo a vedere. Nel frattempo, conviene sfruttare la canonizzazione di Paolo VI per apprezzare ulteriormente la figura di un Papa che, rimasto storicamente (e ingiustamente) “schiacciato” tra i pontificati di due giganti come san Giovanni XXIII e, soprattutto, san Giovanni Paolo II, è e resta un grandissimo Pontefice. Che ha avuto il merito principale di tenere la barra del timone ben dritta in uno dei momenti più burrascosi della storia della chiesa in cui la Barca di Pietro – sulla scia di una miope quanto infondata interpretazione “aperturista” del Vaticano II – rischiò seriamente di affondare.
Non fu certo un caso se proprio negli anni del Concilio vi fu quella fioritura di carismi, movimenti laicali e nuove comunità nati in vista del e per dare attuazione al Vaticano II (quello vero), che ebbero l’indubbio ruolo di puntellare una chiesa scossa dai ben noti fenomeni: crisi delle vocazioni e seminari svuotati, crisi del sacerdozio e conseguente abbandono dello stato clericale da parte di tantissimi preti, alcuni dei quali per stare vicino al popolo, come si diceva allora, smisero la talare per andare in fabbrica (sul punto, sarebbe interessante sapere quanti, dopo aver lasciato il sacerdozio, sono rimasti a fare l’operaio, ma questa è un’altra storia…), bizzarrie liturgiche di vario genere, smottamenti in campo morale e dottrinale (si pensi alle varie teologie della liberazione e, più in generale, al tentativo, teorico e pratico, di tenere insieme Cristo e Marx, che in ambito politico è sfociato in quell’ossimoro che è stato il cattocomunismo); e ancora, crisi del principio di autorità, dovuta anche al clima del ’68, le cui conseguenze (ad esempio in ambito educativo con la discussa esperienza di don Milani) sono sotto gli occhi di tutti. E’ esattamente in questo contesto che va collocato l’operato di Paolo VI. La cui costante preoccupazione, fedelmente al mandato petrino, fu quella di ribadire il primato della fede su tutto il resto. Anche per questo merita ricordare, tra le sue tante iniziative, il Credo del Popolo di Dio, la solenne professione di fede proclamata il 30 giugno 1968 sul sagrato di San Pietro. Essa rispondeva all’esigenza di fornire una guida, una bussola per quanti in quegli anni difficili correvano seriamente il rischio di perdersi dietro al “vento di nuove dottrine”. Papa Montini aveva intuito chiaramente, e con largo anticipo, la portata del problema: “Vediamo anche dei cattolici – disse durante l’omelia di quel 30 giugno – che si lasciano prendere da una specie di passione per i cambiamenti e le novità. Senza dubbio la chiesa ha costantemente il dovere di proseguire nello sforzo di approfondire e presentare, in modo sempre più confacente alle generazioni che si succedono, gli imperscrutabili misteri di Dio, fecondi per tutti di frutti di salvezza. Ma al tempo stesso, pur nell’adempimento dell’indispensabile dovere di indagine, è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegnamenti della dottrina cristiana. Perché ciò vorrebbe dire – come purtroppo oggi spesso avviene – un generale turbamento e perplessità in molte anime fedeli”. Da qui l’esigenza di rimarcare, con una nuova versione del Simbolo che faceva propria l’ecclesiologia del Vaticano II, ciò in cui consiste l’essenza del cattolicesimo in ogni epoca.
Il gesto di Paolo VI, al pari dell’Humanae vitae, fu indubbiamente controcorrente. Egli ebbe il coraggio e la lungimiranza profetica di puntare tutto sul cavallo allora (come oggi) apparentemente meno vincente, quello appunto della fede, in un momento storico in cui il mondo, la società e larghi settori della chiesa stavano (stanno?) andando in tutt’altra direzione, con forti spinte verso il sociale che poco o nulla hanno a che fare con il Vangelo. Non era facile né scontato, come non è facile né scontato ribadire oggi certe verità scomode, sideralmente lontane dalla sensibilità dei più quando non apertamente combattute. Paolo VI non si è sottratto adempiendo fino in fondo al suo mandato. Come un vero pastore che umilmente conduce il gregge non dove vuole lui nè tanto meno dove vuole il gregge, ma dove Dio gli dice di andare. E che sa diffondere attorno a sé il profumo di Cristo.
Editoriali
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