Processo alla chiesa
Davanti agli scandali che tormentano il Vaticano, s’alza la voce di chi invoca una “grande riforma”. Gli schieramenti in campo e l’eredità del Concilio: ora in ballo c’è il futuro del papato. Inchiesta sulla crisi di coscienza in cui è precipitata la più grande istituzione religiosa al mondo
Pietro Angelerio da Morrone, il futuro Celestino V, aveva predetto gravi castighi per la chiesa se la manciata di cardinali riuniti a Perugia (undici soltanto, il concetto di ecclesia universa alla fine del Tredicesimo secolo era evidentemente diverso dal nostro) non avessero provveduto a eleggere il nuovo Papa. Lo si può capire: il Conclave durava da più di due anni e tra guerre e pestilenze Sorella Morte si dava un gran daffare. Un pastore d’anime ci voleva, più che un politicante. Il decano del Collegio fu impressionato dalla profezia di questo eremita rispettato in tutta Europa, che ammoniva i porporati e andava a piedi fino a Lione per dire al Pontefice che non s’azzardasse a sopprimere l’ordine monastico da lui fondato. Coraggioso e orante: era quello che ci voleva per dare una scossa alla chiesa in sofferenza. Fu eletto all’unanimità e dopo qualche giorno tre messi del Conclave riuscirono a scalare il monte e a entrare nella grotta dove viveva il prescelto. Il vicario di Cristo era un vecchio che indossava una “rozza tonaca”, scrisse Iacopo Stefaneschi rievocando quell’incontro. Pare – ma qui la ricostruzione storica, come sovente accade, può scivolare nel pettegolezzo messo in giro dalle tante malelingue interessate – che la prima cosa che Pietro da Morrone fece dopo aver pianto, pregato dinnanzi al crocifisso e accettato l’elezione, fosse stato un bagno. Costretto dai tre delegati. Insomma, va bene dare l’idea anche visiva della purificazione necessaria alla chiesa, ma l’auctoritas del Pontefice sommo andava in qualche modo preservata. Anche allora tutto era finalizzato a riformare la chiesa, lavandola dai peccati e redimendola.
La decapitazione dell’episcopato cileno, i rapporti dagli Stati Uniti. Una crisi ormai globale che è anche di coscienza
Il Vaticano II, la Conferenza di Medellín, il papato di Francesco come “segni del rinnovamento”, ha detto il cardinale Barreto
Un bel po’ di secoli dopo, da un’aula dell’Università Gregoriana, il cardinale Reinhard Marx ha implicitamente richiamato quell’operazione: guardare le proprie colpe e pulire; disinfettare per redimere. “Una grande riforma della chiesa”, ha invocato l’arcivescovo di Monaco all’inizio di ottobre. Una riforma che parta dalla piaga degli abusi che come un’onda torbida sta travolgendo pezzi di chiesa a ogni latitudine del globo: Australia e Cile, Stati Uniti e Francia, la sua Germania. Pozzi sempre più profondi, preti e vescovi trascinati in tribunale dopo essere stati esposti al pubblico ludibrio, accusati di aver taciuto e mentito per interi decenni. Il Papa regnante, Francesco, fa quel che può: decapita interi episcopati come quello già agonizzante cileno, silenzia cardinali un tempo giramondo ai quali toglie d’imperio anche la porpora, assicura piena collaborazione con le procure al di qua e al di là dell’oceano. Sono toppe che reggeranno – se reggeranno – per un po’, ma è come svuotare il mare con un cucchiaio. Lo sa bene lui e lo sanno bene anche i suoi collaboratori.
La crisi globale non ha risparmiato neppure la chiesa, minacciata sì dai soliti “venti di dottrina”, ma avvitatasi ormai in una pericolosa crisi di coscienza, sentita in modo diverso a seconda del contesto geografico, culturale e sociale. Ma comunque percepita ovunque, sia laddove il cristianesimo (e di riflesso il cattolicesimo) cresce a ritmi esponenziali, come l’Africa, sia nelle realtà dove è minacciato dall’insorgere acclarato delle derive settarie e dove si è ormai avviato a essere una minoranza, importante certo, ma pur sempre minoranza.
Illustrazione di Makkox
Marx chiede una “vera riforma” che prenda avvio dall’aggiornamento del Codice di diritto canonico. Ma visti i precedenti – al Sinodo sulla famiglia disse che i vescovi tedeschi non avrebbero preso ordini da Roma – il sospetto fondato è che si voglia andare oltre. Che “riforma” sia una parola che in realtà ne cela un’altra, più problematica: “rivoluzione”. Il neocardinale peruviano Pedro Barreto fa capire di che cosa si tratta, stando a quanto da lui detto un paio di mesi fa. Concilio Vaticano II, Conferenza di Medellín e papato di Francesco sono “segni del rinnovamento e della riforma che stiamo vivendo nella chiesa e che dobbiamo rafforzare”. Considerando che a Medellín, cinquant’anni fa, s’ebbe la glorificazione della Teologia della liberazione – che nonostante i suoi aspetti ovviamente positivi, secondo Joseph Ratzinger favorì la sperimentazione di “un nuovo connubio tra chiesa e mondo all’insegna della rivoluzione” – è facile stabilire le connessioni del caso. Il cardinale Barreto sottolineava che in occasione dell’assemblea della Conferenza dell’episcopato latinoamericano ospitato nella città colombiana nacque una chiesa “pasquale che si arrischiò a mettere in pratica” gli orientamenti conciliari nella realtà americana. Proprio come “Maria si mise prontamente in viaggio per visitare la cugina Elisabetta”.
Rivoluzione più che riforma, dunque. Il vento che dall’inverno del 2013 soffia sulla cupola di San Pietro, più che limitarsi a far cambiare aria alle ovattate stanze dei palazzi apostolici, tenderebbe a squassare il vecchio per edificare qualcosa di nuovo. Una primavera perenne: “La riforma della chiesa non avrà fine”, ha detto il cardinale Oscar Maradiaga. E non sembrava essere solo una traduzione italiana del celebre motto latino semper reformanda.
Matthew Schmitz, senior editor a First Things, la storica rivista cattolica americana d’orientamento conservatore, ne è convinto: “Semper reformanda, sì. Ma per il bene. Sentiamo spesso parlare dello ‘Spirito del Vaticano II’, ma oggigiorno sembra essere un fantasma, uno spirito che torna per spaventare i bambini. Tanta gente vuole che gli anni Sessanta durino in eterno, ma questo è impossibile. Anche il Vaticano II svanirà nell’oscurità”, dice tranchant al Foglio.
“Tanta gente vuole che gli anni Sessanta durino in eterno, ma questo è impossibile. Sentiamo spesso parlare dello ‘Spirito del Vaticano II’, ma oggi sembra essere un fantasma, uno spirito che torna per spaventare i bambini”, dice Matthew Schmitz, senior editor di First Things
Chi ne sa molto di riforme della chiesa è mons. Agostino Marchetto, vescovo e “miglior ermeneuta del Concilio Vaticano II” stando a quanto affermato per iscritto da Papa Francesco pochi mesi dopo l’elezione al Soglio. Visto come il fumo negli occhi dai teorici della discontinuità conciliare – la Scuola di Bologna, innanzitutto – Marchetto riparte dal Concilio. Si parla di riforma per puntare a qualcosa di diverso, di ben più profondo? “Questa è la questione, grave, che si pone anche a proposito del Vaticano II, che per me continua a rappresentare il tema fondamentale. Io dico sempre che ci sono tre gradini, il primo dei quali è la storia. L’impegno per studiarla c’è stato, ma purtroppo nello studio della storia c’è spesso il rischio di vederla da un punto di vista ideologico. Il Concilio è stato il frutto della sintesi, dell’et et (che è una categoria prima di tutto cattolica). Si sono messe assieme le opinioni di quanti erano la maggioranza e di quanti rappresentavano la minoranza. Abbiamo avuto documenti approvati dalla maggioranza assoluta, c’è stato un consensus molto forte. Direi quindi che in quest’unità abbiamo trovato uno spirito davvero conciliare”. I problemi iniziano dopo: “Poi si è posta la questione dell’interpretazione di tali documenti, ed eccoci nel campo dell’ermeneutica: in tanti hanno come avuto la tentazione di riprendersi quanto avevano portato al Concilio. Un’ermeneutica, insomma, andata un po’ per conto suo. Il terzo gradino, per rimanere nello schema, è la ricezione. Un campo in cui sono emerse diverse difficoltà, anche se noi abbiamo a disposizione quella formula straordinariamente sintetica della posizione del magistero di tutti i Papi del Concilio e del post Concilio, e cioè che l’ermeneutica non è quella della rottura nella discontinuità, bensì quella della riforma e del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto chiesa. E’ chiaro ed evidente che non si parla di rivoluzione, ma di evoluzione e sviluppo. Uno sviluppo – dice ancora mons. Marchetto – che deve essere omogeneo e organico. Ed è questa la difficoltà che abbiamo davanti a noi: se non creiamo il contesto adatto e non mettiamo in rilievo la continuità dell’unico soggetto chiesa, ricadiamo nella confusione nella quale oggi – mi pare evidente – ci troviamo”. Ecco il punto. “C’è un po’ la tendenza a scomunicarci reciprocamente, dall’una e dall’altra parte, non ci comportiamo proprio come una chiesa né come sinodo, cioè non camminiamo insieme. Ma per camminare insieme bisogna avere dei punti fermi, il primo dei quali per me è il Concilio e poi ovviamente il magistero papale, che comprende anche Francesco. Dopotutto, lui si situa nella linea della ecclesia semper reformanda e semper renovanda. Ma non è nella linea rivoluzionaria, benché oggi vada per la maggiore definirlo rivoluzionario. C’è confusione, dovuta anche all’enorme pressione dei mass media e dei mezzi di comunicazione sociale”.
Per David Gibson (Fordham University), Francesco non è ostaggio delle due cordate che si affrontano nella battaglia interna alla chiesa: “Penso che sia del tutto libero. Crede di agire secondo quella che è la volontà dello Spirito santo in questo momento di vita della chiesa”
Il contesto dato fa pensare a una di quelle cartoline satiriche che spopolavano durante la Prima guerra mondiale: un tiro alla fune con gli Imperi centrali da una parte e l’Intesa dall’altra. Una fune sottile sempre sul punto di spezzarsi. Qui la situazione non è troppo dissimile: da una parte coloro che spingono e incoraggiano la “grande riforma” e dall’altra quanti la temono e vogliono arrestarla sul nascere. Un Pontefice che quindi si troverebbe in mezzo, quasi ostaggio e impossibilitato ad agire, essendo troppo forti i due gruppi che si contendono la “vittoria”. David Gibson, direttore del Center on Religion and Culture della Fordham University di New York ed editorialista del New York Times, è assai meno drammatico: “Non vedo Francesco come un ‘ostaggio’. Penso che sia – come dice lui stesso – del tutto libero. Crede di agire secondo quella che è la volontà dello Spirito santo in questo momento di vita della chiesa. Ma penso che sia – e che sia sempre stato – molto attento a non fare qualcosa che potrebbe spaccare la chiesa o alienarne una parte. Parlare di un Papa ‘dittatore’ o di Francesco come autocrate, è ridicolo. E’ stato attento a lasciare molti oppositori di rilievo in posti di comando. Sembra volere una chiesa inclusiva per tutti. Penso che l’attuale crisi mostri che molte divisioni sono inevitabili, che certe cose non piacciono a tanti cattolici, a destra e a sinistra. Forse l’opposizione ora lo porterà a muoversi in modo più deciso, non lo so”.
A ogni modo, il primo ad aver sempre rifiutato l’etichetta di “rivoluzionario” è stato il Pontefice, che preferisce parlare di cammino, di uscita, della necessità di muoversi per non diventare custodi di un museo. “Non sto facendo nessuna rivoluzione. Sto solo cercando di fare andare avanti il Vangelo, ma la novità del Vangelo crea stupore perché è essenzialmente scandalosa”, diceva in un’intervista al quotidiano spagnolo País. E’ il mondo che lo circonda, spesso, che s’impegna a leggere e interpretare le presunte intenzioni di Jorge Mario Bergoglio, evocando – soprattutto nella prima fase del pontificato – una scossa che avrebbe rovesciato la vecchia chiesa per sostituirla quasi con una cosa nuova, allettante per il mondo e in linea con lo spirito del tempo che sembra aver conquistato anche qualche illustre ecclesiastico. Il professor Loris Zanatta, però, tempo fa diceva a questo giornale che l’aggettivo più corretto per definire Francesco è proprio quello di rivoluzionario: “E’ un rivoluzionario secondo quanto questo termine significa nell’immaginario del cattolicesimo latinoamericano. Qui, il termine rivoluzione altro non è che la forma secolarizzata della redenzione. Francesco ha una visione apocalittica del mondo, al cospetto della quale propone una rivoluzione. Lui non è votato al compromesso, ma vede il mondo in modo manicheo. Sento molti sinceri ammiratori del Papa, persone colte e intelligenti, che non a caso preferiscono definirlo un grande riformatore”, aggiungeva lo storico delle Relazioni internazionali dell’America latina presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna.
La crisi attuale è la più grave degli ultimi decenni. L’epicentro è negli Stati Uniti, ma l’onda si è propagata ovunque. La ricezione del Concilio Vaticano II e le tentazioni di superarlo, andando verso una riforma più simile a una rivoluzione. La messa in discussione del primato petrino
“Ma Francesco non è un riformatore né ha una visione riformista del mondo. Bergoglio è un rivoluzionario”. Quel che il Papa vuole lo si può trovare prendendo in mano la Evangelii gaudium, l’esortazione apostolica promulgata nel 2013 che è la vera agenda del pontificato e che un po’ troppo spesso viene dimenticata. Francesco chiede di “avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria che non può lasciare le cose come stanno” (n. 25). Il Pontefice sogna “una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione” (n. 27). Ancora, Bergoglio scrive che “dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che la porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici: senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci” (n. 223). Insomma, qui c’è tutto.
“Capisco che non ci si possa fermare al Vaticano II, che ci sarà un altro concilio. Però prima di tutto è indispensabile che questo concilio sia ‘digerito’. Congar e Rahner hanno detto che ci vorranno cent’anni prima di vedere applicato il Vaticano II”, nota mons. Marchetto
Tra riforma e rivoluzione si rischia di cadere – per citare ancora Ratzinger – di nuovo in “artifici interpretativi e funambolismi” che presero piede nell’immediato post Concilio, con il moltiplicarsi di interpretazioni che puntavano a evidenziare una rottura rifiutata dai padri conciliari e dal Papa stesso. “Molti uomini di chiesa pensano che permettere la sodomia, i preti sposati e col tempo (anche se questo non è dichiarato) i preti sposati con altri uomini, potrà risolvere la questione degli abusi. Da convertito dal protestantesimo, ne dubito. Un leader della mia congregazione protestante, sposato, commetteva abusi. Avere doveri coniugali non rende un uomo virtuoso”, osserva Matthew Schmitz.
La domanda a mons. Agostino Marchetto, a questo punto, è d’obbligo: ma non è che chi parla un giorno sì e l’altro pure del Vaticano II, auspicando una nuova riforma, in realtà voglia molto più banalmente superarlo? Dopotutto, il drammatico doppio Sinodo sulla famiglia del 2014 e 2015 ricordò un mini concilio, con una spaccatura tra i vescovi su questioni non proprio secondarie come i sacramenti. “Nella chiesa c’è una storia e tutti i concili hanno avuto la loro realizzazione e la loro applicazione a partire dalla giusta interpretazione”, spiega Marchetto, che aggiunge: “Io capisco che non ci si possa fermare al Vaticano II, che ci sarà un altro concilio. Capisco anche che la storia non si ferma. Aggiungo però che prima di tutto è indispensabile che questo concilio sia ‘digerito’, e questo Papa lo dice bene. Congar e Rahner hanno detto che ci vorranno cent’anni prima di vedere applicato il Vaticano II. Uno può non essere d’accordo, ma di certo non sarà una ‘digestione’ facile. Ripeto quanto sia fondamentale la questione dell’interpretazione: se non ci mettiamo d’accordo sulla necessità di unire le forze e di considerare gli uni e gli altri nella conclusione felice dell’assise chiusa da Paolo VI nel 1965, allora non saremo in linea con la corretta applicazione del Vaticano II. Non si può andare avanti come se non ci fosse stato il concilio. Non si può andare contro ciò che è stato deciso”. Semmai, ci può essere uno sviluppo: “Cito Newman, che studiò la situazione della chiesa del IV secolo e la comparò, diciamo così, con la chiesa cattolica del suo tempo, trovando che della stessa chiesa si trattava. Quindi passò a essa, lasciando l’anglicanesimo. Ecco, io direi che in essa Newman trovò la continuità dell’unico soggetto chiesa”. Concorda Christian Schaller: “Un concilio va visto e interpretato sempre nel contesto della storia della chiesa, della teologia e della fede e mai un concilio può cambiare la fede. Pertanto, ogni assemblea di vescovi insieme al Papa è fondata soltanto sulla fede comune della chiesa formata e sviluppata nei secoli. I testi del Vaticano II, in grande quantità, citano la Sacra scrittura, i padri della chiesa, concili precedenti e documenti papali. Questo è un segno di continuità e dell’ampliamento organico della fede. Non è una cesura. Le vie seguite da alcune interpretazioni furono una sorta di rottura perché spesso dettate da aspetti della politica e della chiesa e non orientati secondo i documenti del concilio. Corrisponde al pensiero di Ratzinger questa volontà di valorizzare il ritorno alle fonti come attributo di un futuro riuscito”.
I sostenitori della “grande riforma” guardano soprattutto allo scandalo degli abusi che già veemente aveva corroso dalle fondamenta il pontificato di Benedetto XVI. Non si può restare fermi, si dice: la chiesa deve muoversi, cambiare, aggiornarsi. Si sostiene, non solo nel privato delle conversazioni vis-à-vis, che la chiesa cattolica si trova posta dinnanzi alla più grave crisi degli ultimi decenni. “Da studente di storia e da giornalista che segue il Vaticano e la chiesa cattolica sin dagli anni Ottanta, io tendo a guardare queste cose nel lungo periodo”, dice David Gibson: “Premetto che sentire affermazioni come quella che sostiene che ‘è la più grande crisi nel cattolicesimo dalla riforma protestante’, per esempio, mi fa roteare gli occhi. E per gli Stati Uniti sicuramente il 2000 fu sconvolgente. Ma ritengo che la crisi di oggi sia la più seria negli ultimi decenni per diverse ragioni. Innanzitutto i credenti sono meno propensi di un tempo a restare nella chiesa cattolica – l’affiliazione religiosa sta diminuendo e la fedeltà che legava le persone alla chiesa cattolica, o ad altre tradizioni religiose, è più debole che mai. Così, quando si ha uno scandalo come questo, i cattolici sono molto più propensi ad andarsene – e non tornano più. E non torneranno i loro figli, e meno persone penseranno a convertirsi. E’ un problema serio. Non c’è una cultura cattolica ‘di spessore’ che protegga le persone in un armadio mentre cercano di sopravvivere alla tempesta”. C’è una seconda ragione, spiega il direttore del Center on Religion and Culture alla Fordham University: “C’erano aspettative così alte sul fatto che Papa Francesco potesse riuscire a fare qualcosa di nuovo nella chiesa che l’ennesima ondata di crisi relativa agli abusi sessuali ha determinato un’enorme delusione. Sembra come gli altri, anche se lui non è responsabile per lo scandalo. Semmai, a lui si deve la pulizia. Di più, aggiungo che si possono vedere molte forze a destra che già si opponevano fieramente a Bergoglio intente a usare questa crisi per armare tale opposizione. Alla fine questo potrebbe avere un effetto sullo stato del pontificato. Infine, nel 2002 questa crisi fu ridotta da tanti – soprattutto a Roma – a ‘problema americano’. Oggi vediamo la verità e cioè che questo è un problema globale. Gli Stati Uniti erano solo l’avanguardia di un’onda che ora si sta abbattendo con forza in tutto il mondo”.
Per Christian Schaller (direttore dell’Institut Papst Benedikt XVI di Ratisbona), “un concilio va visto e interpretato sempre nel contesto della storia della chiesa, della teologia e della fede. Mai può cambiare la fede. Le interpretazioni di ‘rottura’ furono dettate da questioni politiche”
Viene da chiedersi se ci siano similitudini con quanto avvenne negli anni Sessanta, e ancora dopo, con la chiesa impelagata nella battaglia tra i teorici della rottura e quelli della continuità. “Allora si voleva rendere un servizio alla chiesa. I punti erano vari e l’immagine stessa della chiesa era divergente. E’ impossibile costruire da sé la chiesa secondo le proprie idee che spesso sfociano nell’egoismo. Non sarebbe più la chiesa di Cristo”, nota Schaller. “Nel Concilio, poi, i testi furono sempre approvati all’unanimità, il che fa pensare a una grande armonia. Ma le successive interpretazioni furono sottomesse a interessi propri che non avevano più a che fare con i testi. La distinzione tra progressisti e conservatori alla fine non porta a nulla, perché la chiesa deve collegare queste due istanze, in modo da pensarle teologicamente e non politicamente. L’errore più grande che si vede nella chiesa è sempre l’appiattimento della differenza tra ‘politico’ e ‘teologico’. Nel politico la chiesa perde la sua essenza. Non è più il popolo di Dio che chiama Cristo, ma parte della politica quotidiana”. “Oggi vi è un desiderio diffuso di affievolimento dell’aspetto divino con un prevalere dell’umana tendenza”, dice mons. Marchetto. “Questo è uno dei punti evidenziati dal Pontefice nel corso degli incontri durante il Sinodo sulla famiglia. Credo fosse uno dei suoi primi interventi. Disse che due sono i gradi di istituzione divina che si riferiscono alla gerarchia: c’è il successore di Pietro e c’è il vescovo nella sua propria diocesi. Gli altri gradi intermedi (o corpi intermedi) sono di istituzione umana. Ecco, oggi c’è la tentazione di vedere maggiormente i corpi intermedi dimenticando quali sono i corpi di istituzione divina. Prevalgono le tendenze a decentrare, a porre l’accento sulle chiese locali – che non sono le chiese particolari –, ma il rischio è che si impongano queste tendenze senza un equilibrio che è proprio del binomio inscindibile tra episcopato e primato”. Per Matthew Schmitz è un segnale chiaro della volontà di certi circoli di arrivare alla protestantizzazione della chiesa cattolica: “Alcuni tedeschi andrebbero più d’accordo con lo stato laico piuttosto che con i loro fratelli in Africa”. Il fatto è che mentre da una parte s’invoca la grande riforma, dall’altra si insiste molto sulla collegialità e meno sul primato, “binomio che però esiste ed è inscindibile”, ci tiene a sottolineare mons. Agostino Marchetto: “Se passiamo in rassegna le varie riforme della chiesa – la chiesa ha fatto molte riforme, al semper reformanda Francesco ha aggiunto il semper renovanda, spiegando giustamente che una riforma è anche un rinnovamento – lo vediamo bene. C’è oggi la tendenza a non vedere la riforma come qualcosa di consueto. Nella riforma dello Pseudo Isidoro, ad esempio, troviamo la radice della libertas ecclesiae. E’ la radice di quel binomio di cui parlavo prima e che deve proseguire di pari passo: il primato che difende l’episcopato e l’episcopato che fa comunione con il primato. Il Vaticano II riesce finalmente a mettere a tema la questione dell’episcopato”. Ma perché l’aspetto del primato viene sottolineato di meno? “Perché nella vita della chiesa ci sono momenti in cui alcuni aspetti si sottolineano di più e altri meno. Poi deve esserci sempre qualcuno che ci deve ricordare il sed etiam, il ‘ma anche’. Faccio un esempio: nel dopo Concilio si sottolineava sempre la chiesa come comunione. L’accento posto oggi maggiormente sulla sinodalità forse proviene dalla realtà latino-americana, che ha naturalmente il diritto di esprimere la sua specificità nell’applicazione del Vaticano II. Senza dimenticare – aggiunge Marchetto – che abbiamo un Pontefice che proviene dall’America latina, con tutto un afflato e un bagaglio di esperienze particolari”.
Ma Papa Francesco ha la forza per sviluppare una grande riforma o quantomeno per cambiare le cose nella chiesa? Risponde David Gibson: “Non penso che questo pontificato sia in una fase di declino. Anche quando non ci sarà più Bergoglio, la vera eredità di questo pontificato sarà determinata da colui che sarà eletto Papa al suo posto. Qualcuno che consoliderà e continuerà sulla sua scia o qualcuno che tornerà indietro. Ritengo che Francesco continuerà ad agire in modo deciso con le nomine e le riforme. Sembra molto determinato a farlo. Tuttavia – prosegue – il vero cambiamento che cerca è un cambiamento nella cultura della chiesa, nella curia (i lavori durati cinque anni per la stesura della nuova costituzione, Praedicate evangelium, sembrano arrivati alla fine) ma anche nell’intera chiesa. E questo non lo si può ordinare con una bolla papale. Sugli abusi sessuali, deve convincere migliaia di vescovi nel mondo a salire a bordo. Il Vaticano non può sorvegliare ogni diocesi, è impossibile”. Quanto alla sinodalità, “non è qualcosa che si può decretare con un ordine, i vescovi devono essere convinti a metterla in pratica. Diciamo quindi che Francesco è davvero un ‘esortatore al comando’. Quanto efficace sarà in tale veste potrebbe avere conseguenze sulla sua credibilità all’interno e all’esterno della chiesa”. Dipenderà, forse, anche da quel che accadrà negli Stati Uniti, da dove sembrano provenire le maggiori resistenze allo slancio riformatore. “Penso che la grande opposizione a Francesco nasca negli Stati Uniti e sia rafforzata dal potere finanziario e mediatico di cattolici americani conservatori”, osserva Gibson. “E’ interessante vedere che per decenni il Vaticano si è lamentato dei media laici e dei danni del secolarismo occidentale. Ma è un ben determinato settore dell’informazione cattolica, e del cattolicesimo stesso, che si sta dimostrando molto problematico per la chiesa. E’ anche il riflesso delle nostre politiche – i sondaggi mostrano che i fedeli americani tendono a lasciare che i propri punti di vista politici siano guidati da quelli religiosi. Questo è soprattutto vero per i cattolici bianchi. La battaglia contro Francesco è una battaglia politica verso ciò che rappresenta. Ci vorrà molto tempo per cambiare le cose, ammesso che ciò accada”.
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