Il problema del Papa con gli Stati Uniti continua
George Weigel, il biografo di Giovanni Paolo II, attacca l’autocrazia vaticana che umilia i vescovi americani, i liberal rispondono
Roma. Che uno dei grandi problemi di questo pontificato sia il rapporto con la chiesa negli Stati Uniti è cosa nota fin dai mesi immediatamente successivi all’elezione di Francesco. Nessun retroscena o scoop da svelare, sono stati gli stessi cardinali nordamericani, parlando con i giornali, a far trapelare la propria perplessità davanti a svolte annunciate, nomine inattese, agende poco in linea con le priorità della Conferenza episcopale statunitense. Niente di nuovo, insomma, se non fosse che a certificare per iscritto che tra Roma e Washington la distanza è ormai pressoché incolmabile ci ha pensato George Weigel, biografo di Giovanni Paolo II, ben inserito nei corridoi vaticani, esponente di spicco dell’ala culturale del conservatorismo muscolare rimasta spiazzata dall’ascesa del gesuita argentino al Soglio petrino. “Di recente – ha scritto sulla rivista First Things – ho trascorso cinque settimane a Roma, durante le quali ho riscontrato un’atmosfera antiamericana peggiore di qualunque cosa io abbia mai provato in trent’anni di lavoro dentro e attorno al Vaticano. E’ stata venduta con successo una falsa immagine della vita della chiesa negli Stati Uniti, dove ricchi cattolici in combutta con l’ala dei vescovi di estrema destra avrebbero sabotato la chiesa e starebbero guidando una resistenza al presente pontificato. E questa raffigurazione distorta del cattolicesimo americano non è stata effettivamente corretta dai vescovi americani che oggigiorno godono del favore romano”.
Weigel si scagliava contro “l’autocrazia vaticana” che solo qualche settimana fa ha vietato ai vescovi americani di votare su due misure relative alla lotta agli abusi sessuali. Tutto, si faceva sapere da Roma, si deciderà a febbraio, quando in Vaticano si riuniranno alla presenza del Pontefice i presidenti delle conferenze episcopali nazionali. Prima di allora, a nessuno è permesso decidere alcunché. Un’umiliazione per la pattuglia di monsignori d’oltreoceano, che infatti l’hanno presa malissimo e non hanno fatto nulla per nasconderlo, ma soprattutto una contraddizione palese di uno degli assunti-cardine della stagione bergogliana: la collegialità. Scrive l’intellettuale americano: “Che cosa è accaduto alla sinodalità e alla collegialità che si supponeva caratterizzassero la chiesa sotto Papa Francesco? Quale significato concepibile di ‘sinodalità’ o ‘collegialità’ include un intervento autocratico romano negli affari di una conferenza episcopale locale che conosce la propria situazione molto meglio di quanto la conoscano le autorità romane?”.
A Weigel ha risposto, sul National Catholic Reporter, una sorta di contraltare liberal di First Things, Michael Sean Winters. Ma quale “immagine venduta”, nota quest’ultimo: semmai è stata solo scoperta, finalmente, la vera natura della chiesa americana oggi dominante. Una situazione che vede una delle conferenze episcopali più potenti al mondo impelagata in storiacce di abusi sessuali su minori coperte per decenni – “Weigel dovrebbe avere l’integrità intellettuale di ammettere che sul tema degli abusi Giovanni Paolo II non fu così grande” – e sempre interessata ad ammiccare ai ricchi finanziamenti, arrivando a venerare quasi un vitello d’oro massiccio (“Weigel mostrò la sua natura quando attaccò l’enciclica sociale di Benedetto XVI ‘Caritas in veritate’”). Al di là dei battibecchi tra galantuomini esperti di faccende vaticane, lo scontro messo nero su bianco chiarisce per l’ennesima volta che Francesco ha un problema enorme con la realtà nordamericana. Non è questione di sondaggi in calo, di fedeli che lo considerano “liberal e naïf”: il botta e risposta tra Weigel e Winters è la raffigurazione plastica della difficoltà che ha Bergoglio nel chiudere trent’anni di storia episcopale, portando fuori dai fortini i vescovi plasmati sull’agenda di lotta wojtyliana.
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