Tra arresti e vescovi allontanati, il pragmatismo religioso cinese è chiarissimo
"L’accordo tra la Santa Sede e la Cina non è privo di questioni irrisolte". Chiesa di martiri o di diplomatici? Avvenire parla di “rebus”
Roma. “L’accordo tra la Santa Sede e la Cina non è privo di questioni irrisolte. In breve, la chiesa è chiesa dei diplomatici e dei funzionari o è chiesa dei martiri e dei profeti?”. A domandarselo, in un ampio articolo pubblicato su America, il magazine dei gesuiti della liberal East coast statunitense, è padre Paul P. Mariani. In effetti il problema pare essere tutto lì, in quella domanda. L’intesa – i cui contenuti sono segreti – tra Pechino e il Vaticano è troppo recente per potere essere giudicata, considerando anche che entrambe le parti hanno fin da subito chiarito che il documento è provvisorio, potendo essere rivisto, aggiornato e aggiustato se ve ne fosse l’esigenza. Le parole del gesuita americano, poi, non è che siano troppo dissimili da quelle pronunciate dal più determinato critico dell’intesa, il cardinale Joseph Zen, che ha pesantemente criticato non solo il segretario di stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, ma anche lo stesso Pontefice.
Ha ragione lo storico Agostino Giovagnoli quando scrive, ieri su Avvenire, che “il pragmatismo religioso cinese è un rebus per noi occidentali” e che “bisogna leggere sotto la superficie dei fatti per cogliere i passi avanti compiuti negli ultimi anni”. Però è quando si tratta di considerare “i fatti” che i dubbi sulla tenuta dell’intesa si moltiplicano.
Si prenda la vicenda del vescovo Shao Zhumin, costretto lo scorso novembre dalle autorità cinesi a “un giro turistico” che l’ha tenuto due settimane lontano dalla propria diocesi. Mons. Shao non è iscritto all’Associazione patriottica, e nonostante ciò ha goduto di una relativa libertà. Fino alla richiesta, appunto, di iniziare un tour in non meglio precisate località del paese. Obiettivo: tenerlo lontano da Wenzhou, la sua diocesi. Un “episodio sconcertante”, osserva il professor Giovagnoli, che però “non si può interpretare come tentativo di conversione forzata alla ‘religione’ comunista: le autorità non vogliono che il vescovo Shao smetta di essere cattolico ma che lo sia accettando la politica del governo cinese”. Parole che portano dietro nubi nere sull’intesa: un vescovo è libero solo se osserva le direttive di Xi Jinping? Altra osservazione: sempre su Avvenire si legge che “in Henan è stato imposto alle parrocchie cattoliche di interrompere il catechismo dei bambini. Altrove, però, non è cambiato nulla”. Come dire, meglio evitare l’allarmismo: se in Henan il catechismo è vietato, altrove è consentito. E comunque, taglia corto Agostino Giovagnoli, “non aiuta i cattolici cinesi leggere tutto ciò in una chiave ideologica superata dai fatti: bisogna guardare piuttosto alla realtà complessa della Cina di oggi, come ha indicato Papa Francesco”. Il che va bene, se non fosse che sono proprio i “fatti” a far scricchiolare le basi stessa dell’accordo che – come scritto già a settembre su questo giornale – garantisce quantomeno il fatto che la nomina dei vescovi sia in capo al Papa, un cambiamento non di poco conto rispetto alla situazione precedente di totale incomunicabilità. Però la situazione sul campo resta complessa.
Nei giorni scorsi, tra il 9 e 10 dicembre, sono stati arrestati cento cristiani protestanti a Chengdu. Tra i fermati c’era il pastore Wang Yi, capo della chiesa della Prima pioggia dell’alleanza, responsabile d’aver condannato le disposizioni che hanno portato i ritratti di Xi Jinping a essere esposti nelle chiese – spesso sugli altari. Wang aveva parlato di “culto di Cesare”. Il fatto che si tratti di protestanti e non di cattolici non dovrebbe essere sufficiente per far tirare un sospiro di sollievo: in epoca di forte rilancio dell’ecumenismo, ut unum sint, le sofferenze dei seguaci di altre confessioni cristiane dovrebbero provocare il medesimo dolore.