Lo scandalo del Dio incarnato
Che cosa resta del volto amato di Gesù che ancora festeggiamo nel Natale, sia pur deturpandolo in vari modi? Il meraviglioso mistero che continua a parlare all’uomo contemporaneo
Il Santo Natale manifesta l’incarnazione come significato del cristianesimo cui dobbiamo incessantemente guardare. Lo esprime con chiarezza il prologo del Quarto Evangelo e in particolare l’icastica affermazione: “Il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,14). L’occorrenza nella Sacra Scrittura di questo versetto è unica, ma abbraccia tutta la teologia giovannea e dice il cuore della fede.
Raffigurare l’Invisibile
Per cogliere il nucleo centrale di questa affermazione e le sue implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche può essere illuminante prendere l’avvio dal problema della raffigurazione dell’“uomo che si diceva Figlio dell’invisibile Dio d’Israele” (T. Verdon).
San Giovanni Damasceno affronta il tema con parole semplici e chiare: “Un tempo non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico. Ma ora Dio si è mescolato alla vita degli uomini così che è lecito fare un’immagine di quanto è stato visto di Dio” (Discorso sulle immagini I,16). L’autore evoca il divieto biblico di ogni raffigurazione della divinità, rafforzato dal contesto iconoclasta in cui egli vive: nell’anno 730 a Damasco, allora sotto il controllo musulmano, l’imperatore Leone III aveva proclamato l’interdizione delle immagini.
Qual è l’originalità della raffigurazione cristiana di Dio rispetto al divieto, proprio sia della tradizione ebraica, sia di quella islamica?
La manifestazione della corporeità nell’ebraismo riguarda importanti aspetti del rapporto con il Dio che si è giocato nella storia del popolo eletto: la circoncisione, l’uso dei filatteri sulla fronte e sul braccio sinistro – quello vicino al cuore – la cura del corpo sofferente, la cura dei corpi morti, …fino ai gesti propri della Liturgia. Tuttavia nell’Antico Testamento e nella tradizione ebraica la proibizione della rappresentabilità di Dio, invisibile e incorporeo, rimane ferma.
Lo stesso divieto, come è ben noto, è ancor più marcatamente presente nella tradizione islamica. Basta entrare in una grande moschea per vedere le eleganti scritture che ne adornano le pareti sostituendo ogni raffigurazione della divinità. L’idea di poter rappresentare Dio con sembianze visibili non è solo impensata, ma anche impensabile nella storia musulmana, ove non si registrano tentativi in questo senso, neppure in ambienti molto eterodossi.
Carlo Maratta, “Natività”, 1655 (Dresda, Collezioni nazionali d’arte)
Comunque siano andate le cose – e senza dimenticare che all’apice della furia iconoclasta paradossalmente furono proprio i monasteri rimasti sotto il dominio islamico, come Santa Caterina nel Sinai, a conservare le immagini sacre – il confronto con l’esperienza del mondo islamico ed ebraico permette di cogliere l’importanza del secondo Concilio di Nicea (786-787), l’ultimo condiviso da cattolici e ortodossi. Dopo le grandi controversie trinitarie e cristologiche dei primi sei concili, Nicea II può apparire come un semplice sinodo disciplinare. Al contrario esso mette l’ultimo, decisivo, mattone all’edificio della cristologia, sancendo la liceità della rappresentazione della divinità nelle sembianze del Figlio incarnato.
L’incarnazione del Figlio di Dio conduce alla rappresentazione integrale del suo corpo. Il corpo e in particolare il volto (Mandylion di Edessa, Sindone, i Sacri Volti, Manoppello…) dell’uomo singolare di gran lunga più rappresentato nel corso della storia provoca alla domanda che da sempre il pensiero umano ha affrontato: cos’è il corpo in se stesso e in relazione all’uomo come totalità unificata, “corpore et anima unus” (Gaudium et spes, 14)? E’ forse più decisivo, però, rispondere alla domanda diretta: cos’è il mio corpo, nella sua relazione con la mia vita e con la mia morte, dal momento che il loro intreccio costituisce il “caso serio” della mia esistenza? Saremo così condotti ad approfondire il significato dell’incarnazione redentrice del Figlio di Dio, cioè, del Santo Natale.
Non è facile per un ebreo credere alla risurrezione. Ma è proprio il “fatto” stesso dell’incarnazione a scombussolare la sua esperienza
Il corpo e l’amore
La centralità del corpo esaltata dalla celebrazione del Santo Natale emerge alla coscienza di ogni uomo e di ogni donna nell’esperienza elementare dell’amore. In proposito Benedetto XVI afferma che questa esperienza, cui “l’antica Grecia ha dato il nome di eros, non nasce dal pensare e dal volere, ma in certo qual modo si impone all’essere umano” (Deus caritas est 3). Infatti, a partire da questo dato è possibile dire qualcosa dell’amore. Qualcosa che urge a imparare ad amare.
Per indagare su questo affascinante fattore dell’umana esistenza, ho trovato di grande utilità ricorrere al genio letterario. Qui voglio citare un folgorante passaggio di un romanzo di C. S. Lewis, Quell’orribile forza, il terzo volume della sua trilogia di fantascienza. Trovo che Lewis, con la sua proverbiale raffinatezza e l’efficace realismo (per lui la fantascienza non è fuga dalla realtà), vi difenda il principio-amore (eros), affrontato anche nel suo gustoso saggio I quattro amori. In un solo passaggio l’autore riesce a descrivere la natura dell’eros in tutta la sua complessità: “L’amore, dice Platone, è figlio del Desiderio. Il corpo di Mark [il protagonista con la moglie Jane] era stato più saggio di quanto lo fosse stata, fino a poco tempo prima, la sua mente [Mark partecipava con convinto impegno alla costruzione segreta di una sorta di città rigorosamente tecnoscientifica, un mondo nuovo che inseguiva l’utopia dell’onnipotenza della scienza e della tecnica], e anche i suoi desideri sensuali erano l’indice vero di qualcosa che a lui mancava e a cui Jane aveva dovuto supplire. All’inizio, quando aveva attraversato l’arido mondo polveroso in cui albergava la sua mente, lei era stata come una pioggia di primavera; non aveva sbagliato ad aprirsi a quella freschezza. Aveva sbagliato solo quando aveva presunto che il matrimonio in sé gli desse il diritto o il potere di appropriarsene. Adesso capiva che era come pensare di comprarsi un tramonto acquistando il campo dal quale lo si è visto”. E’ l’esperienza immediata che ognuno di noi fa, nel suo costitutivo orientamento all’altro sesso, la prima prova dell’autoevidenza dell’eros. Detto in altri termini, ogni singolo uomo “sa” dell’eros indipendentemente dalla propria capacità speculativa di esprimerla.
Parafrasando Lewis, potremmo parlare di una “saggezza del corpo” quale via di accesso, alla relazione feconda con l’altro, all’esperienza dell’amore. Eros si apre così, senza opposizione, ma non senza necessità di maturazione, ad agape. Questa autoevidenza è strutturalmente legata al dato che i corpi dell’uomo e della donna esistono sempre e solo situati nella differenza sessuale. Eppure non sempre la specificità della differenza sessuale umana è stata riconosciuta in modo adeguato.
Nelle specie animali la sfera e la pratica sessuale è un dato “naturale”, affidato all’istinto. Anche nell’uomo è così? Penso proprio di no. Anzitutto perché questa autoevidenza dell’eros, che mi si offre nel mio stesso corpo vivente, per la sua costitutiva apertura all’altro è di natura dinamica. Dice che il mio essere situato nella differenza sessuale è donato alla mia libertà, non è riducibile a una mera sequenza ripetitiva di comportamenti. Nell’assunzione libera della differenza sessuale, l’apertura all’altro domanda una decisione per l’altro che, contemporaneamente, mi spalanca a una conoscenza progressiva della mia insuperabile differenza sessuale. Potremmo parlare in proposito di un processo di “sessuazione” (il neologismo, mutuato dall’analisi del profondo, è impervio ma esprime bene la dinamica del processo stesso).
Inizia così l’itinerario dall’eros verso l’agape a cui allude Benedetto XVI: “Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente – fascinazione per la grande promessa di felicità – nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà “esserci per” l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso” (Deus caritas est 7). Si deve riconoscere che la differenza sessuale possiede anche un carattere culturale, senza per questo cadere in relativismi equivoci che dissolvono la differenza stessa.
Talvolta l’antropologia classica, anche quella cristiana, non è riuscita a mettere in rilievo l’importanza del processo di “sessuazione”, oscurando di conseguenza uno dei cardini della concezione della differenza sessuale e dell’amore: il corpo sessuato è corpo personale (singolare) e spirituale (libertà).
Il proprio corpo personale, in forza della differenza sessuale, ha in sé un’apertura spirituale. Un’apertura che situa l’uomo-donna nell’esistenza come capace di ricevere e di donare la vita (fecondità). Possiamo così riconoscere i tre fattori inscindibili (differenza, relazione/dono, fecondità) di quello che io sono solito definire “mistero nuziale”.
La salvezza della carne
Nel mistero del Santo Natale contempliamo come il Figlio di Dio abbia assunto l’intera dinamica del corpo fino a diventare uno come noi situato nella differenza sessuale maschile di Gesù di Nazaret. Il Verbo fattosi carne ha fatto esperienza, come ogni uomo e ogni donna, dell’autoevidenza dell’eros.
In tale esperienza si rivela il corpo come vivente e vitale, in cui si innesta l’agape.
E’ possibile allora riferirci a un altro dato fondamentale dell’esperienza dell’uomo evidenziato dal mistero dell’incarnazione. Mi riferisco al peso della natura corporea dell’umana esistenza.
Il corpo è il fattore di mediazione tra l’io e la realtà.
Come intendere il corpo e la sua imprescindibilità dal punto di vista della relazione all’altro, come persona, come comunità? Non mancano in proposito importanti riflessioni. Quella che mi sembra a un tempo più semplice e attuale è data dalla relazione tra corpo e carne messa rigorosamente a tema negli ultimi decenni, con l’apporto fondamentale della fenomenologia, ma non solo. Il corpo nel senso del corpo-oggetto, Körper, indica qualche cosa di inanimato, di puramente materiale, mentre il mio corpo vissuto e vivente è Leib, perché è senziente.
Michel Henry, nel suo volume Incarnation, ha studiato il problema in profondità proprio a partire dall’evento dell’incarnazione, il tema che stiamo affrontando. Dice il filosofo francese: “Un corpo inerte che si trova nell’universo materiale… non sente e non prova nulla. Ancor meno si sente o si prova, ama o desidera le cose che lo circondano. Secondo la profonda osservazione di Heidegger, un tavolo non “tocca” il muro contro il quale è posto.
Il nostro corpo, al contrario, sente ogni oggetto a lui vicino; ne percepisce la qualità, ne vede i colori, sente i suoni, l’odore, misura col piede la durezza del suolo, con le mani la dolcezza di una stoffa”.
Perché fa questa esperienza? Perché anzitutto “si prova” egli stesso. La differenza tra questi due corpi possiede un carattere essenziale e decisivo. E’ necessario quindi fissarla secondo una terminologia appropriata. Chiameremo pertanto, dice Henry, il nostro corpo “carne”, riservando la parola “corpo” ai corpi inerti. Noi siamo esseri incarnati. E l’incarnazione consiste nell’essere carne. Siamo esseri attraversati dal dolore, dalla sofferenza, dalla paura della morte. Desiderio e angoscia ci caratterizzano.
L’importante chiarificazione circa il corpo/carne rinvia al corpo giovanneo e immediatamente all’affermazione, già citata, che fa irruzione nella storia in un certo senso destabilizzandola: “E il Verbo si fece carne”.
La centralità del corpo esaltata dalla celebrazione del Natale emerge
alla coscienza di ogni uomo e donna nell’esperienza dell’amore
Una posizione che in certo qual modo disorienta l’essenza dell’ebraismo: “Ricordati che sei polvere…”. Esso porta con sé l’idea di un corpo terrestre, di un uomo destinato alla morte che invoca – basta pensare ai Salmi – un’azione gratuita di Dio che non lo consegni allo shéol. Non è certo facile per un ebreo credere alla risurrezione. Ma è proprio il “fatto” stesso dell’incarnazione a scombussolare la sua esperienza. Che l’assolutamente Invisibile, il Non Rappresentabile che si faceva presente al massimo nelle nubi e nel roveto, che tutt’al più faceva sentire la sua voce, assuma un corpo di uomo, che pretenda di essere Dio per consegnarsi al palo ignominioso della croce è incomprensibile, come dice il rabbino Trifone nel suo dialogo con san Giustino.
Tuttavia ebraismo e cristianesimo hanno in comune, tra tante altre cose, la concezione antropologica di base. Non condividono la visione greca, alla fine dualistica, di anima e corpo. L’uomo è una realtà unitaria. Il Primo e il Secondo Testamento esprimono bene la radicale differenza con il mondo greco in senso generale. Il suo prodursi prese molto tempo e forse non è ancora del tutto compiuto.
Anzi, a certi livelli, il rapporto con la grecità continua a far sentire i suoi benefici. Ma è necessario ripulire radicalmente l’antropologia greca di base dal suo dualismo. Esso inevitabilmente relega il corpo naturale nell’animalità per esaltare l’anima come capace, una volta liberata dal corpo, di cogliere la luce dell’Assoluto trovando in questa contemplazione la sua immortalità. L’Alcibiade di Platone afferma che l’uomo “non è altro al di fuori della sua anima” (38, C).
Balza così subito all’occhio il grande paradosso: il cristianesimo colloca la salvezza proprio nella carne. Una strana economia di salvezza è quella cristiana se affida alla carne, destinata a tornare polvere, il compito di strapparci dalla morte. Non per nulla la reazione dei greci all’Areopago fu quella dell’ilarità. “Su questo ti ascolteremo un’altra volta” dicono andandosene pieni di sarcasmo. Eppure, l’urgenza di comunicare agli uomini la bellezza, la bontà e la verità dell’evento di Cristo, ha spinto i cristiani a impiegare il linguaggio allora dominante dell’ellenismo. Questo non significa però che il Logos di cui parla Giovanni sia identico al logos greco. La Prima lettera di Giovanni mostra bene la differenza: “Chi non ama non ha conosciuto Dio perché Dio è amore” (1Gv 4,8). Neppure si può intendere l’incarnazione secondo il vangelo di Giovanni come un semplice modo del manifestarsi di Dio. E’ necessario prendere sul serio due affermazioni. Giovanni dice “Il Verbo si è fatto carne”, non si limita a dichiarare che il Verbo ha preso carne. E vedere in questa differenza espressiva l’invito cogente della Prima Lettera di Giovanni (4,2): “In questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne è da Dio”.
Anche nel mondo dei cyborg?
L’annuncio del Dio incarnato che viene a salvare la carne, non risulta pateticamente ingenuo nel nostro mondo ormai segnato dall’intelligenza artificiale, dalle neuroscienze, dai cyborg?
Le neuroscienze si stanno incaricando di ridurre il peso della free will a una modestissima porzione della genesi di ogni azione umana. Il maggior spazio, nel promuovere l’azione, lo occuperebbe il cervello (che avrebbe assorbito la mente) con i suoi movimenti neuronici che, prima di ogni intervento responsabile, sarebbero già in larga misura determinati – per fortuna, stante a quanto dichiarano i cultori di questa recentissima “scienza”! – in senso favorevole al bene.
Il mistero dell’Incarnazione ridona all’uomo contemporaneo
quella “simplicitas” propria del Natale che suscita voglia di vita
Molti dei cultori di questi nuovi, strabilianti saperi – in cui sempre più si fondono scienze e tecnologie al punto da indurre a ricomprendere i due termini sotto il grossolano neologismo di “tecnoscienza” – parlano di “bioconvergenza”, praticando una sorta di nuova alleanza tra cosmologia, biologia e intelligenza artificiale che dovrebbe condurre ad andare “oltre la specie”, per aprire all’uomo la possibilità di un assorbimento creativo del “naturale” nell’artificiale.
Ancor più imponente è la ricerca che si sta intensificando sui cyborg, vale a dire sull’inserimento della cibernetica nell’organismo umano. Sulla scorta di un ampio e ben documentato saggio di Paolo Benanti, a cui rinviamo, sarà sufficiente far riferimento alle cinque evoluzioni del concetto di cyborg che si sono prodotte, secondo Manfred E. Clynes che con Nathan S. Kline coniò il termine “cyborg”, a partire dalla seconda metà del Novecento.
Ci possiamo limitare a citare qui la descrizione del cyborg V: “Alla fine in millenni da oggi, i nostri cervelli potranno esistere per migliaia di anni o forse più e non avranno bisogno dei nostri corpi per rimanere in vita. Questo è il cyborg V. L’essenza dell’uomo sopravviverà alle vicissitudini del corpo, con un cervello dalle funzionalità espanse oltretutto con sensazioni altamente evolute, con un’empatia ulteriormente sviluppata”.
E’ indubbio che nel testimoniare l’annuncio cristiano non si potrà non tener conto di simili prospettive.
Conviene però dire subito che i temi dell’intelligenza artificiale, della neuroetica e dei cyborg nascono su un preciso terreno culturale. A partire dalla concezione del post-moderno, forse già nel 1982 quando il Time indicò come personaggio dell’anno non più un uomo ma il computer definendolo: “Giovane, affidabile, silenzioso, pulito e intelligente. E’ bravo con i numeri e insegnerà o intratterrà i bambini senza un lamento”, il post-umano impone l’assunto che la vita dell’uomo ha subìto una profonda trasformazione. Il post-umano rifiuta l’idea di un umano biologicamente immutabile. L’essere umano è malleabile e può essere modificato. La convergenza tra biologie e tecnologie cambia l’uomo, trasformandolo in un ibrido, cyborg appunto, base di una nuova antropologia.
Al movimento post-umano si è andato affiancando quello trans-umano inteso come momento di transizione verso il post-umano. Esso implica un processo di fusione con le macchine che ci porterà a essere cyborg fino ad abbandonare lo stato meramente biologico, fino a tendere mediante la convergenza tra tecnologia e cyborg, a un potenziamento (enhancement) tale da produrre l’organismo cibernetico (meramente tecnologico e assai meno sociale e politico). Il post-umanesimo e il transumanesimo derivano, per finire, da un umanesimo secolarista che poco o tanto è sinonimo di ateista.
Cosa diventa allora annunciare un Dio che si è incarnato? Queste scienze con le relative tecnologie non documentano di fatto la rivincita del corpo (Körper) sulla carne (Leib)?
Il post-umano rifiuta l’idea di un umano biologicamente immutabile. L’essere umano è malleabile e può essere modificato
Afferma Henry: “Ben lontani dal fatto che l’analisi del corpo possa diventare quella della nostra carne e, addirittura, un giorno, il principio della sua spiegazione, è vero il contrario: solo la nostra carne ci permette di conoscere qualcosa come un corpo”. E questo perché non sarà mai possibile prescindere dal fatto che il dato fisico si imponga solo passando da come la “carne” ne sarà “impressionata”.
Paolo Benanti giunge a concludere: “La visione post-umana e trans-umana dell’enhancement… si configura quindi più come una negazione dell’umano che non come un miglioramento dell’uomo, divenendo di fatto una negazione pratica dell’umanità e una negazione del valore della persona”. Egli raggiunge così, di fatto, la tesi appena esposta di Michel Henry.
Che cosa resta allora del volto amato di Gesù Cristo che ancora festeggiamo nel Natale, sia pur deturpandolo in vari modi, come la sorgente perenne del “bell’amore”?
Pensando alla nascita del Santo Bambino nella sua profondità, raggiungiamo il meraviglioso mistero dell’Incarnazione che, ancora oggi, non solo si rivela capace di interloquire con le scoperte più ardite della tecnoscienza così come con le problematiche che travagliano il cambiamento d’epoca, ma ridona al sofisticato uomo contemporaneo quella simplicitas, propria del Natale, che pacificando suscita voglia di vita.
Angelo Scola, cardinale, è arcivescovo emerito di Milano