Regalo di Natale
La Roma di Horowitz e quella delle campane in festa nella notte della Vigilia. I poveri, Papa Bergoglio e una straordinaria omelia del cardinale Newman
Ieri sera, vigilia, dopo un boccone, quattro bocconi, o forse sei, di salmone con formaggio spalmato e cipolle rosse, mia moglie ha deciso che sarebbe andata a messa oggi, il giorno di Natale. Verso mezzanotte, mentre le canuzze erano un po’ nervose per l’assenza della tata, ho aperto la finestra, una volta deposto il bambino nel presepio (questo lo fa tradizionalmente Selma), e mi ha investito quel freddo tiepido, non rancoroso, di certi inverni romani, e le campane suonavano tutte a festa nel paesaggio notturno, luminoso ma con giudizio, del Gianicolo, dell’Aventino e del restante meraviglioso cucuzzaro di cupole e rovine (“Romani, tranquilli, il meglio è passato”): momento di febbrile felicità. Lontana la Roma vera di Jason Horowitz, del New York Times, ma era vera anche quella o almeno verisimile.
Mi è venuta voglia di rileggere una celebre omelia sull’Incarnazione del cardinale Newman e per miracolo ho trovato la modesta ma utile edizione delle Paoline. Teologo, filosofo e predicatore, beato e convertito dall’anglicanesimo, Newman parla di Gesù, il Cristo come figura, come promessa, come garanzia di nuova nascita, dalla carne allo spirito, dal peccato alla grazia. Figura, promessa, garanzia per noi miscredenti sono categorie superiori all’avvenimento, al fatto, e propongono un’identità teologica superiore, per i senza fede, a quella suggerita dalla fede stessa. Poi dice, tra mille altre cose superbe, che nacque da una donna perché volle prendere su di sé non un’altra natura, ma la natura umana. Poi cita l’incarnazione come parto senza macchia di un uomo senza macchia da una donna senza macchia, perché dalla carne non viene che carne, cioè concupiscenza, vittoria della parte inferiore dell’uomo sulla superiore, visto che il peccato originale non è un ferrovecchio. Infine dice che trascorse poco tempo sulla terra, a significarci che il mondo non vale tutto il tempo che l’abitiamo, e non volle legami e bardature. Stamane passeggiando dalle parti di Porta San Paolo, alla bocca dell’Ostiense, ho letto una frase di Joyce Lussu su una targa a lei dedicata, Dio solo sa se non era una figura ultralaica: non portarti appresso niente che tu non possa tenere con una sola mano. Insomma, la stessa cosa.
Al risveglio avevo letto, a parte le intemerate di Horowitz su Roma, che mi sono sembrate insieme esatte e surreali alla luce della notte trascorsa, l’omelia del nostro vescovo Bergoglio, Papa Francesco: i poveri, il pane da dividere, eccetera. Ho riletto al mattino l’omelia sull’incarnazione del cardinale Newman, e sì che nell’Ottocento inglese di poveri e diseredati ce n’era in quantità vistosa, ma di questo non si faceva parola. E mi è venuto in mente che il laconico presidente americano Coolidge, interrogato all’uscita dalla funzione evangelica su quanto avesse detto il pastore, rispose: “Ha parlato del peccato”. Domanda ulteriore: “E che ha detto?”. Risposta: “Era contro”.