La Creazione di Adamo

Il mio Natale “naturale”

Vito Mancuso

Cosa fa nascere e rinascere continuamente il mondo, facendo sì che in realtà ognuno dei 365 giorni dell’anno sia un dies natalis? Una contro-tesi sulla Natività

Quanti anni avete? Quanti essi siano, nessuno di noi è più bambino, abbiamo smesso da tempo di credere a Babbo Natale e alla sua slitta tirata dalle renne carica di doni, così come abbiamo smesso di credere a Gesù Bambino che nella notte avrebbe portato quei regali che trepidanti gli avevamo chiesto nella letterina insieme alle promesse di essere più buoni e di obbedire alla mamma e al papà. Ma a cos’altro abbiamo smesso di credere? A cosa, invece, crediamo ancora?

 

In realtà sto sbagliando a usare la prima persona plurale perché le questioni sollevate sono così intime che richiedono una risposta in prima persona singolare. Ognuno di noi dovrebbe chiedere a se stesso: a cosa io ho smesso di credere? A cosa invece credo ancora? E a cosa magari ho iniziato a credere? L’arrivo delle feste con la dilatazione del tempo che esse portano con sé può servire anche a questa specie di bilancio spirituale.

 

Ognuno di noi dovrebbe chiedersi: a cosa io ho smesso di credere? A cosa invece credo ancora? E a che cosa magari ho iniziato a credere?

Quanto a me, ho provato a pensare al rapporto tra la mia fede e la festa del Natale e sono giunto a interrogarmi sul contenuto della mia fede oggi, alla mia età. Non si tratta di una domanda semplice, se la si prende sul serio. A cosa veramente aderisce la mia coscienza? Cosa spera? Cosa attende? Ecco, attendere! Forse la domanda sulla fede la si capisce veramente nella sua reale portata se, dal piano cognitivo dove solitamente è collocata, la si trasferisce al piano del desiderio a cui essa propriamente appartiene. La domanda “che cosa credo” mostra la sua valenza più autentica se viene trasformata nella domanda “che cosa desidero”. Sto sostenendo che ognuno capisce cosa crede se capisce cosa attende, che ognuno capisce qual è la sua vera fede se capisce cosa aspira a ottenere da questa quantità di energia informata di cui fa parte e che di solito chiamiamo natura, essere, vita, o anche destino. Quindi io cosa spero? Cosa attendo?

 

L’approccio decisivo al reale che indica veramente chi siamo non è di tipo conoscitivo, come se da una parte ci fosse la realtà e dall’altra noi che possiamo giungere a dominarla con la mente. L’approccio decisivo al reale è performativo, pratico, operativo, è quello che nasce dalla consapevolezza che le idee della nostra mente vengono generate dalla nostra più intima volontà. L’approccio decisivo nasce dalla consapevolezza che il mondo ci appare in base a come ci disponiamo di fronte a esso. Vedete, io sono convinto che la dinamica degli esperimenti condotti al livello della fisica quantistica (che evidenzia il ruolo determinante dell’osservatore) valga anche per il mondo dell’esperienza quotidiana: anche qui la disposizione interiore di chi guarda assume un ruolo cruciale nella configurazione del risultato.

 

Il che significa che non esiste un contatto diretto con la realtà che ce la consegni per quello che essa realmente sarebbe, lasciando a noi la sola possibilità di obbedire o disobbedire. Certo, è evidente che vi sono dati definibili oggettivi ai quali la mente non può che obbedire, se intende agire con responsabilità, mentre risulta irresponsabile se li tralascia. Ma è sufficiente conoscere un po’ gli esseri umani per capire come questi dati oggettivi assumano un sapore completamente diverso a seconda di chi li pondera e li interpreta. Per questo la nostra mente, se non è faziosamente cieca e incapace di valutare la verità dei punti di vista diversi dal proprio, comprende di non poter contare su nessun sentiero garantito: né sul sentiero del senso né su quello dell’assurdo, né sul sentiero dell’essere né su quello del nulla, né sul sentiero della fede in Dio né su quello dell’ateismo. Qualunque sentiero scegliamo, lo dobbiamo percorrere senza conoscere dove esso ci conduce, la mappa non c’è, ci dobbiamo per forza fidare del sentiero, oppure sceglierne un altro, del quale però ci dovremo pur sempre fidare. Per questo tutti siamo, volenti o nolenti, nella fede.

 

La visione del mondo di Teilhard de Chardin come ininterrotto Natale, creatio continua, genesi sempre nuova

Oggi giustamente in occidente si tiene in grande considerazione la scienza, sia le scienze fisiche e biologiche che amano definirsi scienze esatte, sia le scienze umane che, avendo a che fare con quegli esseri caotici e imprevedibili che sono gli umani, non possono per statuto risultare esatte. I dati che l’impresa scientifica ci consegna sono però soggetti alle più diverse interpretazioni, il che vale non solo per le scienze umane, ma anche per la hard science di fisica, chimica, biologia. Personalmente ne ho avuto ultimamente l’ennesima conferma, quando dapprima mi sono confrontato in un dibattito pubblico con Paolo Flores d’Arcais nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale a Genova a conclusione del Festival di MicroMega, e dopo ho letto Il cosmo come rivelazione a cura di Claudia Fanti e José Maria Vigil e con prefazione dell’astrofisico Piero Benvenuti, attuale commissario dell’Agenzia spaziale italiana (dopo il licenziamento di Roberto Battiston da parte dell’attuale governo). Per Flores d’Arcais la scienza ormai ci pone di fronte a un completo svelamento del senso dell’essere il quale consisterebbe nell’assenza di ogni pur minimo progetto di senso, nel vuoto caso, nella totale assenza di finalità della natura, così che il senso, il progetto e la finalità di cui si nutre la mente umana si formano quasi a dispetto e in contrapposizione alla natura. Per il direttore di MicroMega e lo scientismo da lui rappresentato, tra natura e cultura esiste un abisso invalicabile, che fa sì che la nostra ricerca di senso operi in direzione contraria rispetto al non-senso della natura. Tale visione del mondo è condivisa oggi da molti, certamente dalla maggioranza degli scienziati e forse anche dei filosofi. Ne viene un pensiero dominante che si potrebbe descrivere come una strana miscela tra il realismo di Hegel che celebra i vincitori, la selezione naturale di Darwin che premia i più adatti, e la volontà di potenza di Nietzsche che procede al di là del bene e del male. Per questa prospettiva la natura non ha nulla a che fare con la cultura, meno che mai con l’etica.

 

Per gli autori del libro citato sopra invece, tra cui il celebre teologo Leonardo Boff, la natura rappresenta la fonte privilegiata della spiritualità e dell’etica, al punto da configurare, come recita il sottotitolo, Una nuova storia sacra per l’umanità. Dicendo ciò si sostiene che quanto la prospettiva tradizionale del cristianesimo affida alla storia, cioè la rivelazione di Dio e la salvezza dell’umanità, da Boff, dagli altri autori e da altri teologi prima e accanto a loro (come Teilhard de Chardin, Matthew Fox, Carlo Molari) viene ora affidato alla natura: è la natura a consegnare la rivelazione, è la natura a rappresentare la salvezza. Quei medesimi dati scientifici forniti dal modello cosmologico che portano Flores d’Arcais e molti scienziati a porre il nichilismo ontologico, portano Benvenuti, altri scienziati e alcuni teologi a parlare di “avvenuta riconciliazione tra scienza e fede”, a sostenere come “sempre più plausibile che la vita e la coscienza siano emerse e siano presenti un po’ ovunque nel cosmo”, a intravedere una nuova filosofia della Natura (scritta proprio così, al maiuscolo) come “ontologia delle relazioni” nella convinzione che “la relazione tra enti è più significante degli enti stessi”. Spiega l’astrofisico: “In fisica non ci si chiede che cosa sia un elettrone, ma quali siano le sue relazioni con altre entità fisiche”. Ne viene la visione di un Universo come vivente, dinamico, creativo, che sempre lavora e che sempre sta crescendo secondo un cammino di progressiva organizzazione e di crescita della complessità.

 

Abbraccio una visione dell’evoluzione naturale che respinge il caso dei nichilisti, né condivido il Disegno Intelligente dei creazionisti

Chi ha ragione? Il direttore di MicroMega che trae dalla scienza la lezione della mancanza di senso, oppure il responsabile dell’Agenzia spaziale italiana che dalla scienza trae una visione della natura (anzi, Natura) come creazione continua?

 

Per quanto mi riguarda, è ovvio che io stia dalla parte rappresentata da Benvenuti, come da anni ho espresso nei miei libri, soprattutto a partire da L’anima e il suo destino pubblicato nella collana “Scienza e idee” di Raffaello Cortina nel 2007. Più in particolare io abbraccio una visione dell’evoluzione naturale che respinge il caso dei nichilisti, senza per questo condividere il Disegno Intelligente (o Intelligent Design come si dice comunemente per le radici americane della teoria) dei creazionisti. Sostengo invece una tendenza intrinseca della natura verso la complessità e l’organizzazione, o meglio verso l’auto-organizzazione, facendo di tale autonomia della natura l’unica spiegazione che mi consente di prendere sul serio il negativo di cui la natura è pure ampiamente pervasa, secondo una visione complessiva che io denomino “logos + caos = pathos”.

 

Ma il punto che qui intendo sottolineare è un altro: è il fatto che questa visione più ottimista della natura (anche se drammaticamente ottimista), così come la visione più cupa del nichilismo scientista delineata sopra, non dipendono dal sapere, perché i medesimi dati, saputi da diverse persone, producono diverse se non opposte visioni. Tali diverse visioni dipendono piuttosto dal sentimento: o da un sentimento positivo che genera calore sotto forma di fiducia e fede nella vita, oppure da un sentimento negativo che verso la vita genera freddo e sfiducia.

 

Posso così riprendere la domanda sulla mia fede, per rispondere alla quale ricorro a questo brano di Pierre Teilhard de Chardin che sento interamente mio: “Se, a seguito di un qualche capovolgimento interiore, io dovessi perdere la mia fede in Cristo, la mia fede in un Dio personale, la mia fede nello Spirito, a me sembra che io continuerei invincibilmente a credere nel Mondo. Il Mondo (il valore, l’infallibilità e la bontà del Mondo), ecco in ultima analisi la prima, l’ultima e la sola cosa in cui io credo. E’ di questa fede che io vivo. Ed è a questa fede che io, lo sento, nell’ora della morte, oltrepassando tutti i dubbi, mi abbandonerò”.

 

Io penso che questo brano di Teilhard de Chardin (contenuto in uno scritto datato “Pechino, 28 ottobre 1934” perché il gesuita francese a seguito delle sue idee era stato privato della cattedra ed esiliato in Cina) abbia molto a che fare con il Natale. Esso rimanda infatti a una visione del mondo come ininterrotto Natale, creatio continua, genesi sempre nuova. Il che viene mostrato anche dalla filologia che fa derivare il termine natale e il termine natura dalla medesima radice, dal verbo latino nascor che significa “nascere”.

 

Se, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, “Cristo si forma in noi”, ognuno di noi si ritrova a essere un po’ simile alla Madonna

Cosa fa nascere e rinascere continuamente il mondo, facendo sì che in realtà ognuno dei 365 giorni dell’anno sia un dies natalis? La risposta è la logica dell’armonia relazionale, quella stessa dinamica che qui e ora dentro di noi tiene insieme le nostre particelle subatomiche a formare i nostri atomi, i nostri atomi a formare le nostre molecole, le nostre molecole a formare le cellule e via di questo passo.

 

Il Credo niceno-costantinopolitano attribuisce la creazione non solo al Padre, dichiarato “creatore di tutte le cose, visibili e invisibili”, ma anche al Figlio di cui dice: Per quem omnia facta sunt, “per mezzo del quale tutte le cose sono state create”. Oggi, quando giustamente si pensa la creazione come creatio continua, possiamo dire meglio: “Per mezzo del quale tutte le cose sono create”. Il Quarto Vangelo parla del Verbo di Dio dicendo al passato che “tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Giovanni 1,3); noi oggi possiamo anzi dobbiamo porre al presente la frase: “Tutto viene fatto per mezzo di lui”. Giungiamo così a comprendere che questo Verbo di Dio di cui il Natale celebra l’incarnazione non è una misteriosa entità metafisica là in alto che a un tratto discende dal cielo in un punto arbitrario dello spazio-tempo, ma è l’azione efficace della Realtà Suprema detta Dio che istituisce nel mondo la logica relazionale grazie alla quale da sempre il mondo è. Di questa logica relazionale il cristianesimo afferma che si è incarnata duemila anni fa nel grembo di una giovane donna generando l’uomo Gesù, vero Dio e vero uomo. Io sono convinto che occorra subito aggiungere che questa logica si era incarnata già prima, fin da quando il mondo cominciò a esistere, e si incarna sempre, anche adesso, in ogni luogo e in ogni tempo, perché, se così non fosse, tutto ricadrebbe nello stato caotico dell’inizio, in quel tehom abissale di cui parla l’incipit della Genesi.

 

Questa prospettiva viene affermata a suo modo anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica: “Il Mistero del Natale si compie in noi allorché Cristo si forma in noi” (art. 526). Cristo si forma in noi? Ma se questo succede davvero, ognuno di noi si ritrova a essere un po’ simile alla Madonna, ognuno di noi cioè può rappresentare a modo suo una singolare interpretazione della Madonna con il Bambino. E’ questa la mia fede, è questa la mia attesa. E chissà, forse proprio da questa consapevolezza potrebbe scaturire il proposito di una nuova ipotetica letterina a quel Gesù Bambino dell’infanzia, icona privilegiata ma non solitaria di quel Logos-logica, di quella grammatica e sintassi dell’essere, grazie a cui esistiamo. Questa mia fede mi porta a celebrare il Natale non più come evento sovrannaturale, ma come evento naturale e quindi davvero universale, tale cioè da illuminare veramente “ogni uomo che viene nel mondo”, come io traduco Giovanni 1,9 in fedeltà all’originale greco e alla Vulgata (omnem hominem venientem in hunc mundum) e diversamente dalla Bibbia Cei la cui versione a volte vuole essere inutilmente moderna.

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