Il Papa negli Emirati, dove le chiese non possono fare ombra alle moschee
I cristiani sono tollerati ma le uniche torri consentite nel cielo di Abu Dhabi sono i minareti. E gli hotel
La costruzione più impressionante ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, è la moschea Sheikh Zayed. Gradini d’un bianco immacolato, uso generoso di marmo e foglia d’oro. Il tappeto persiano cucito a mano di oltre mille metri quadrati, la dozzina di cupole rivestite d’oro. Dieci-venti minuti di strada ed ecco San Giuseppe, la sede episcopale dell’emirato, “poco visibile e un po’ nascosta. Certo non la si vede da lontano e non ci sono né cupole né torri ad annunciarne la presenza. Né alte né basse, dato che qui non sono proprio permesse. Una navata di chiesa va bene, ma un aspetto troppo religioso, questo no. Mostrate pure la vostra presenza, ma per favore non in modo troppo esplicito. Le uniche torri consentite nel cielo di Abu Dhabi sono i minareti. E gli hotel. Le costruzioni della fede cristiana devono restare a livello della terra. Il dialogo tra le religioni qui non ha luogo sullo stesso piano. Quando pure ha luogo”. A scriverlo, nel recente Un vescovo in Arabia (Emi-Editrice missionaria italiana) è mons. Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale, che nella penisola sacra all’islam vive e opera da quindici anni. Lettura d’obbligo per capire la dimensione del viaggio che da domenica 3 febbraio il Papa compirà ad Abu Dhabi, dove rimarrà fino a martedì.
Meno di quarantott’ore che però assumeranno una valenza storica: mai un Pontefice, prima d’ora, aveva messo piede nel Golfo. Intenso il programma che avrà due eventi centrali: la partecipazione al grande incontro interreligioso e la santa messa celebrata allo Zayed Sports City. Ennesima tappa di un tour che ha portato già il Papa in terre musulmane,
Una navata di chiesa va bene, ma un aspetto troppo religioso, no. Mostrate pure la vostra presenza, ma non in modo troppo esplicito
dal Bangladesh all’Egitto, e che il prossimo marzo lo vedrà ospite in Marocco. Senza dimenticare l’Albania e la Giordania, la Turchia e la Repubblica centroafricana. Un percorso non casuale, che comprende anche i quattro incontri con il Grande imam di al Azhar, il principale centro universitario sunnita del mondo arabo. Il senso di tale percorso l’aveva illustrato Francesco stesso pochi giorni dopo l’elezione, parlando al Corpo diplomatico, quando disse che il Pontefice è “colui che costruisce ponti, con Dio e tra gli uomini. Desidero proprio che il dialogo tra noi aiuti a costruire ponti fra tutti gli uomini, così che ognuno possa trovare nell’altro non un nemico, non un concorrente, ma un fratello da accogliere ed abbracciare. In quest’opera è fondamentale anche il ruolo della religione. Non si possono, infatti, costruire ponti tra gli uomini, dimenticando Dio. Ma vale anche il contrario: non si possono vivere legami veri con Dio, ignorando gli altri. Per questo è importante intensificare il dialogo fra le varie religioni, penso anzitutto a quello con l’islam”.
Un'immagine della chiesa di Santa Maria a Dubai (foto LaPresse)
Purché, ovviamente, sia un dialogo serio: “Ogni dialogo autentico inizia con la proclamazione della propria fede”, ricordava il cardinale Jean-Louis Tauran, scomparso lo scorso luglio. “La prima condizione per un dialogo interreligioso è quella di avere un’idea molto chiara del contenuto della propria fede”, diceva, aggiungendo che siamo sì “condannati al dialogo”, ma “ma non nell’ambiguità o quando gli interlocutori non hanno un profilo spirituale definito. Così nascono il relativismo e il sincretismo”. Una bella lezione anche per quei sapienti cattolici – vescovi inclusi – che parlano di dialogo avendo una “conoscenza molto debole della propria fede”.
“La prima condizione per il dialogo interreligioso? Avere un’idea molto chiara del contenuto della propria fede”, diceva il card.Tauran
Un vademecum utile per comprendere le enormi potenzialità della due giorni negli Emirati ma anche gli ostacoli che permangono sul sentiero. E’ allora perfetta la rappresentazione plastica della situazione che dava mons. Hinder: da una parte la sfarzosa e visibile moschea, costruita su un’altura sì da essere visibile ovunque, dall’altra la modesta cattedrale di San Giuseppe, seminascosta tra la teoria di grandi alberghi e grattacieli dell’alta finanza, senza segni distintivi esteriori. L’immagine chiarisce subito un concetto che lo stesso vescovo ribadisce poco dopo, quando scrive che “nei nostri colloqui con i musulmani, in particolare con i padroni di casa, non siamo sullo stesso piano. Un colloquio senza padrone, nel senso del filosofo Jürgen Habermas, qui non ha luogo”.
Nella semplificazione in cui viviamo immersi, dove l’islam è sovente percepito come un monolite indistinto, per di più quello della penisola araba – che invece è una realtà fluida dove le alleanze sono stabilite innanzitutto su linee confessionali (sunniti contro sciiti, cioè Arabia Saudita contro Iran) e poi su questioni commerciali (gli Emirati arabi, alleati di Riad in Yemen, sono rivali sul fronte economico) – si è portati a pensare che il dialogo sia semplice se dall’altra parte del tavolo è seduto un commensale “aperto”, magari occidentalizzato. Uno, insomma, che vede il mondo un po’ come noi. Mons. Hinder ricorda un episodio che smentisce questa lettura irenica e semplicistica. Anni fa, era il 2008, si tenne in Vaticano il Forum cattolico-musulmano. I pasti erano serviti a Santa Marta e prima dell’inizio dei colloqui era stato negoziato che ci fossero tavole su cui stessero l’acqua e anche il vino e che ogni partecipante potesse decidere cosa avrebbe bevuto. All’ultimo momento, la delegazione musulmana fece sapere che non si sarebbe seduta a tavoli dove ci fosse anche del vino. Che fare? Togliere l’alcol per rispetto dell’interlocutore o impuntarsi? “Il nostro punto di vista era chiaro: qui ci troviamo in un paese libero e ciascuno può prendere la sua libera decisione. Se qualcuno non voleva bere del vino, doveva però serenamente consentire che altri lo facessero”. Tentativo vano, la delegazione musulmana si mostrò irremovibile e il vino fu bandito, anche per non compromettere l’obiettivo maggiore, quello del dialogo. “Con grande senso di responsabilità – ricorda il vescovo – o con eccessiva disponibilità al compromesso”. In ogni caso, “questo dettaglio mostra assai chiaramente quanto è difficile, anche solo su un piano molto pratico, creare le condizioni per un dialogo pacifico, come pura precondizione per un colloquio serio e approfondito sulle nostre religioni”. Il fatto è che “noi viviamo letteralmente porta a porta, chiesa e moschea, si potrebbe dunque pensare che in nessun altro luogo si possano dare condizioni migliori o più agevoli per un dialogo approfondito, almeno dal punto di vista pragmatico. Purtroppo non è così”.
E’ vero, poi, che – per usare un’espressione cara a Papa Francesco – anche qui il mondo è più un poliedro con tante facce l’una diversa dall’altra che una semplice sfera dove ogni punto è separato sempre dalla stessa distanza dal centro. L’Arabia Saudita non è l’Oman, così come Riad non è Abu Dhabi. “Qui negli Emirati si potrebbe addirittura tenere in automobile qualche simbolo cristiano, come un rosario o cose simili. In Arabia Saudita sarebbe impossibile, e anche a Doha non sarebbe
Novecentomila cattolici, otto parrocchie, sessantasette sacerdoti. I tremila bambini che frequentano il catechismo, divisi in turni
visto di buon occhio”. Quando si parla di libertà religiosa, i problemi concreti nascono nella vita quotidiana. Limitazioni per legge il più delle volte, “vere e proprie provocazioni”, in altre circostanze. Come l’altoparlante della “moschea dei pachistani” a Dubai, orientato senza alcuna ragione sensata – se non quella di provocare – verso la piazza della chiesa di Santa Maria. Con la chiamata alla preghiera e l’intera predica del venerdì trasmesse durante la celebrazione eucaristica cristiana. Allora risulta facile comprendere, come scrive mons. Hinder, che “per il dialogo della vita è di importanza essenziale rendere possibile la convivenza. Quando uno vede e nota come nel Golfo, dove pure potremmo attivare un dialogo della vita da vicino a vicino, finiamo con l’essere bloccati in due società parallele, allora questa affermazione assume un carattere decisamente pratico”. Per farlo, però, è indispensabile quello che il vescovo svizzero ormai trapiantato nel Golfo definisce “un certo comportamento da cristiani. Noi dobbiamo essere testimoni della fede cristiana. Quando ci comportiamo come se non ci fossero un Dio e una legge, ciò ha conseguenze fatali per il dialogo interreligioso. Il comportamento manchevole di alcuni cristiani ricade su tutti gli altri”.
Suona strano e paradossale: come è possibile che un comportamento per così dire secolarizzato degli occidentali sia malvisto a quelle latitudini? “Per i musulmani, che vivono tutto il giorno regolati da dettami religiosi, la mancanza di regole ha un effetto disturbante. Il passaggio a un’immagine decadente e senza Dio, in senso sia figurato sia letterale, diventa davvero breve”.
Ma qual è il paese che il Papa va a visitare? Negli Emirati i cristiani, secondo le stime diffuse dalla Santa Sede, sarebbero un milione e mezzo, di cui 901 mila cattolici provenienti in modo particolare dalle Filippine e dall’India (rappresentano il grosso della manodopera di cui l’economia emiratina ha enorme bisogno). Otto parrocchie, un vescovo, undici sacerdoti diocesani, cinquantasette religiosi, un diacono permanente, un religioso non sacerdote, quarantatré religiose professe. Più di mille catechisti. Il tasso di fertilità, come ha ricordato sull’ultimo numero della Civiltà cattolica padre Giovanni Sale, è di 1,77 figli per donna, più basso di quello europeo. Un dato non trascurabile. La chiesa più frequentata è quella di Santa Maria a Dubai – quella davanti all’altoparlante di cui si parlava prima – dove nei giorni festivi le messe si susseguono l’una dopo l’altra, dalla mattina alla sera. Nelle otto parrocchie, dal venerdì alla domenica, si stima che partecipino alla messa 150 mila persone.
Adesso gli Emirati, a marzo in Marocco. Gli incontri con il Grande imam di al Azhar. I rapporti con l’islam nel programma del pontificato
Uno degli aspetti più interessanti, e che dà l’idea come meglio non si potrebbe di una chiesa viva e dinamica nonostante le difficoltà, è il catechismo, con migliaia di bambini divisi in poche parrocchie. “Abbiamo alcune scuole parrocchiali, e nei giorni di venerdì e sabato le lezioni sono sospese. Allora usiamo le aule scolastiche per il catechismo”, diceva mons. Hinder in un’intervista a Rodolfo Casadei per il mensile Tempi: “L’unica parrocchia dove la situazione è critica è quella di Sharjah, perché lì gli iscritti sono quattro-cinque mila a seconda degli anni e non esiste una scuola cattolica. Bisogna ammettere che che i gruppi sono un po’ troppo grandi per fare bene le cose, a volte bisogna imporre la disciplina in modo quasi militare. Normalmente nello stesso orario del venerdì un gruppo è a messa e l’altro fa catechismo, poi si scambiano di posto; gli altri frequentano il sabato. Tutto – continuava il vescovo – funziona senza troppi problemi, è un vero miracolo. La maggioranza dei nostri bambini conosce la verità di fede molto meglio di quelli europei. Sono molto più socializzati nella chiesa di quanto avvenga in Europa”.
Nessuno stupore, accade così ovunque la chiesa è minoranza tra le minoranze, a ogni latitudine. A Taiwan, in Mongolia, in Siberia, nelle piccole comunità dell’Africa, a nord e a sud del Sahara. Nelle foreste dell’America latina. Quelle minoranze creative di cui parlò Benedetto XVI, “uomini che nell’incontro con Cristo hanno trovato la perla preziosa, quella che dà valore a tutta la vita e, proprio per questo, riescono a dare contributi decisivi a un’elaborazione culturale capace di delineare nuovi modelli di sviluppo”. La visita del Papa, scrive padre Sale, “porterà alla luce del sole questo cristianesimo piccolo, precario e di periferia, che rappresenta però un sogno per il medio oriente di oggi”. Venerdì mattina, parlando ai membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la chiesa cattolica e le chiese ortodosse orientali, Francesco ha detto che “il medio oriente deve diventare terra di pace, non può continuare a essere terreno di scontro. La guerra, figlia del potere e della miseria, ceda il posto alla pace, figlia del diritto e della giustizia, e anche i nostri fratelli cristiani siano riconosciuti come cittadini a pieno titolo e con uguali diritti”. Una speranza ancora lungi dall’essere realizzata, anche in quelle terre, come gli Emirati, che pure si vantano della tolleranza nei confronti dei cristiani, comunque cittadini di serie B.
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