Alfred Dreyfus in carcere, in un'illustrazione del Petit Journal.

Il caso Pell è il nuovo caso Dreyfus. La vergogna è di chi si volta dall'altra parte

Giuliano Ferrara

Una campagna anticattolica travestita da lotta agli abusi. Nel silenzio di tutti

Contro il capitano Dreyfus un secolo fa si scatenò l’inferno, e lui finì all’inferno, perché attraverso di lui volevano combattere la sua razza, il cosmopolitismo delle élite, l’antimilitarismo. Contro il cardinale George Pell oggi si è scatenato l’inferno, e lui rischia di finire all’inferno, perché attraverso di lui il pensiero unico dominante vuole mettere in ginocchio la chiesa cattolica e la sua morale considerate l’ultima remora o contraddizione potenziale all’omologazione universale al nuovo credo scristianizzato del sesso, della riproduzione, della famiglia e del gender senza Dio né legge.

 

Alfred Dreyfus era un capitano ebreo dell’esercito francese. Fu arrestato per spionaggio nel 1894, condannato all’ergastolo e degradato e inviato a scontare la pena all’Isola del Diavolo, nella Guyana francese. La condanna scatenò feroci passioni: un fronte trasversale all’insegna dei diritti umani universali proclamò la sua innocenza, mentre una vasta convergenza patriottarda, antisemita e militarista si batté con rabbia per la conferma della sua condanna. Nel 1899 Dreyfus si vide cassata la sentenza con rinvio a un nuovo processo della corte militare, fu di nuovo condannato l’anno stesso, malgrado l’evidenza delle prove a carico del vero colpevole di spionaggio, e dieci giorni dopo la nuova condanna a dieci anni fu graziato dal presidente della Repubblica, per essere infine riabilitato sotto Clemenceau alla vigilia della Prima guerra mondiale. Maurras, il fondatore dell’Action Française, chiamò “falsi, sì, ma patriottici” i documenti d’accusa, e di questo scandalo tra i due secoli si disse che gli antidreyfusardi, tra i quali anche le frange estreme della sinistra comunarda, colpivano nel capitano la sua razza, il cosmopolitismo delle élite radicali e degli intellettuali dreyfusardi, nel dramma di un nazionalismo e bellicismo frustrati dalla perdita dell’Alsazia e della Lorena a vantaggio della Germania nel 1870.

 

Un caso analogo è quello del cardinale George Pell, australiano, fino a ieri numero tre della chiesa cattolica, condannato dalla Corte dello stato di Victoria per atti di pedofilia violenta, incarcerato in attesa che sia fissata la pena e in vista di un processo d’appello. Le cose che abbiamo riferite qui ieri e i documenti intorno al processo che pubblichiamo dimostrano che, sebbene in un clima persecutorio infame, segnato da una aggressiva tendenza colpevolista a ogni costo di parte immensa dell’opinione pubblica mondiale e dei media, qualche dubbio, almeno nella lontana Australia, comincia a farsi largo, malgrado una piccola folla urlante abbia gridato all’imputato che “marcirà all’inferno” e i media di tutto il mondo, a ogni latitudine, facciano coro con rarissime eccezioni nella crociata anticristiana.

 

La parte decisiva del processo a Pell, per un caso di ventitré anni fa, si è svolta con l’interrogatorio a porte chiuse di un trentenne denunciante il cui nome non verrà mai reso noto, per l’opinione internazionale e per il pubblico un accusatore anonimo. La prima giuria convocata nell’agosto dell’anno scorso ha confessato, con alcuni giurati in lagrime, di non poter emettere alcun verdetto. Il retrial o ri-processo, con una giuria convocata ad hoc, ha stabilito, sulla base di una sola testimonianza d’accusa non suffragata dal benché minimo riscontro testimoniale, che il vecchio cardinale e braccio destro del Papa, politicamente scorretto, conservatore, burbero, ambizioso e potente, è colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio di una violenza in una sagrestia a porte aperte subito dopo la processione e la messa domenicale, la sua prima da vescovo di Melbourne, in una finestra temporale instabile ma non superiore ai cinque-sei minuti per la commissione del delitto. Fino a cinquanta anni di galera possibili. Un secondo presunto abusato era morto di eroina nel 2014, un anno prima che il ragazzino tredicenne del coro, ormai trentenne, si decidesse a denunciare il misfatto al riparo della privacy e nello strepito del crucifige di un movimento attivistico incandescente in Australia e nel mondo; e fino alla morte l’altra vittima ha sempre negato che sia accaduto alcunché, rispondendo di “no” alla madre che gli domandava se fosse successo qualcosa (ora la famiglia chiederà un risarcimento alla chiesa, ora dice di aver capito la ragione delle sofferenze e della morte tossica del ragazzo).

 

Una parte della classe dirigente australiana, che ha convissuto nella vita pubblica con il cardinale Pell e lo ha conosciuto bene in via privata, si dice esterrefatta dalle risultanze giudiziarie, in totale contrasto con l’identità percepita, un uomo intelligente e di carattere,  dell’alto prelato (gli ex premier John Howard, Tony Abbott). Si ascoltano voci garantiste e innocentiste anche fra commentatori laici, fuori della chiesa, in particolare nel gruppo editoriale Murdoch. Il Papa ha fatto fatica per incredulità a prendere le misure graduali, ma automatiche nel nuovo costume e regime di curia, che hanno allontanato Pell dalle sue immense responsabilità nel governo della chiesa, dove era stato chiamato da Bergoglio – nonostante campagne già in atto contro di lui – come ministro del Tesoro, e per misure estreme aspetta l’appello, che sarà deciso, immaginiamo in mezzo a quali pressioni ambientali, da una giuria togata di tre persone. Forse intorno a questo processo, che ha tutta l’apparenza di una spietata caccia alle streghe, può cominciare a cambiare qualcosa nella mentalità con cui si guarda a queste vicende drammatiche. Nel mondo non ci sono solo giornalisti conformisti, o pavidi, e facinorosi moralizzatori del mondo cattolico progressista cosiddetto che guardano con sadico compiacimento l’inabissamento nello scandalo e nella “vergogna” (“Pedofilia: la vergogna del cardinale”, titolo vergognoso di Repubblica ieri) di un principe della chiesa giudicato intellettualmente e caratterialmente intrattabile, e che sarebbe stato chiamato in rappresentanza della minoranza da Francesco a Roma, a loro grottesco e fazioso giudizio (sullo sfondo sempre l’insinuazione che tutto il marcio debba farsi risalire a Giovanni Paolo II e a Ratzinger).

 

Da vent’anni, praticamente in solitario (il che dovrebbe essere una circostanza sospetta per chiunque abbia una visione liberale e garantista del diritto nel suo rapporto con i media e l’opinione pubblica), qui nel Foglio sosteniamo che è in atto una campagna ferocemente anticattolica travestita da lotta al lupo clericale, al prete abusatore e al vescovo che lo copre. 

 

Per farlo non abbiamo bisogno di negare gli abusi, che ci sono stati e in una misura non indifferente, in parallelo con la sordità etica di un mondo pansessualista verso l’integrità dei bambini anche e sopra tutto fuori delle mura della chiesa. Ci basta discernere, comprendere i modi e i timbri antigiuridici, ideologici, del gigantesco ricatto scristianizzatore e anticattolico condotto da grande stampa, organismi giudiziari e ad hoc, commissioni, comitati attivistici che parlano in nome delle vittime e dei poderosi risarcimenti, governi: attraverso i preti, con una azione di generalizzazione ricattatoria che trasforma il clero in una vasta orda di orchi nelle mani di una ossessione satanica per gli agnelli, i nuovi antidreyfusardi vogliono colpire un’istituzione bimillenaria invecchiata, tragicamente incerta tra la sua tradizione e l’aggiornamento mondano, smantellando alcuni suoi caposaldi come il celibato, la cura d’anime, l’indipendenza del culto e della sua amministrazione da parte del clero consacrato, il celibato, il sacramento della confessione segreta, l’esclusione delle donne dall’ordinazione, la morale sessuale, la sua autorità di cultura e umanità, la fiducia dei fedeli, la sua gerarchia a partire dal vescovo di Roma, il Papa. 

 

La chiesa cattolica non ha saputo o potuto reagire, si è affidata com’è nella sua natura a uno spirito di resa, prima di tutto alle leggi della provvidenza divina, mediante espiazione e preghiera, poi alle leggi dell’omologazione al mondo: un vecchio Papa antirelativista e antimoderno, Benedetto XVI, ha rinunciato al Soglio di Pietro con un gesto inaudito per secoli, spettacolare e amarissimo, esito e origine di una delegittimazione profonda dell’istituzione; un nuovo Papa, per la prima volta un gesuita, ha cercato di contrastare il fenomeno in una logica progressiva di adattamento alle sue leggi e di resa ai Diktat moralistici del secolo, con risultati grotteschi, fino all’autoflagellazione sinodale e alla prosternazione della chiesa in ginocchio davanti all’autorità inquisitoria della stampa e dei media. Oggi la chiesa di Papa Francesco è messa così: i tradizionalisti antibergogliani lo accusano di subire le pressioni di una vasta lobby gay dell’immoralismo interessato e omertoso (ultimi i cardinali Brandmüller e Burke in una lettera alla vigilia del convegno sinodale recente); gli Lgbt definiscono “Sodoma” il Vaticano e il clero cattolico, rilanciano sul mercato il sospetto generalizzato sui “comportamenti dell’80 per cento dei preti”, per dimostrare che la sessuofobia antigay è il prodotto o il riflesso della sessuomania predatoria sui più piccoli e vulnerabili, e che per superare il segreto criminale la chiesa ha bisogno di un colossale coming out; proliferano dovunque nel mondo indagini e accuse le più varie, estese su decenni e decenni, arrivate a toccare migliaia e migliaia di preti, decine di vescovi e molti cardinali con imputazioni che dannano generazioni di ministri ordinati e il modo di essere della gerarchia e della gestione del clero, su su fino alla curia romana e al Papa stesso, con il caso del suo confessore accusato di pedofilia, il vescovo di Orán Gustavo Oscar Zanchetta (in Belgio, prima della Renuntiatio di Ratzinger, l’intera conferenza episcopale fu messa ai domiciliari per una intera giornata, e la polizia giudiziaria procedette allo scavo nelle tombe di cardinali come Leo Suenens, uno di padri del Concilio Vaticano II, allo scopo dichiarato di trovare prove di abusi ivi sepolte).

 

In questa storia gotica e noir, dove un mondo che predica e pratica in tutto il suo luccicante splendore di cultura e di mercato gay culture e gender culture, salvo mescolare fede e perversione mettendole in carico come speciale patologia al clero cattolico, suo magnifico caprone espiatorio, l’impressione è di una chiesa boccheggiante. Per i credenti, si può dire che è affar loro e della fede nella divina provvidenza; ma per i non credenti e i laici extra muros, per chi ha un amore anche vago per il diritto eguale e per una conoscenza non pregiudiziale e oggettiva della realtà storica, il dipanarsi impunito da decenni di un’orchestrazione d’accusa generalizzante, inquinante, ai danni di una cosa preziosa come la chiesa cattolica, testimone e contraddittore del mondo e delle sue parzialità, dovrebbe essere uno stimolo per conoscere, per interessarsi, per contro-accusare e sceverare il vero dal falso. Non per voltarsi dall’altra parte e plaudire alla condanna universale senza contraddittorio, come fecero i peggiori antidreyfusardi, con conseguenze che macchiarono di orgoglio luciferino tutto il Novecento. 

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.