La “falsa neutralità” dello stato liberale ha escluso la religione dalla sfera pubblica
"Una forma di ‘totalitarismo morbido’ che rende particolarmente vulnerabili alla diffusione del nichilismo etico nella sfera pubblica”. Il documento della Commissione teologica approvato dal Papa
Libertà religiosa non è solo quella reclamata nelle periferie esistenziali, dove il cristianesimo è minoranza tra le minoranze, spesso costretto a vivere la propria fede in modo nascosto, temendo perfino di entrare in chiesa per assistere alla celebrazione della messa, ché un attentatore suicida potrebbe decidere di farsi saltare in aria tra i banchi. Libertà religiosa è qualcosa che attiene anche le realtà plasmate nel corso dei secoli dal cristianesimo, con le cattedrali che dominano le piazze cittadine e le parrocchie più o meno vive. L’uguaglianza dei diritti, dogma postmoderno, ha ridefinito negli anni i contorni e i confini della libertà religiosa, arrivando al punto da confonderla con la libertà di culto. Nessuno s’azzarda a mettere in discussione la fede dell’individuo, rispettabile e sacrosanta, basta che essa sia confinata entro le mura domestiche, silenziata, ridotta a essere qualcosa di intimo e privato. E’ proprio qui che va indagare il nuovo corposo documento pubblicato dalla Commissione teologica internazionale dopo il via libera del Papa, che punta ad approfondire il tema della libertà religiosa nel contesto odierno. Cinque anni di lavoro che come primo obiettivo avevano quello di proporre un aggiornamento ragionato della recezione della dichiarazione conciliare Dignitatis humanae e in secondo luogo quello di esplicitare le ragioni della giusta integrazione “antropologica e politica fra l’istanza personale e quella comunitaria della libertà religiosa”, hanno portato a stabilire che “l’odierna radicalizzazione religiosa indicata come ‘fondamentalismo’, nell’ambito delle diverse culture politiche, non sembra un semplice ritorno più ‘osservante’ alla religiosità tradizionale”. Tutt’altro: “Questa radicalizzazione è connotata spesso da una specifica reazione alla concezione liberale dello stato moderno, a motivo del suo relativismo etico e della sua indifferenza nei confronti della religione”.
Lo stato moderno è “connotato da relativismo etico e indifferenza nei confronti della religione”. La reazione è “la radicalizzazione religiosa”
“I cristiani non possono favorire soluzioni che compromettano la tutela di esigenze etiche fondamentali per il bene comune”
E’ lo stato liberale – e il liberalismo in sé – a essere messo sul banco degli imputati, anche perché “appare a molti criticabile anche per il motivo opposto, ossia per il fatto che la sua proclamata neutralità non sembra in grado di evitare la tendenza a considerare la fede professata e l’appartenenza religiosa un ostacolo per l’ammissione alla piena cittadinanza culturale e politica dei singoli. Una forma di ‘totalitarismo morbido’, si potrebbe dire, che rende particolarmente vulnerabili alla diffusione del nichilismo etico nella sfera pubblica”. Insiste il documento su questo punto e lo fa con veemenza, quasi inaspettata, se si considera la campagna battagliera condotta da eminenti uomini di chiesa e da autorevoli testate come la Civiltà cattolica contro i populismi che minano le fondamenta stesse dello stato liberale. La commissione teologica internazionale osserva che “la pretesa neutralità ideologica di una cultura politica che dichiara di volersi costruire sulla formazione di regole meramente procedurali di giustizia, rimuovendo ogni giustificazione etica e ogni ispirazione religiosa, mostra la tendenza a elaborare un’ideologia della neutralità che, di fatto, impone l’emarginazione, se non l’esclusione, dell’espressione religiosa dalla sfera pubblica. E quindi – si nota – dalla piena libertà di partecipazione alla formazione della cittadinanza democratica. Da qui viene allo scoperto l’ambivalenza di una neutralità della sfera pubblica soltanto apparente e di una libertà civile obiettivamente discriminante. Una cultura civile che definisce il proprio umanesimo attraverso la rimozione della componente religiosa dell’umano, si trova costretta a rimuovere anche parti decisive della propria storia”. E il risultato non può che essere la “rimozione di parti sempre più consistenti dell’umanità e della cittadinanza da cui la società stessa è formata”. Insomma, “la reazione alla debolezza umanistica del sistema fa persino apparire giustificato per molti (soprattutto giovani) l’approdo a un fanatismo disperato: ateistico o anche teocratico”.
Il ritorno dell’elemento religioso
E’ qui che si inserisce la questione del ritorno della religione sulla scena pubblica. Solo qualche giorno fa un poderoso studio del Pew Research Center sottolineava che – eccezion fatta per l’Europa – l’elemento religioso aveva ovunque riconquistato spazio nell’ultimo ventennio. A dimostrarlo interviste e analisi di dati, sui quali però si è mostrato scettico Massimo Introvigne, sociologo e direttore del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni): “Tendo un po’ meno di altri a prendere per oro colato tutto quanto produce il Pew Research Center, che studia la religione con sondaggi a campione, un metodo che non dà certamente risposte definitive in questo campo”, diceva in un’intervista concessa al Foglio lo scorso 25 aprile. Secondo la commissione teologica internazionale, “l’automatica correlazione fra progresso civile ed estinzione della religione, in verità, era stata formulata in base a un pregiudizio ideologico, che vedeva la religione come la costruzione mitica di una società umana non ancora padrona degli strumenti razionali capaci di produrre emancipazione e benessere della società. Questo schema si è rivelato inadeguato, non solo in rapporto alla vera natura della coscienza religiosa, ma anche in riferimento all’ingenua fiducia rivolta agli effetti umanistici della modernizzazione tecnologica. Nondimeno, proprio la riflessione teologica ha contribuito a chiarire, in questi decenni, le forti ambiguità di quello che è stato frettolosamente indicato come ritorno della religione. Questo cosiddetto ‘ritorno’, infatti, presenta anche aspetti di ‘regressione’ nei confronti dei valori personali e della convivenza democratica che stanno alla base della concezione umanistica dell’ordine politico e del legame sociale. Molti fenomeni associati alla nuova presenza del fattore religioso nella sfera politica e sociale appaiono del tutto eterogenei – se non contraddittori – rispetto alla tradizione autentica e allo sviluppo culturale delle grandi religioni storiche. Nuove forme di religiosità, coltivate nel solco di arbitrarie contaminazioni fra la ricerca del benessere psicofisico e costruzioni pseudoscientifiche della visione del mondo e del sé, appaiono piuttosto, agli stessi credenti, come inquietanti deviazioni dell’orientamento religioso. Per non parlare della rozza motivazione religiosa di talune forme di fanatismo totalitario, che mirano a imporre, anche all’interno delle grandi tradizioni religiose, la violenza terroristica”.
Una questione politica e giuridica
Quindi, si tocca il cuore del problema: La “progressiva sottrazione postmoderna all’impegno sulla verità e sulla trascendenza, pone certamente in termini nuovi anche il tema politico e giuridico della libertà religiosa. D’altra parte, le teorie dello stato liberale che lo pensano come radicalmente indipendente dall’apporto dell’argomentazione e della testimonianza della cultura religiosa, devono concepirlo come più vulnerabile alla pressione delle forme di religiosità – o di pseudoreligiosità – che cercano di affermarsi nello spazio pubblico al di fuori delle regole di un rispettoso dialogo culturale e di un civile confronto democratico. La tutela della libertà religiosa e della pace sociale presuppone uno stato che non solo sviluppa logiche di cooperazione reciproca fra le comunità religiose e la società civile, ma si mostra capace di attivare la circolazione di una cultura adeguata della religione. La cultura civile deve superare il pregiudizio di una visione puramente emozionale o ideologica della religione” e “la religione, a sua volta, deve essere incessantemente stimolata a elaborare in un linguaggio umanisticamente comprensibile la visione della realtà e della convivenza che la ispirano”.
La neutralità valoriale
Sulla neutralità il documento si dilunga parecchio, sottolineando che “l’ossessione di una perfetta neutralità valoriale – che sconfina nell’agnosticismo – a riguardo della visione religiosa del senso, inclina inevitabilmente la legalità istituzionale a prendere distanza dall’intero universo simbolico della comunità civile, ossia, della cultura propriamente umana. Ogni comunità religiosa attinge a questo grembo simbolico e si esprime attraverso la sua chiarificazione e interpretazione. L’indifferenza dello stato lo rende progressivamente estraneo alle funzioni simboliche di cui vive l’appartenenza sociale, diventando sempre più incapace di comprenderle, e quindi di rispettarle, come dichiara di voler fare”. La chiesa, a essere confinata nello spazio privato, non ci pensa neppure. Essa, si legge nel testo, “respinge la sua identificazione come soggetto di un interesse privato che compete per affermare i suoi privilegi. La missione della chiesa è l’evangelizzazione, che annuncia la giustizia dell’amore universale di Dio e non si lascia ridurre a un interesse politico di parte”. La “rilevanza pubblica di questa mediazione si riferisce all’interesse per il bene comune e alla sollecitazione di un umanesimo politico”. La chiesa “contribuisce al corretto inquadramento della libertà religiosa nella sfera pubblica. L’istanza della libertà in cui la chiesa si iscrive idealmente prende distanza dal modello di un multiculturalismo gnostico, che accetta la pura autoreferenzialità delle corporazioni”.
Un’imitazione laicista
E’ rilevante poi quanto si dice a proposito delle diverse interpretazioni della neutralità dello stato. Questa può essere intesa come una teoria che garantisce un esercizio delle libertà politiche che non implica il riferimento vincolante a una nozione trascendente del bene. “In quest’ultima accezione, il liberalismo politico appare strettamente associato a limitazioni della libertà che riguardano la parola, il pensiero, la coscienza, la religione. La neutralità della sfera pubblica, infatti, non si limita in questo caso a garantire l’uguaglianza delle persone di fronte alla legge, ma impone l’esclusione di un determinato ordine di preferenze, che associano la responsabilità morale e l’argomentazione etica ad una visione antropologica e sociale del bene comune. Lo stato tende ad assumere, in tal caso, la forma di una “imitazione laicista” della concezione teocratica della religione, che decide l’ortodossia e l’eresia della libertà in nome di una visione politico-salvifica della società ideale: decidendo a priori la sua identità perfettamente razionale, perfettamente civile, perfettamente umana. L’assolutismo e il relativismo di questa moralità liberale confliggono, qui, con effetti di esclusione illiberale nella sfera pubblica, all’interno della pretesa neutralità liberale dello stato”. Insomma, “la presunta neutralità ideologica dello stato liberale, che esclude selettivamente la libertà di una trasparente testimonianza della comunità religiosa nella sfera pubblica, apre un varco per la finta trascendenza di un’occulta ideologia del potere”. Per i cristiani, il problema si pone quando essi stessi sono “indotti a concepirsi come membri di una società neutrale che, nei princìpi e nei fatti, non lo è”. Quando però i cristiani accettano la “biforcazione del loro essere in una esteriorità governata dallo stato e una interiorità governata dalla chiesa, essi, di fatto, hanno già rinunciato alla loro libertà di coscienza e di espressione religiosa. In nome del pluralismo della società i cristiani non possono favorire soluzioni che compromettano la tutela di esigenze etiche fondamentali per il bene comune”.
Una cultura civile che rimuove la componente religiosa dell’umano “si trova costretta a rimuovere anche parti decisive della propria storia”
“L’istanza della libertà in cui la chiesa si iscrive idealmente prende distanza dal modello di un multiculturalismo gnostico”