Il Papa e il dogma della libera coscienza
Le accuse di eresia a Francesco dei difensori, non sessuomani, della tradizione. Illuminate dal problema Pascal (la casuistica gesuita) e dal problema Tolstoi (il divorzio alla leggera). Non basta il silenzio o un tuìt per sistemare la dottrina
Eresia eresia, per piccina che tu sia. Seconda puntata. Nella prima di giovedì scorso fu stabilito che chi accusa il Papa come eretico non necessariamente è un sessuofobo bizzarro, ossessivo, più probabilmente è un normale cattolico, e ciò vale anche se si giudichi insufficiente la materia probatoria dell’accusa, che riguarda il tema luterano della grazia e delle opere prima che il sesso. La faccenda sesso & chiesa cattolica sarebbe poi in sé molto semplice, almeno in materia di definizione catechistica e dogmatica, sui due livelli della teologia morale e della dottrina della fede. Come si comporti il clero o l’insieme dei fedeli, o ciascuno di essi individualmente, non è in questione: la chiesa è santa, ma è composta di peccatori, è teandrica, è la casa di Dio fondata dall’Unto del Signore, è il suo corpo mistico, ed è contemporaneamente una casa abitata da uomini e donne, soggetti al peccato. La vera questione è quel che la chiesa predica, afferma, codifica, a partire dal Vangelo e in tutta la sua tradizione. Sappiamo di che si tratta, in materia di sesso e famiglia. Si scopa nel matrimonio, il piacere unitivo si intreccia con la vocazione procreativa. Il matrimonio è per sempre, finché morte non sopraggiunga, e si realizza tra maschio e femmina. L’omosessualità è un disordine. Quanto all’adultera, Cristo non la condanna alla lapidazione per mano di altri peccatori, esotericamente argomenta il suo condono con ghirigori sulla sabbia, e conclude però: va’ e non peccare più. Punto.
Infine arrivò l’Amoris laetitia, tre anni fa, con il capitolo VIII, con i paragrafi tale e tal altro. Questo documento è firmato dal Papa regnante, Francesco, è meno di un’enciclica, è un’esortazione apostolica che chiude due sinodi sulla famiglia, il matrimonio, il sesso, in cui i vescovi si sono divisi. Siamo fuori dalle condizioni d’esercizio di un magistero infallibile, è magistero semplice, roba forte, impegnativa, ma non definitiva. Il succo dei passaggi del documento papale incriminati per eresia è il seguente, riassunto e semplificato. Il fedele che divorzia civilmente e civilmente si risposa, e scopa nel nuovo matrimonio contratto mentre il coniuge precedente è in vita, fa qualcosa di non aderente all’ideale morale della chiesa, ma può ben farlo per tanti motivi e in tante condizioni di fatto che il pastore deve discernere, distinguere, e comprendere, prima di escludere il fedele dalla comunione con la sua chiesa negandogli l’ostia o il pane eucaristico.
La lettera antiereticale del domenicano Nichols e degli altri teologi, filosofi, storici e canonisti, che fanno appello ai vescovi al fine di stroncare l’eresia o deporre chi la pratica dalla funzione petrina, riporta con puntiglio maniacale, e precisione chirurgica, i brani dell’Amoris laetitia che negano la base della dottrina cattolica e della tradizione in fatto di matrimonio sesso e famiglia. In essi si afferma che i coniugi adulterini possono non conoscere o riconoscere appieno i termini della legge morale, il cui esercizio è sottoposto alla gradualità nella crescita della coscienza fedele, oppure possono deliberatamente considerare il peccato di adulterio come un mezzo necessario per non incorrere in altri, ulteriori, peccati, come il trascurare per esempio l’educazione integrale di figli nell’ambito dell’unione rassicurante di due intimità.
Perché la coscienza può fare di più che non riconoscere l’inadeguatezza agli ideali del Vangelo di una data situazione, può sinceramente e onestamente accertare, con una certa sicurezza morale, che cosa Dio stesso chiede al fedele, tenuto conto della sua concreta situazione e dei suoi limiti, che non corrispondono a un modello retto di comportamento. Anche san Tommaso diceva che i princìpi generali sono necessari, ma nell’azione, nel dettaglio della prassi, la verità o la rettitudine etica non è la stessa per tutti e può non essere conosciuta da tutti allo stesso modo. Dunque il divorzio non è ammesso dalla chiesa, e l’adulterio è peccato, nondimanco, come direbbe Machiavelli, il divorziato che vive in una condizione adulterina può essere recettore della santa comunione, amministrata con discernimento dal suo pastore, magari in separata sede, senza dare scandalo, come suggerisce un’istruzione argentina che il Papa ha approvato come interpretazione vera della sua esortazione. Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione, diceva il politologo celebre Carl Schmitt. Il sovrano Pontefice ha stabilito un’eccezione sistematica, con la sua casistica a manica larga, e ne decide, pensando che questa scelta pastorale non incide su tradizione e dottrina evangelica, la tradizione essendo viva ed evolutiva e non codice pietrificato, e il Vangelo essendo sine glossa, insomma letto e praticato nel suo spirito originario.
Due problemi. Il primo lo chiameremo il problema Pascal, dal nome del “libero pensatore” cristiano, genio scientifico e teologico, che crudelmente sbeffeggiò i gesuiti del suo tempo, il Seicento, per la loro abilità, per il loro virtuosismo casuistico (i nondimanco, le eccezioni, che il direttore di coscienza poteva autorizzare fuori dei confini della morale).
I gesuiti più avveduti, non i giansenisti o quel che ne resti, quando fu eletto Papa Bergoglio, anticiparono che il nuovo Pontefice uscito dalle loro file avrebbe rivoluzionato la pastorale della chiesa, e i più sottili, di questa schiatta che è un’élite di non trascurabile sottigliezza, aggiunsero che una rivoluzione pastorale alla fine necessariamente implica cambiamenti dottrinali. Il che è precisamente quello che gli accusatori del Papa come eretico rimproverano al suo documento, e alla sua prassi (ma questo è ancora un altro discorso): tu cambi la dottrina e la fai uscire dal perimetro della tradizione cattolica, e del suo deposito di fede, dunque sei un eretico.
Il secondo problema lo chiameremo il problema Tolstoi, dal nome del romanziere russo e conte che in “Guerra e pace” crudelmente ironizza su circostanze, analoghe a tante circostanze concrete menzionate nell’Amoris laetitia, nella Pietroburgo dei primi dell’Ottocento, teatro delle gesta mondane della bella Hélène Kuragina in Bezuchov, insomma la contessa Bezuchova, la moglie di Pierre, corpulento tra gli eroi romantici dell’epica tolstoiana, metafisicamente impacciato e malmaritato. Hélène era bellissima, regina dei salotti e molto puttana. Mentre il marito vagava per i dintorni di Borodino, dove infuriava la battaglia prima della ritirata di Kutusov e dell’abbandono di Mosca ai francesi di Napoleone e al fuoco, lei decise per il divorzio allo scopo di sposare, secondo i consigli di Bilibin, un diplomatico raffinato e cinico, prima un vecchio conte della corte che la bramava e poi, una volta vedova, un giovane principe di belle speranze, che trovava seducente. Tolstoi tratta tutta la stramba affaire, sposare altri con il marito in vita, e per di più doversi mondanamente decidere tra due diversi spasimanti, con ironia caustica. Interviene M. de Jobert, un gesuita à robe courte, direttore spirituale “dai capelli bianchi come la neve e dagli scintillanti occhi neri” (la magnifica traduzione è di Emanuela Guercetti), che la introduce alla vera fede (in chiesa lei “sentì qualcosa come un soffio di vento fresco che le scendeva nell’anima. Le spiegarono che era la grâce”). Poi arriva un abate à robe longue, uno “ben pasciuto, con la faccia grassoccia perfettamente rasata”, il quale le spiega, solita storia, che il suo matrimonio violato è un peccato veniale, per il solito motivo di essere stato compiuto senza cattiva intenzione, e conclude: “Se adesso, allo scopo di avere figli, contraeste un nuovo matrimonio, il vostro peccato potrebbe essere perdonato”. Il direttore di coscienza, dicendo questo, era “tutto preso dal virtuosismo della propria argomentazione”, e sullo sfondo agivano terrene aspirazioni degli ordini consacrati al patrimonio della contessa. Tolstoi si diverte alle spalle di Hélène, che a uno dei due corteggiatori dice: “Sachez, Monseigneur, per tutto quello che concerne i miei sentimenti intimi, io non rendo conto che a Dio e alla mia coscienza”. E commenta sulfureo: “Così come lo intendeva lei, il significato di qualsiasi religione consisteva solo nel permettere di soddisfare i desideri umani salvando determinate convenienze”. E sorridendo amarognolo aggiunge: “C’erano in realtà alcune persone retrive che non sapevano sollevarsi all’altezza della questione e vedevano in questo proposito una profanazione del sacramento del matrimonio; ma erano poche, e tacevano…”. Niente di nuovo sotto il sole. I gesuiti e gli abati di cento anni fa non erano così diversi dal clero governante di oggi. E la religiosità desiderante non è cambiata di un’acca.
Brusca conclusione. Il documento d’accusa al Papa per eresia finirà in qualche archivio, senza conseguenze rilevanti, c’è da scommetterlo. La contraddizione sarà semplicemente cancellata. Ma per superarla con dignità e significato, non basta il silenzio, l’informazione amica o un tuìt. Visto che i conflitti morali e dottrinali sulla casuistica dei gesuiti durano da quattro secoli e si intrecciano con le questioni poste dal monaco sassone, il Papa venuto dalle file dei Reverendi Padri della Compagnia dovrebbe per linearità definire ex cathedra un nuovo dogma sul primato della coscienza nell’etica cristiana e cattolica: c’è la discrezione relativistica del Dottore Angelico, c’è il brindisi del cardinale Newman, c’è il Concilio Vaticano II. Un passo ancora, Santità, e anche le accuse di eresia diventeranno solo un brusio, un fastidio.
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