Viva la disobbedienza dell'elemosiniere del Papa: qualcuno deve pur fare qualcosa
Il distacco dei sigilli dell’Acea al palazzo occupato di via di Santa Croce in Gerusalemme va oltre l’elemosina, non è pauperista, è finalmente un gesto politico
Abbiamo vissuto per anni di Antigone, sublime tragico conflitto cerebrale fra coscienza e legge, e siamo finiti felicemente in un tombino romano dalle parti di Porta maggiore, dove un cardinale polacco mandato da un Papa argentino si cala a celebrare illegalità e disobbedienza, le due più straordinarie virtù, in forma di vizio, della città di Roma, sopra e sotto. Il distacco dei sigilli dell’Acea per dare luce a donne uomini e bambini poveri di un palazzo occupato è un gesto apocalittico, rivelatore, va oltre l’elemosina, e non c’entra con le bollette non pagate. Dai sotterranei del Vaticano esce un principe della chiesa che si immerge nel ventre di Roma. E finalmente il gesto non è pauperista, ecologico, sostenibile, ideologico, banale: finalmente è politico, parla con quella lingua di fuoco che sola può provocare e battere il potere dei demagoghi contemporanei, e benedicente li maledice. Il porporato ha le mani e la tecnica per usarle, sa come si fa a rimettere in circolo l’energia, sfida la legge contabile del dare e dell’avere e discende agli inferi per guadagnare un pezzo di paradiso illuminato a cento bambini e a quattrocento adulti. Subito, anche se gli uffici municipali sono chiusi, anche in mancanza di autorizzazioni, anche se polizia e funzionari della compagnia delle luci cercheranno di ripristinare il buio, di risuggellare il contatore. Ma intanto le trombe hanno suonato, le acque sono diventate amaro assenzio, il mondo del buonsenso proprietario finisce e il regno del vero senso comune è arrivato.
Lo speleologo della carità, con quella faccia non già da chiacchierone bonario ma da invasato, da fanatico del soccorso, si è detto con Goethe, mentre si calava: “Lasciate pure parlare la fantasia con tutto il suo corteo: ragione, intelletto, sentimento, passione. Ma tenetevelo per detto: non senza un briciolo di follia!”. Sono istruzioni del prologo in teatro, all’inizio del Faust. E cominciano a pullulare in Italia coloro che le hanno capite, queste istruzioni, quando fanno scattare i selfie assassini con il Truce, quando eccitano pompieri e polizia all’inaudito di arrampicarsi a togliere gli striscioni di malvenuto, quando cercano di baciarlo a tradimento sotto l’occhio della camera popolare, e lo disgustano, il bacionico a chiacchiere. In tempi di occhi elettronici e di social, lezioni immortali di scena si rifanno vive, vive, vive: “E soprattutto che non manchi l’azione. La gente viene per vedere, e quel che ama di più, è vedere. Se farete passare molta roba davanti agli occhi in modo che il grosso pubblico possa ammirare a bocca aperta, avrete subito guadagnato fama e partita, e sarete diventato un idolo. La folla si può soggiogare soltanto con la folla”.
La folla è difficile da contentare, si dice in altro luogo faustiano, ma la si può confondere. Per risvegliarla, le opposizioni hanno bisogno di teatro, di azione, di gesto e di follia, devono arrivare dove la follia triste ha messo radici e convertirla in mania benefica, in ragione senziente, in sentimento razionale e autenticamente popolare. I russi nel 1812 non rispettarono la legge di guerra, non consegnarono la resa in delegazione all’Empereur, preferirono abbandonare la città di Mosca e guardarla fra i bagliori dell’incendio, e così vinsero la guerra patriottica. Un paese ricco non si può permettere il blackout dei poveri e la moltiplicazione degli umiliati e offesi, qualcuno deve fare qualcosa a occhi aperti e porti chiusi, e subito, e quel calarsi, quel naufragio illegale, risulterà dolce in questo mare: niente di più apocalittico, di più semplice, di più definitivo.