La chiesa italiana sconfitta dal rosario di Salvini è davanti al bivio
Il problema che si pone adesso in casa Cei non è di poco conto: rifare i Patti lateranensi o andare alla guerra totale?
Roma. Tra l’interventismo della stagione ruiniana e il tranquillo ripiegamento dei tempi correnti, il rischio che corre la Cei è quello dell’irrilevanza. Un bel paradosso, per la potente assemblea degli oltre duecento vescovi ordinari che per trent’anni è stata protagonista del dibattito politico nazionale. Un’irrilevanza che le urne di domenica scorsa hanno fatto intravedere, tra i milioni di schede pro Salvini con entusiasmo inserite nello scatolone anche in terre moderate già feudo incrollabile della Democrazia cristiana. E per di più un trionfo concretizzatosi solo pochi giorni dopo l’appello dei vescovi a votare contro i sovranismi e i populismi. I giornali, con logica deduzione, avevano non a caso scritto che Gualtiero Bassetti invitava a votare tutti ma non Salvini, beccandosi una rettifica dello stesso leader della Cei, che spiegava di non aver mai detto ciò. Si era limitato, il successore di Angelo Bagnasco, a dire che “il problema non è innanzitutto l’Europa, bensì l’Italia, nella nostra fatica a vivere la nazione come comunità politica”. E, cosa più importante, “non si vive di soli ricordi, di richiami a tradizioni e simboli religiosi o di forme di comportamento esteriori”.
Il risultato è stato l’opposto: uscite da messa, le signore dei primi banchi si recavano al seggio e prima di entrare col dito scorrevano gli elenchi dei candidati della Lega appesi nei corridoi delle scuole. Niente da fare, neanche Famiglia Cristiana con i suoi “Vade retro Salvini” nulla ha potuto. E neppure i fischi della piazza di Milano al Papa sono riusciti a innestare una reazione indignata da parte dell’elettorato cattolico meno sensibile alla dialettica del noi contro loro tanto cara al ministro dell’Interno. Tra Salvini e il Papa, ha vinto Salvini con i suoi baci al rosario e l’affidamento dell’Italia al cuore immacolato di Maria.
Il problema che si pone adesso in casa Cei non è di poco conto: conviene scendere a patti con il nemico che tutto sbanca, cercando un compromesso che porti all’abbandono della retorica molto sociale che sta segnando la politica episcopale italiana di questi ultimi anni, o è necessario andare allo scontro? Entrambe le opzioni hanno dei pro e dei contro, naturalmente. L’unica cosa inopportuna, e di sicuro poco gradita al Papa che dell’Italia è primate, è scegliere di restare in mezzo al guado, attendendo che la buriana passi citando un po’ Sturzo e un po’ La Pira, sognando una rinascita cattolica dal basso, dando ogni tanto qualche monito ai governanti di turno sui migranti da accogliere e sui poveri da sfamare. Con metà dei vescovi pronti alla guerra contro il salvinismo dei porti chiusi e dei vangeli branditi come arma e l’altra metà a pensare che tutto sommato sia meglio un politico che parla della Madonna anziché di uno che firma leggi sulle unioni civili.
La Cei è stretta fra i desiderata papali di indire un grande Sinodo per l’Italia che archivi per sempre la svolta di Loreto del 1985 che inaugurò l’epopea ruiniana e chi viceversa vorrebbe tornare a quel protagonismo al quale guarda con nostalgia. Si capisce allora che anche solo immaginare una strada per uscire dal cul de sac con una riedizione dei Patti lateranensi che attestino il riconoscimento reciproco fra trono e chiesa, oggi Salvini e Bergoglio, è un’impresa ardua. Un vescovo, la scorsa settimana, invitava i confratelli a domandarsi perché Salvini avesse così successo, arrivando là dove neanche Silvio Berlusconi prima di lui era riuscito, portando la Lega a percentuali mai raggiunte neppure da Forza Italia al culmine della sua esperienza politica. Un po’ forse c’entra anche l’appello al Cielo – non nel senso di John Locke – con la riabilitazione politica di Dio nel dibattito politico. Berlusconi cavalcò a suo tempo l’onda, con i rosari di Mamma Rosa, il “nostro patrimonio cristiano”, e via discorrendo. Ma mai nessuno aveva usato la fede per appellarsi al popolo, per chiamarlo alle urne a difendere valori e princìpi minacciati.
Che poi l’abbia fatto pro domo sua, per mere strategie, cambia poco. E non sono pochi coloro che davanti al Dio invocato, al Dio e a Maria Vergine entrati nel dibattito quotidiano, si sono lasciati andare alla constatazione che finalmente qualcuno torna a nominarli. Non è convinto della tesi Sergio Belardinelli, secondo il quale “premesso che in queste ultime elezioni europee Matteo Salvini ha saputo guadagnarsi senz’altro una buona fetta del voto cattolico, non credo che gli abbiano giovato in proposito i suoi ripetuti riferimenti a Dio, alla Madonna e ai rosari durante la campagna elettorale. Almeno lo spero”, dice. “Non credo che l’elettorato cattolico sia stato conquistato dal fatto che egli abbia affidato al cuore immacolato di Maria l’esito della campagna elettorale. Né credo che Salvini si sia appellato a Dio come fanno ad esempio gli uomini politici americani”.
Sia ben chiaro – aggiunge – “non sto negando che esistano alcune frange del mondo cattolico che sentono ancora il fascino di una politica fatta nel nome di Dio. Si tratta però di frange marginali che non sono certo in grado di determinare l’esito di una competizione elettorale. Sono inoltre convinto che gli appelli di Salvini a Dio e alla Madonna abbiano suscitato più fastidio che entusiasmo anche tra i cattolici che alla fine hanno deciso di votarlo. Se dunque il partito della Lega fa breccia nel cosiddetto voto cattolico deve essere per qualche altra ragione”. Capire quali è difficile, anche se Belardinelli è convinto “che c’entrino poco i rosari e la Madonna e molto invece la capacità di Salvini di individuare alcuni problemi molto sentiti da larghe fasce di popolazione, occultandone la complessità e offrendo nel contempo soluzioni semplici secondo la più collaudata delle logiche populiste. Non credo che le sue ricette funzioneranno, ma di certo bisogna riconoscergli il merito di aver guardato dove tutti gli altri, soprattutto la sinistra italiana, per troppi anni si sono rifiutati di guardare. Penso al disagio prodotto nelle periferie delle nostre città da un’immigrazione fuori controllo, e penso al profondo spaesamento culturale indotto da questo disagio, senza che nessuno dimostrasse di rendersene conto. Diceva Chistopher Lasch che lo sradicamento sradica tutto salvo che il bisogno di radici. Salvini e altri leader politici come lui in tutta Europa hanno capito che battere su questi temi sarebbe stato politicamente redditizio, a prescindere dalla loro capacità di comprenderne la portata. Molti cattolici li hanno votati per questo. Se c’entrassero Dio, la Madonna e i rosari vorrebbe dire che tutto sarebbe ancora più complicato”.
Massimo Introvigne, sociologo e direttore del Centro Studi Nuove Religioni, parte dall’editoriale di Bret Stephens sul New York Times del 24 maggio scorso, “Come Trump vincerà l’anno prossimo”. “Stephens, che è un oppositore di Trump, commenta le vittorie di Modi in India e di Scott Morrison in Australia e cita anche Salvini e Bolsonaro, che ha appena partecipato a una consacrazione del Brasile al cuore immacolato di Maria da parte di vescovi conservatori, e questo benché sulla sua elezione abbia pesato l’appoggio degli evangelici, uno dei cui leader si è reso noto per avere preso a calci in televisione una statua della Madonna. In questo editoriale – dice Introvigne – ci sono due aspetti importanti. Il primo è che le due priorità delle sinistre di tutto il mondo sono il clima e l’accoglienza dei rifugiati e degli immigrati (due categorie, rifugiati e immigrati, e il commento è mio non di Stephens, che peraltro dovremmo imparare a tenere sempre distinte). E che queste non sono priorità per la maggioranza degli elettori, cui anzi danno l’itterizia – lo sono solo per l’elettorato urbano, agiato e laureato dei centri delle grandi città (dove infatti Trump e Salvini perdono), che però sono sotto assedio da parte dei contadi e delle periferie. Il secondo è che i Trump e i Salvini vincono in un mondo che ha paura con una retorica di ‘noi contro loro’, dove nel ‘noi’ c’è anche il forte riferimento alle religioni di maggioranza, non importa se reale (come nel caso di Modi) o un po’ posticcio, come per Trump e Salvini. Un aspetto che il New York Times non tratta in quell’editoriale, e che invece va trattato per Salvini è che il leader mondiale della narrativa per cui le priorità sono clima e accoglienza non è un politico, ma un leader religioso che sta a Santa Marta. Direi che è anche l’unico leader credibile, che presenta questi temi in modo non caricaturale (come invece fanno certi democratici americani) e che li bilancia con interventi duri su temi etici come l’aborto e, ça va sans dire, riferimenti religiosi. Ma resta che per Papa Francesco accoglienza e clima sono priorità più urgenti delle guerre culturali su vita e famiglia e che, essendo lettore molto attento di cronache e sondaggi, sa benissimo che su questo l’opinione pubblica cattolica in maggioranza non è d’accordo con lui”.
Il fatto è che, prosegue Introvigne, “la maggioranza dei cattolici elettori rimane più interessata ai temi etici della vita e della famiglia e li considera prioritari rispetto all’ambiente o ai rifugiati-più-immigrati – temi, questi ultimi, su cui invece magari anzi si sente più vicina a Salvini che al Papa. Questo vuoto è astutamente occupato dai Salvini e Bolsonaro”. Secondo il sociologo, “l’errore delle élite urbane è quello di disprezzare le periferie e i politici che, rappresentandole, vincono come semplici barbari e buzzurri. Mentre chi non si fa carico delle preoccupazioni delle periferie è destinato a continuare a perdere. Qui c’è una sfida anche per la chiesa di Papa Francesco. Che non cambierà la sua agenda e le sue priorità per qualche risultato elettorale”.
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