Alla gogna in Australia non c'è solo il cardinale George Pell, ma l'intera chiesa
Il collarino bianco e le manette ai polsi. Il senso della partita che si sta giocando dall’altra parte del mondo contro il cardinale accusato di abusi
Roma. George Pell è entrato in tribunale con il collarino ecclesiastico in bella mostra. E’ su questo particolare che i media australiani, da tempo impegnati a volteggiare sul corpaccione del cardinale già arcivescovo di Sydney e prefetto vaticano per l’Economia, hanno indugiato nelle cronache di questi due giorni. Non sul fatto che è entrato con le manette ai polsi, trofeo offerto a videocamere e macchine fotografiche che non s’aspettavano tanta grazia. Pazienza per i ceppi, l’importante era segnalare e rimarcare che Pell era entrato in tribunale vestito da prete, con il collarino. E’ tutto qui il senso della partita che si sta giocando dall’altra parte del mondo: sul banco non c’è tanto il cardinale, ma la chiesa, e lo si è visto lo scorso febbraio a Roma, con i sit-in dei manifestanti contro i preti pedofili che urlavano slogan contro il Papa che aveva appena chiuso un summit penitenziale dedicato proprio agli abusi su minori nella chiesa.
Di Pell s’è detto tutto: un testimone contro, venti a favore. Una prima giuria chiamata a far luce sul caso fu sciolta perché incapace di stabilire se le accuse contro il cardinale fossero vere o false. Troppo contorto il caso, troppo inverosimili le “prove” a carico, troppi anni trascorsi dai fatti o presunti tali. La seconda giuria popolare, mentre la grancassa mediatica si dava da fare recuperando dagli archivi vecchie accuse e mettendo intanto alla gogna altri presuli che nel frattempo si dimettevano – salvo poi essere prosciolti, come il vescovo di Adelaide, che per l’umiliazione e la rabbia generale si era intanto ritirato a vita privata – non aveva dubbi e all’unanimità dichiarava colpevole il cardinale. Sei anni e mezzo di galera, detenzione obbligatoria anche nell’attesa dell’appello. Sia mai che possa reiterare, il settantottenne cardinale.
Adesso, davanti ai tre giudici d’appello si è dibattuto il ricorso: due giorni soltanto che hanno minato le solide certezze dell’impianto accusatorio, con il pubblico ministero Chris Boyce che è riuscito anche a commettere la gaffe che mai avrebbe dovuto commettere, e cioè pronunciare nome e cognome dell’accusatore di Pell, che per la legge locale avrebbe dovuto restare anonimo. Segno della confusione e della delicatezza del caso, con il pm che si è più volte scusato con i tre togati per non riuscire bene a spiegare come sono andate, secondo lui, le cose. In particolare, Boyce non ha saputo rispondere alla più ovvia e naturale delle domande, e cioè perché mai il potentissimo arcivescovo (all’epoca era alla guida della diocesi di Melbourne) avrebbe dovuto abusare di due coristi in sacrestia, con la porta aperta e con i paramenti ancora addosso, con la folla che gli passava davanti?
E poi, altra domanda troppo tosta per Boyce: se Pell stava stuprando due ragazzini in sacrestia, come ha potuto salutare nello stesso momento i fedeli che uscivano dalla cattedrale, fatto – questo sì – confermato da più di un testimone? La risposta la daranno i tre giudici, che decideranno il destino del cardinale, da marzo in carcere dopo il verdetto di primo grado. Chiudendo l’udienza, giovedì, non hanno dato alcuna data circa la pubblicazione del verdetto, anche se i giornali australiani parlano di un’attesa che durerà “diversi giorni”, forse “diverse settimane”. E’ un caso che va ben al di là degli angusti confini della Corte suprema dello stato di Victoria. A Roma, oltretevere, si attende di sapere che ne sarà di Pell, non solo per decidere quando avviare l’inchiesta vaticana sulle accuse – in caso di condanna è scontata la replica della sanzione-McCarrick, via la porpora, punizioni varie, divieto di celebrare, e così via – ma anche per sapere da che situazione potrà partire la complicata operazione di pulizia voluta dal Papa.