Papa Francesco e la politica
Dove è finito l’occidente? Tre ragioni per spiegare l’irrilevanza dei cattolici nella vita pubblica
Al direttore - Condivido lo scetticismo di Giuliano Ferrara circa una ripresa di protagonismo del cattolicesimo politico. Ma non ne imputerei la responsabilità a Papa Francesco. Semmai a ragioni, diciamo così, laiche, connesse alle attuali coordinate storico-politiche e alla minorità sociale (qualitativa e quantitativa) del popolo cattolico. A dispetto di certe illusioni e velleità, la secolarizzazione non ha invertito la rotta. La indubbia rilevanza della religione nella sfera pubblica si manifesta semmai come oggetto maneggiato più o meno strumentalmente da altri. Di sicuro non è riconducibile al protagonismo della minoranza cattolica militante politicamente più sensibile e impegnata.
C’è tuttavia una parte di verità nella osservazione di Ferrara. Anzi tre. Primo: il registro della testimonianza prima ancora che del magistero di Papa Francesco è quello della profezia, che, nella “divisione del lavoro” interna alla Chiesa, affida piuttosto ai laici cristiani tutta intera la responsabilità della mediazione politica. Che però Egli non deprezza affatto: quante volte Francesco ha incoraggiato i cattolici a fare politica! Secondo e di conseguenza: il registro della profezia privilegiato dal Papa, come osservavo, non misconosce l’esigenza della mediazione politica, ma, questo sì, mette l’accento sulla radicalità evangelica. Essa, è innegabile, sfida la politica a non contentarsi di mediocri compromessi e di mezze misure, rappresenta un pungolo utile a trascenderne i limiti, ma non va confusa con l’estremismo politico-ideologico. Nello specifico di Francesco, la sua “teologia del popolo” non coincide con la teologia della liberazione (più ideologico-politica), con la quale ebbe pure qualche remota relazione, ma semmai riflette l’idea di una teologia, di una Chiesa (e di una politica) elaborate dentro e con il popolo. Terzo: l’elemento profetico altresì accentua il carattere universalistico della parola e del messaggio del Papa. Cioè la convinzione che il cristianesimo aspira sì a fermentare le civiltà e le culture umane, ma anche a trascenderle tutte. A non farsi sequestrare da nessuna. Compresa quella dell’occidente, cui pure la unisce un profondo legame storico. Ma – come negarlo? – anche una vistosa distanza critica. Ovvio che a questo distanziamento/alterità concorrano la biografia e la cultura di un Papa che viene da lontano. In una visione universalistica della Chiesa e della sua missione, tale deoccidentalizzazione può rappresentare una preziosa risorsa.
Infine, un cenno al rapporto di Francesco con Paolo VI.
Diversi, certo. Montini fu Papa italiano per eccellenza e, per tradizione familiare e per cultura, legato al cattolicesimo politico. Educatore della classe dirigente cattolica del dopoguerra, alto garante ecclesiastico della Dc da Gasperi a Moro. E tuttavia più e più volte Francesco ha pubblicamente dichiarato il suo debito verso Montini. Ripeto: diversissimi sul piano personale, caratteriale, biografico e tuttavia, a dispetto delle apparenze, affini nella sostanza della visione teologica ed ecclesiale: nell’universalismo, nel rapporto tra il cristianesimo e le culture, nella scommessa sul protagonismo dei laici cristiani. Di Montini basterebbe rammentare il Concilio (ove la centralità del laicato è senza precedenti nella storia della Chiesa) del quale fu saggio timoniere, la “Populorum Progressio” (sulle disuguaglianze nel mondo) e la “Evangeli nuntiandi” (sul rapporto dialettico tra fede e culture). A dire che, ferma restando la ovvia differenza nel concreto rapporto con il cattolicesimo politico italiano, intimo per Montini, ignoto a Bergoglio, di per sé la circostanza non inibirebbe in punto di principio un fecondo rapporto tra magistero papale e azione politica in Italia.
Insomma, a mio modesto avviso, problemi ve ne sono, ma il problema per il cattolicesimo politico non è Francesco.