In guerra contro Giovanni Paolo II
La riforma dell’Istituto voluto da Giovanni Paolo II per difendere Humanae vitae dall’assalto dello spirito del tempo nasconde una battaglia più furente. Quella per il destino della chiesa
Roma. “Siamo alla resa dei conti”, ha scritto George Weigel, che ben conosceva Giovanni Paolo II, commentando quando sta accadendo attorno al destino dell’Istituto creato da Karol Wojtyla per favorire un “rinascimento della teologia morale cattolica” dopo gli scontri e il disorientamento seguiti alle dispute conciliari. Il palcoscenico è occupato dall’attivismo del Gran Cancelliere Vincenzo Paglia, dai seicento e più studenti ed ex studenti che hanno spedito a lui e al preside, mons. Pierangelo Sequeri, una lettera in cui parlano di “profondo sgomento” per gli sviluppi della vicenda, dai professori epurati tramite messaggio di posta elettronica fino alla rivisitazione dei piani di studio che non prevedono più lo studio dell’insegnamento giovanpaolino. La storia è ormai nota, anche se ben pochi, in Italia, ne hanno dato conto: sarà la vicinanza con i palazzi d’oltretevere, chi lo sa. E chi ne ha parlato, salvo rare eccezioni, ha ridotto la vicenda a ennesimo capitolo (o paragrafo) della guerra dei soliti antibergogliani un po’ nostalgici dei tempi che furono, incapaci di farsi accarezzare dal vento dello Spirito che impetuoso entra dalle finestre.
“Una chiesa con poca attenzione alla dottrina non è una chiesa più pastorale. E’ solo più ignorante”, disse Carlo Caffarra
Ma è dietro le quinte che si nascondono le ragioni di questo redde rationem annunciato da tempo e giunto a compimento ora. L’assalto è all’eredità di Giovanni Paolo II, che fin dal principio del suo pontificato – sono sempre parole di Weigel – puntò a “favorire il rinnovamento della teologia cattolica secondo i princìpi del Vaticano II e non secondo quelli di Kant, Hegel, Feuerbach e Marx”. Sapeva bene che il mondo teologico era spaccato, che le facoltà universitarie erano diventate il terreno di una contesa furiosa tra i seguaci dello Zeitgeist e della “modernità intellettuale” e quanti volevano sì un aggiornamento ma ben radicato nella tradizione. Si convinse di aver vinto la battaglia premiando e valorizzando quei centri di studio – facoltà e atenei – che non cedevano allo spirito del tempo, declinandolo in teorie e filoni di pensiero che già avevano allarmato e turbato Paolo VI alla fine del suo cammino terreno. L’Istituto fondato nel 1982 e affidato al professor Carlo Caffarra rappresentava la punta di diamante di tale progetto, la risposta più efficace e visibile a quanti puntavano ancora ad archiviare Humanae vitae, l’enciclica che contro Montini sollevò la ribellione – altro che rivolte odierne bollate subito dal mainstream clerical-mediatico come il solito “attacco dei settori tradizionalisti contro Papa Francesco” – di intere schiere di episcopati, espliciti nell’annunciare il rifiuto di leggere e applicare il testo di Paolo VI. Wojtyla, che in principio presiedeva personalmente i consigli d’istituto, era persuaso che dopo i marosi seguiti alla promulgazione di quella che fu l’ultima enciclica montiniana a essere in crisi era sì la morale sessuale, ma ancora di più i fondamenti dell’antropologia cattolica. Serviva dunque ribadirli, incoraggiarli e promuoverli.
Ma le spade erano solo riposte nel fodero, in attesa di tempi più favorevoli. La posta in palio nella battaglia sulle sorti dell’Istituto è sempre quella, l’eredità di Humanae vitae e di una certa visione morale. L’ha detto mercoledì al periodico spagnolo Religión confidencial l’attuale vicepreside e consultore della congregazione per la Dottrina della fede, José Granados: “In una delle prime udienze che san Giovanni Paolo II concesse ai professori dell’Istituto, il cardinale Caffarra gli disse che tutti i docenti erano disposti a difendere due elementi della dottrina cattolica: l’insegnamento di Humanae vitae sull’amore coniugale e l’indissolubilità del matrimonio. Fino a oggi praticamente la totalità dei professori che hanno insegnato all’Istituto ha difeso queste due verità. Se si confermano i nomi di alcuni docenti che circolano come nuovi, si metteranno in dubbio aspetti chiave di questi due insegnamenti. Come dire che si manterrà l’eredità di Giovanni Paolo II, un punto sul quale ha insistito con forza il Santo Padre Francesco nel chiedere un rinnovamento dell’Istituto?”.
L’epilogo era chiaro fin dalla convocazione del doppio Sinodo sulla famiglia. “Amoris laetitia” ha sancito la rivoluzione
Il riferimento ai docenti che potrebbero entrare con tanto di fanfare è a don Maurizio Chiodi, docente di Teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale che in una lezione pubblica alla Pontificia università Gregoriana, nel dicembre del 2017 – il titolo eloquente era “Rileggere Humanae vitae (1968) a partire da Amoris laetitia (2016) – disse che “ci sono circostanze, mi riferisco ad Amoris laetitia capitolo VIII, che proprio per responsabilità richiedono la contraccezione”. Non era uno slogan buono per qualche copertina di periodico mainstream, ma il punto finale di un ragionamento molto più ampio e serio. Spiegava infatti Chiodi che “le norme morali non sono riducibili a una oggettività razionale, ma appartengono alla vicenda umana intesa come una storia di salvezza e di grazia. Le norme custodiscono il bene e istruiscono, ma sono storiche”, per cui “la persona è chiamata alla dimensione del cammino, a discernere quel bene possibile che sfuggendo all’opposizione assoluta tra bene e male, bianco o nero, dice Amoris laetitia, si fa carico delle circostanze a volte oscure e drammatiche”. Il compito della teologia morale odierna, aggiungeva, “riprendendo le istanze conciliari di Gaudium et spes n.16 e alla luce anche della svolta antropologica rahneriana, sia quello di affrontare una sfida per pensare una teoria della coscienza del soggetto morale che dimostri la forma morale e credente”. E per quanto concerne la contraccezione, “la tecnica, in determinate circostanze, può consentire di custodire la qualità responsabile dell’atto coniugale anche nella decisione di non generare quando sussistano motivi plausibili per evitare il concepimento di un figlio. La tecnica, mi pare, non può essere rifiutata a priori quando è in gioco la nascita di un figlio, perché anche la tecnica è una forma dell’agire e quindi richiede un discernimento sulla base di criteri morali, irriducibili però a una interpretazione materiale della norma”. Di nuovo: nessun aggiornamento alla dottrina, bensì una “rivisitazione” pastorale alle mutate condizioni del tempo. Tradotto: Humanae vitae va bene ma insomma, i tempi sono cambiati.
Veritatis splendor, il tentativo del Pontefice polacco di rispondere a chi sosteneva che la Bibbia non avesse alcuna morale da annunciare
Peccato che “pensare una prassi pastorale non fondata e radicata nella dottrina significa fondare e radicare la prassi pastorale sull’arbitrio”, diceva al Foglio il cardinale Caffarra pochi mesi prima di morire: “Una chiesa con poca attenzione alla dottrina non è una chiesa più pastorale, ma è una chiesa più ignorante. La Verità di cui noi parliamo non è una verità formale, ma una Verità che dona salvezza eterna: Veritas salutaris, in termini teologici. Mi spiego. Esiste una verità formale. Per esempio, voglio sapere se il fiume più lungo del mondo è il Rio delle Amazzoni o il Nilo. Risulta che è il Rio delle Amazzoni. Questa è una verità formale. Ma ci sono verità che io chiamo esistenziali. Se è vero – come Socrate aveva già insegnato – che è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che compierla, enuncio una verità che provoca la mia libertà ad agire in modo molto diverso che se fosse vero il contrario. Quando la chiesa parla di verità – aggiungeva Caffarra – parla di verità del secondo tipo, la quale, se obbedita dalla libertà, genera la vera vita. Quando sento dire che è solo un cambiamento pastorale e non dottrinale, o si pensa che il comandamento che proibisce l’adulterio sia una legge puramente positiva che può essere cambiata (e penso che nessuna persona retta possa ritenere questo), oppure significa ammettere sì che il triangolo ha generalmente tre lati, ma che c’è la possibilità di costruirne uno con quattro lati. Cioè, dico una cosa assurda. Già i medievali, dopotutto, dicevano: theoria sine praxi, currus sine axi; praxis sine theoria, caecus in via”. Inoltre, spiegava il primo preside dell’Istituto Giovanni Paolo II, “negando la connessione inscindibile tra la sessualità coniugale e la procreazione, cioè negando l’insegnamento della Humanae vitae, si è aperta la strada alla reciproca sconnessione fra la procreazione e la sessualità coniugale: from sex without babies to babies without sex. Si è andata oscurandosi progressivamente la fondazione della procreazione umana sul terreno dell’amore coniugale, e si è gradualmente costruita l’ideologia che chiunque può avere un figlio. Non c’è dubbio che quando l’Humanae vitae è stata pubblicata, l’antropologia che la sosteneva era molto fragile e non era assente un certo biologismo nell’argomentazione. Il magistero di Giovanni Paolo II ha avuto il grande merito di costruire un’antropologia adeguata a base a quell’enciclica. La domanda che bisogna porsi non è se l’Humanae vitae sia applicabile oggi e in che misura, o se invece è fonte di confusione. A mio giudizio, la vera domanda da fare è un’altra” e cioè se l’Humanae vitae dica la verità circa il bene insito nella relazione coniugale. Dice la verità circa il bene che è presente nell’unione delle persone dei due coniugi nell’atto sessuale? Infatti, l’essenza delle proposizioni normative della morale e del diritto si trova nella verità del bene che in esse è oggettivata. Se non ci si mette in questa prospettiva, si cade nella casuistica dei farisei. E non se ne esce più, perché ci si infila in un vicolo alla fine del quale si è costretti a scegliere tra la norma morale e la persona. Se si salva l’una, non si salva l’altra. Mi stupisce – aggiungeva Caffarra a questo giornale nel 2014 – che qualcuno dica che l’Humanae vitae crea confusione. Che vuol dire? Ma conoscono la fondazione che dell’Humanae vitae ha fatto Giovanni Paolo II? Aggiungo una considerazione. Mi meraviglia profondamente il fatto che, in questo dibattito, anche eminentissimi cardinali non tengano in conto le centotrentaquattro catechesi sull’amore umano. Mai nessun Papa aveva parlato tanto di questo. Quel Magistero è disatteso, come se non esistesse. Crea confusione? Ma chi afferma questo è al corrente di quanto si è fatto sul piano scientifico a base di una naturale regolazione dei concepimenti?”.
D’altronde tutto era chiaro già nel 2014, al termine del primo drammatico Sinodo sulla famiglia, quello straordinario convocato dal Pontefice – a segnalare l’urgenza del tema – pochi mesi dopo la sua elezione a Pontefice. Il cardinale Oscar Andrés Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e gran capo del C9 (poi diventato C6 per decadenza di qualche suo membro) cardinalizio che lavora da anni alla riforma della curia e aiuta il Papa nel governo della chiesa universale, aveva messo subito in chiaro le cose: “Ho chiesto al Papa il perché di una nuova assise sulla famiglia dopo quella del 1980 e la bella esortazione Familiaris consortio del 1983. Lui mi ha detto che tutto questo accadeva trent’anni fa e che oggi quel modello di famiglia per la maggior parte delle persone non esiste più. Ed è vero, abbiamo famiglie patchwork, genitori single, maternità in affitto, matrimoni senza figli. Per non parlare delle coppie formate da persone dello stesso sesso. Nel 1980 questi fenomeni non si vedevano all’orizzonte”.
E’ il Papa a volere la trasformazione dell’Istituto e, più ampiamente, della visione della chiesa sulla famiglia e il matrimonio. Paglia e Sequeri sono gli esecutori fedeli del progetto, come è normale e legittimo che sia. Ma il reset è stato ordinato direttamente da Santa Marta. I vescovi, messi l’uno contro l’altro, furono chiamati a Roma per due anni consecutivi a schiacciare pulsanti per deliberare su matrimonio e famiglia, sesso e morale: voto su voto, in una conta che ricordava più cose terrene (l’assegnazione a un paese dei Giochi olimpici) che cose dell’altro mondo. Uno scrutinio che allargò la già ampia faglia tra le due grandi correnti che da mezzo secolo si fronteggiano ora in modo più tranquillo ora più veemente sui fondamenti cattolici. Amoris laetitia, la gioia dell’amore, è il risultato di quell’assise, con pagine “ispirate” dal teologo di fiducia di Francesco, mons. Victor Manuel Fernández, e dibattiti intra ed extra moenia sull’interpretazione di noterelle a piè di pagina dalle conseguenze enormi. L’ispiratore del processo era stato, all’inizio del 2014, il cardinale Walter Kasper, con la magna relatio al concistoro segreto che segnò la strada. E Kasper, teologo d’indubbio rango, è uno dei più autorevoli esponenti della corrente alternativa a quella giovanpaolina, sempre fermata nei suoi intenti “riformatori” durante i pontificati di Wojtyla e Ratzinger. Ma libera d’agire con Bergoglio.
È il Papa ad aver voluto il cambiamento. Operazione del tutto legittima, ma non si parli di continuità (che non è un dogma)
Al di là delle più o meno sottili dispute fra teologi, ciò che conta non è il destino dei pur rilevanti statuti dell’Istituto del Gran Cancelliere Paglia. In ballo c’è molto di più: “Non possono colpire Humanae vitae e allora si rifanno su Veritatis splendor”, si sentiva dire all’apice dello scontro sinodale che ha spaccato la chiesa in due, come una mela matura. Veritatis splendor è l’enciclica scritta da Giovanni Paolo II nel 1993 sui fondamenti della morale, probabilmente la più inapplicata. Eppure, rilevantissima. Non a caso, Benedetto XVI, in un libro apparso cinque anni fa (Accanto a Giovanni Paolo II. Gli amici e i collaboratori raccontano, di Wlodzmierz Redzioch, Edizioni Ares), citava proprio quel testo a proposito di encicliche da riconsiderare e studiare in modo approfondito. “L’enciclica sui problemi morali – sono parole del già allora Papa emerito – ha avuto bisogno di lunghi anni di maturazione e rimane di immutata attualità. La costituzione del Vaticano II sulla chiesa nel mondo contemporaneo, di contro all’orientamento all’epoca prevalentemente giusnaturalistico della teologia morale, voleva che la dottrina morale cattolica sulla figura di Gesù e il suo messaggio avesse un fondamento biblico. Questo fu tentato attraverso degli accenni solo per un breve periodo. Poi andò affermandosi l’opinione che la Bibbia non avesse alcuna morale propria da annunciare, ma che rimandasse ai modelli di volta in volta validi. La morale è questione di ragione, si diceva, non di fede. Scomparve così – proseguiva Benedetto XVI – da una parte la morale intesa in senso giusnaturalistico, ma al suo posto non venne affermata alcuna concezione cristiana. E siccome non si poteva riconoscere né un fondamento metafisico né uno cristologico della morale, si ricorse a soluzioni pragmatiche: a una morale fondata sul bilanciamento dei beni, nella quale non esiste più quel che è veramente male e quel che è veramente bene, ma solo quello che, dal punto di vista dell’efficacia, è meglio o peggio. Il grande compito che Giovanni Paolo II si diede in quell’enciclica fu di rintracciare nuovamente un fondamento metafisico all’antropologia, come anche una concretizzazione cristiana nella nuova immagine di uomo della Sacra Scrittura. Studiare e assimilare questa enciclica rimane un grande e importante dovere”, concludeva. Benedetto XVI aveva – e ha – chiaro il problema. Basta rileggere il documento diffuso la scorsa primavera, pure questo ridotto mediaticamente a lettera “sulla pedofilia”, quando invece diceva ben altro.
C’è un passaggio che rivela l’estrema attualità di quegli appunti. Anche qui il riferimento è a Veritatis splendor. “Sul finire degli anni 80 e negli anni 90 la crisi dei fondamenti e della presentazione della morale cattolica raggiunse forme drammatiche. Il 5 gennaio 1989 fu pubblicata la ‘Dichiarazione di Colonia’ firmata da 15 professori di teologia cattolici che si concentrava su diversi punti critici del rapporto fra magistero episcopale e compito della teologia. Questo testo, che inizialmente non andava oltre il livello consueto delle rimostranze, crebbe tuttavia molto velocemente sino a trasformarsi in grido di protesta contro il magistero della chiesa, raccogliendo in modo ben visibile e udibile il potenziale di opposizione che in tutto il mondo andava montando contro gli attesi testi magisteriali di Giovanni Paolo II”, ha scritto Ratzinger, che così proseguiva: “Papa Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la situazione della teologia morale e la seguiva con attenzione, dispose che s’iniziasse a lavorare a un’enciclica che potesse rimettere a posto queste cose. Fu pubblicata con il titolo Veritatis splendor il 6 agosto 1993 suscitando violente reazioni contrarie da parte dei teologi morali. In precedenza, già c’era stato il catechismo della chiesa cattolica che aveva sistematicamente esposto in maniera convincente la morale insegnata dalla chiesa”.