La fede non è sociologia
L’istituto Giovanni Paolo II, l’educazione dei preti, il celibato, l’Europa che “ha tradito se stessa” e il rischio di ridurre Cristo al sapere umano. Intervista a monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla
Roma. Il livello dello scontro sul destino dell’Istituto Giovanni Paolo II si fa più alto: i firmatari della lettera-appello degli studenti contro i cambiamenti stabiliti dal Gran cancelliere Vincenzo Paglia sono ora 921. Di questi, 183 coraggiosi studenti attuali. Il tutto mentre Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, garantisce che non c’è alcuna resa dei conti interna all’Istituto, e si diffonde la notizia dell’incontro (datato 1° agosto) tra il professor Livio Melina – primo degli epurati, considerato che è stata soppressa la cattedra di Teologia morale fondamentale da lui occupata, la cattedra che fu di Carlo Caffarra – e il Papa emerito Benedetto XVI, che ha espresso solidarietà all’ex preside per quanto accaduto.
Allontanamento di docenti legati al Pontefice polacco, eliminazione di corsi in cui veniva presentato l’insegnamento morale giovanpaolino: non c’è il rischio di dare l’idea di una rottura della continuità magisteriale? Chiediamo a mons. Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla. “Ho già espresso il mio pensiero su questo tema in un recente intervento su Avvenire (3 agosto 2019). Anche ai lettori de Il Foglio voglio far conoscere che io sono stato prima studente, poi docente e infine vicepreside dell’Istituto durante gli ultimi anni della presidenza Caffarra e il primo della presidenza Scola. Ho visto nella comunità dei docenti un esempio preclaro di ricerca e di didattica, nella fedeltà alle finalità che san Giovanni Paolo II, fondatore dell’Istituto, aveva fissato per esso. Assieme ai due nomi che ho ricordato, vorrei qui citare anche don Livio Melina e Stanislaw Grygiel. Un grande teologo il primo, autore di un numero considerevole di testi; un grande filosofo il secondo, nella scia della fenomenologia cristiana, insegnata da Karol Wojtyla in Polonia. Non ho nessun dubbio sulla loro fedeltà al Papa. Lo stesso penso del cardinal Caffarra. Ricordo la sua espressione umoristica e drammatica assieme: ‘Avrei avuto più piacere che si dicesse che l’arcivescovo di Bologna ha un’amante piuttosto che si dicesse che ha un pensiero contrario a quello del Papa’. Per quanto posso aver capito – dice mons. Camisasca – gli insegnanti dell’Istituto hanno cercato di comprendere il significato di Amoris laetitia all’interno della continuità del magistero della chiesa. E’ vero che ogni Papa porta un proprio accento e delle proprie sottolineature. E questa è anche la grandezza di ogni singolo pontificato. Ma è anche vero che si tratta di una comprensione sempre nuova dell’unico mistero. ‘Perché allora – scrivevo su Avvenire – segnare oggi un’interruzione così profonda e traumatica nei confronti dell’Istituto Giovanni Paolo II? Perché offrire agli studenti l’impressione di una novità radicale, che preoccupa e confonde, come molti di essi hanno manifestato’ nella lettera degli studenti? Come vescovo seguo interamente e cordialmente l’immenso lavoro di Papa Francesco, e cerco di spiegarlo al mio popolo, evitando perciò ogni polarizzazione indebita. Nella chiesa non esistono rivoluzioni. Non l’ha portata san Giovanni XXIII, non l’ha portata il Concilio Vaticano II, non la porta papa Francesco. ‘Rivoluzione’ è una categoria ermeneutica della storia mondana che non aiuta a leggere la storia della chiesa”.
Non pochi anche eminenti uomini di chiesa sostengono però che Familiaris consortio, il più alto documento giovanpaolino sulla famiglia, non è più adeguato alle mutate situazioni dell’oggi, non presenti all’inizio degli anni Ottanta. “Ogni pontificato – sottolinea il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla – nei suoi effetti va ben oltre la morte del Papa e dura a lungo, secondo la volontà di Dio, per il bene di tutti. La fecondità di un magistero oltrepassa il tempo, tanto che oggi noi possiamo ancora godere dell’insegnamento di Leone Magno o di Gregorio Magno (come della santità di Francesco d’Assisi o di Ignazio di Loyola). Perciò anche il lungo magistero di san Giovanni Paolo II è ricchissimo di fecondità. Non abbiamo ancora terminato di scoprirlo in tutta la sua ricchezza profonda. Giustamente Papa Francesco ha ritenuto di dover segnalare nuovi problemi e nuove attese, a anche nuovi atteggiamenti. Tutto ciò rientra nel ministero petrino. Ma un documento magisteriale non cancella quelli precedenti: le encicliche sociali di san Giovanni Paolo II non cancellano la Pacem in terris e la Mater et magistra di san Giovanni XXIII”.
Si sostiene la necessità di dare più spazio allo studio delle “scienze umane” in un Istituto come il Giovanni Paolo II, mettendo in disparte la teologia e l’antropologia. Non si rischia di perdere un po’ l’orientamento su quelli che dovrebbero essere i punti fissi per un cristiano? “Approvo l’apertura degli studi teologici alle scienze umane, cosa d’altronde già prevista nei documenti di questi ultimi decenni della Congregazione per l’educazione cattolica. Ma tali studi in una facoltà teologica devono essere guidati e orientati dal sensus fidei che solo lo studio teologico può assicurare”.
La fecondità di un magistero oltrepassa il tempo: non abbiamo ancora terminato di scoprire la ricchezza di san Giovanni Paolo II
Con mons. Massimo Camisasca la conversazione va oltre la stringente attualità, fermandosi a constatare come in occidente, ormai, la fede sia qualcosa di sempre più minimale, ridotto. “Quando il figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?”, c’è scritto nel Vangelo. Un interrogativo drammatico che porta anche noi a chiederci quale sarà il futuro. “Molte volte – osserva il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla – mi è capitato di meditare questa espressione di Gesù e di chiedermi quale fosse il suo significato più profondo. Sono giunto alla conclusione che essa non esprime affatto un dubbio. Gesù sa che le porte degli inferi non prevarranno (Mt 16,18), e dunque che al suo ritorno egli troverà la chiesa. Piuttosto la sua domanda, che lei ha giustamente definito ‘drammatica’, è una provocazione ad ogni generazione di credenti, a quelle del passato, del presente e del futuro. La fede, infatti, non vive se non rinasce e se non è trasmessa. Più che un’angosciosa questione, la domanda di Gesù esprime una dolce responsabilità e un compito per ogni battezzato. Se guardiamo alla storia della chiesa possiamo vedere che in intere regioni dove in epoche passate il cristianesimo era fiorente e fecondo, oggi è quasi interamente scomparso. Lasciamo a Dio il giudizio sull’accaduto. Non spetta a noi pesare la fede dei popoli. Ma rimane il fatto che alla fine della sua vita, prima dell’ascensione, Gesù ha condensato tutte le raccomandazioni ai suoi nel famoso invito: ‘Andate, annunciate, battezzate’ (cf. Mt 28,19-20). E’ veramente felice il fatto che l’ultimo documento di Papa Benedetto e il primo firmato da Papa Francesco sia la Lumen fidei, mettendo così in evidenza la comune preoccupazione dei due pontificati, che è l’urgenza dell’evangelizzazione. Molto spesso abbiamo una visione intellettualistica della fede, come un bagaglio di idee o di comportamenti da assumere. Certamente essa comporta una nuova visione della vita e del mondo, e perciò anche un nuovo ethos. Ma la fede è innanzitutto il dono e la scoperta della presenza della divina umanità di Gesù, morto e risorto, e perciò vivo. Innestandoci in lui, attraverso il battesimo, ci dona una nuova mente e un nuovo cuore, che nessun potere mondano saprebbe e potrebbe dare all’uomo. Da che cosa è insidiata, dunque, la fede? Dalla sua banalizzazione, quando essa viene ridotta a una speranza mondana, ad una felicità che può essere prodotta attraverso un cambiamento della società o del nostro spirito, della nostra psiche, portato dalle scienze dell’uomo. Certamente la sequela di Gesù porta con sé un miglioramento della vita presente, sia personale che sociale. Ma Cristo non è venuto innanzitutto per questo. E’ venuto per rivelarci il Padre e per sconfiggere la potenza di Satana, per liberarci dal peccato e dalla morte. In altre parole: il vero pericolo che corre oggi la fede cristiana è la sua riduzione a sapienza sociale o psicologica. La sociologia e la psicologia sono certamente due grandi scienze che possono illuminare in modo straordinario la vita dell’uomo. Ma c’è un abisso fra la sapienza del mondo e la sapienza di Cristo. Come c’è un abisso fra ogni possibile liberazione mondana e la libertà per cui Cristo ci ha liberati (cf. Gal 5,1)”.
Spero che avvenga una riscoperta del carisma della verginità e si allontani l’ipotesi di una perdita del valore del celibato
Mons. Camisasca non pensa che però la chiesa debba impegnarsi a rendere “interessante” la fede per chi non la comprende o più semplicemente non ha mai avuto modo di avvicinarla, e questo perché “non siamo noi a rendere interessante Cristo. Noi vescovi, preti e laici dobbiamo essere semplicemente trasparenti del cambiamento e della gioia che Lui ha portato nella nostra vita. Mi sembra che i nostri piani pastorali assomiglino talvolta a quegli scalatori che spendono tutte le proprie energie per arrivare alla base di una montagna e non hanno più né fiato né forza per salirla ed arrivare in cima. Non discuto che sia importante il ‘come’ parlare di Cristo. Ma infine, ciò che più conta è deciderci ad annunciarlo. Sarà Lui stesso, come d’altra parte ci ha promesso, a mettere le parole più adeguate sulla nostra bocca (cf. Lc 12,11-12) e a rendere pieno di sale e di luce il nostro annuncio. Riprendo perciò quanto ho detto sopra: ciò che è più trascurato oggi è il silenzio, la preghiera, la meditazione, lo studio, la vita comunitaria. Sono queste le strade che non solo ci abilitano, ma addirittura ci infiammano il cuore e la mente così da farci diventare testimoni del Salvatore. Nella nostra pastorale vedo spesso lunghi percorsi di preparazione, segnati dalla paura che le nostre parole non giungano ad effetto, che i giovani abbiano forse bisogno di altro, che le nostre proposte non siano sufficientemente aggiornate. Non voglio negare quanto di bene vi è in queste preoccupazioni, ma esse rischiano di dimenticare che il cuore di ogni uomo e soprattutto di ogni ragazzo e ragazza attende già di conoscere Cristo, talvolta senza saperlo. Cristo è all’opera dentro di loro. Occorre aiutarli a riconoscere che, solo partecipando della vita del Salvatore, l’esistenza può godere di una conoscenza più luminosa di qualunque sapienza umana, e di una gioia più profonda di qualunque piacere mondano. Il cristianesimo, Gesù Cristo, non ci allontana dalla vita, ma al contrario ci immerge nell’esperienza più piena di essa. Il nostro temporeggiare di fronte a Cristo è spesso soltanto rivelatore dell’acerbità del nostro incontro con Lui. Non ci sono giovani a cui possiamo proporre soltanto la partita a pallone e altri che possiamo coinvolgere nella catechesi. Sarebbe una riduzione spiritualistica o materialistica del cristianesimo, che non dobbiamo permetterci. Tutto è vostro (1Cor 3,22): nell’itinerario a Cristo e dietro a Lui ogni cosa trova il suo posto, come nell’esperienza di un unico amore”.
Mons. Camisasca parla di piani pastorali, tanto citati e praticati in Europa, salvo poi constatare un declino del cristianesimo che pare ineluttabile. Le ragioni della crisi appaiono spesso poco indagate. C’è chi sostiene che, per quanto concerne l’Italia, tutto è cambiato con la rivoluziona antropologica pasoliniana. Prima di allora, sostiene ad esempio Massimo Borghesi, “c’era un popolo cristiano, un ethos”. Successivamente: un lento declino. Secondo lei, il declino a cosa è dovuto? “L’Europa ha tradito se stessa consegnandosi alle burocrazie tecnologiche ed economiche. Ovviamente non sto dicendo che la rivoluzione tecnologica e l’economia non abbiano enorme importanza nella vita di oggi. Ma esse necessitano di un forte radicamento ideale ed etico per non uccidere l’uomo che dovrebbero servire. Ricordiamo ciò che è avvenuto al tempo del dibattito sulle radici storiche, culturali e spirituali, del nostro continente. Un corpo non può vivere senza un’anima, senza la memoria della propria storia, senza grandi ideali di umanesimo e di crescita spirituale. L’ipocrisia e l’assenza di progetto a breve, medio e lungo termine, con cui l’Unione europea sta affrontando il tema dei migranti, è uno degli indici, non certo l’unico, di questa assenza di speranza. Dopo le due terribili guerre mondiali, il nostro continente è precipitato in una spaventosa volontà di autodistruzione, pur restando la zona del mondo a più alto benessere. Questa tragica discrepanza, rivelata anche dalle legislazioni permissive sull’aborto e sull’eutanasia, dal misconoscimento del valore sociale della famiglia, dovrà essere risanata per poter dare un futuro all’Europa, altrimenti destinata alla marginalità della storia culturale e spirituale del mondo”.
Non siamo noi a rendere interessante Cristo. Sarà Lui stesso a mettere le parole più adeguate sulla nostra bocca
Von Balthasar disse che “in tutte le epoche si cerca di ridurre il cristianesimo in modo tale che la ferita che Cristo ha inferto alla storia si possa chiudere. Non è possibile, continuerà a suppurare”. L’onda laicista è affare dei nostri giorni, basti pensare a quanto accade in paesi un tempo dal forte radicamento cristiano. E’ una tendenza invertibile? “Non so cosa lei intenda per ‘onda laicista’. La ferita che Cristo ha portato è innanzitutto la ferita del suo cuore sulla croce, che rimane anche dopo la resurrezione e l’ascensione. Rimane per l’eternità come offerta all’uomo della via per la vita. Credo che il dramma più grande per l’uomo di oggi sia proprio lo spegnersi in lui dell’attesa di Dio, la resa a una vita banale, circoscritta nelle piccole cose di tutti i giorni. Per questo il dolore del mondo, che assume talvolta contorni di gravità inimmaginabile e di sofferenze che non hanno spiegazioni, ci interroga tutti sul senso della vita. Non solo ci fa chiedere da dove veniamo e dove andiamo, ma anche e soprattutto qual è il peso eterno dell’istante che viviamo. Come ha scritto il cardinal Sarah nel suo libro ‘Dio o niente’, la realtà drammatica che si pone davanti all’uomo, oggi più che mai, è questa: quando scompare Dio scompare anche l’uomo, e la vita viene travolta dall’insignificanza e dalle lacerazioni”.
C’è chi dice che siamo in un mondo ormai post religioso e chi, invece, sostiene, che il mondo non è mai stato così religioso come oggi. Lei da che parte sta? “Da nessuna delle due parti. Se per religiosità intendiamo l’apertura all’infinito e il desiderio di felicità, il nostro è certamente un tempo religioso. Ma questo non basta. Se la religiosità non si incontra con il Dio che è sceso dall’alto per farsi uomo, essa rischia di restare un tragico grido che ci parla sì del dolore del mondo, ma non ancora delle strade per affrontarlo”.
“Quando scompare Dio scompare anche l’uomo, e la vita viene travolta dall’insignificanza e dalle lacerazioni”, ha scritto il card. Sarah
Un ruolo decisivo rispetto alla trasmissione della fede e alla necessità di rinnovare la pratica della vita cristiana lo giocano anche i sacerdoti, la cui formazione risulta essere oggi sempre più importante. “Il sacerdote ha un posto particolare e assolutamente irrinunciabile nella vita della chiesa, e perciò del mondo. A lui è consegnata l’Eucaristia e il perdono dei peccati, il cuore cioè di tutta la vita cristiana, oltre a una funzione irrinunciabile di insegnamento e alla guida della comunità. Oggi indubbiamente assistiamo, soprattutto nella nostra Europa e più in generale nel mondo occidentale, a una riduzione drastica del numero dei sacerdoti, che può sembrare irreversibile. Non sappiamo cosa sarà del futuro. Abbiamo potuto leggere tutti quanti un’infinità di analisi sulle cause di tale riduzione numerica: la crisi demografica, i figli unici, l’indisponibilità delle famiglie di fronte a tale ipotesi vocazionale, la paura nei giovani verso un incarico troppo pesante, il terrore della solitudine, l’immagine purtroppo presente di sacerdoti con il volto triste, etc. Tutte queste ragioni hanno una parte di verità, ma non penso raggiungano la motivazione più profonda. Personalmente sono convinto che, all’origine della crisi delle vocazioni sacerdotali stia la dimenticanza della luminosità del celibato ecclesiastico. Com’è noto, la chiesa latina, fin dal IV secolo, ha riconosciuto un nesso di opportunità profonda tra il celibato e il ministero sacerdotale. Le ragioni di tale scelta si sono chiarite sempre più con il passare del tempo, fino alla decisione di scegliere i candidati al sacerdozio esclusivamente tra coloro che avevano aderito al carisma della verginità. Tra le tante ragioni di questo legame del ministero sacerdotale con il celibato – che ha coinvolto anche la chiesa orientale per quanto riguarda la vita monastica e il ministero episcopale – quella più luminosa è la sequela di Cristo fin nella forma di vita da lui scelta. La decisione per il celibato non nasce perciò né da una disistima della donna, né da una considerazione della vocazione famigliare come scelta di secondo piano, né tanto meno dalla rinuncia alla maturità affettiva e all’espressione dei sentimenti. Essa è piuttosto una strada di educazione della nostra povera umanità, peccatrice fino all’ultimo giorno di vita, ad entrare nella luminosità di un’esistenza interamente donata, in cui i rapporti affettivi desiderano essere il più possibile espressione di un amore puro e non possessivo”. Certamente, aggiunge mons. Camisasca, “la verginità per il Regno oggi è insidiata fortemente dall’erotismo che invade tutti, dalla solitudine e ultimamente dalla nostra stessa fragilità. Ciò non toglie che essa, come ogni altro valore, non deve essere né svilita, né mai abbandonata a causa delle cadute. Queste ultime ci parlano soltanto di un traguardo grande e difficile, ma assolutamente alla portata di un uomo normale, affidato totalmente alla grazia del suo Signore. Spero che nella chiesa avvenga perciò una riscoperta di questo carisma e si allontani l’ipotesi di una perdita del valore del celibato, cosa che segnerebbe un drammatico impoverimento di tutto il popolo cristiano. Da ultimo, voglio ricordare a me stesso e ai miei fratelli che, assieme al martirio, la verginità è la forma più alta di testimonianza al mondo della signoria di Cristo sulla vita”.
Veniamo ai seminari: non sono pochi quanti chiedono, sull’onda dei recenti scandali, di rivederne il sistema, sostenendo che i futuri sacerdoti dovrebbero vivere in casa e non in comunità. Qual è la sua opinione? “I gravissimi scandali che hanno squassato la chiesa negli ultimi tempi parlano certamente anche di una formazione seminaristica inadeguata da molti punti di vista. In primo luogo, vorrei rifarmi ai recenti ripetuti richiami di Papa Francesco a proposito della sessualità: ‘Essa è un bene!’. Più o meno così hanno risuonato le sue parole. Il moralismo ha attraversato il cattolicesimo e il protestantesimo nell’età moderna, e con esso la sessuofobia. Si è avuto paura dei sentimenti e delle amicizie, per il loro potenziale negativo, e quindi si è rinunciato ad educare l’affettività, elemento costitutivo e irrinunciabile della persona umana. Per questo penso che il seminario debba mantenere e anzi incrementare la propria realtà di vita comune, così come la presenza del genio femminile fra i docenti e di famiglie che testimonino la bellezza e la grandezza della vita matrimoniale, anche attraverso incontri con gli stessi giovani candidati al sacerdozio. Penso inoltre, come d’altra parte è già ampiamente previsto nel Direttorio della chiesa universale e della Conferenza episcopale italiana riguardanti la formazione seminaristica, alla presenza dei padri spirituali e degli psicologi nelle équipe dei formatori, naturalmente con competenze e responsabilità diverse”.
“Il sacerdote – dice mons. Camisasca – ha bisogno di lasciare la propria casa, così come chi si sposa. Anche per lui infatti valgono le parole di Dio riportate nel libro della Genesi (Gen 2,24). La vocazione sacerdotale è una vocazione sponsale: non dobbiamo mai dimenticarlo. Nel rispetto del quarto comandamento, il prete sa che ha lasciato i propri genitori per essere lui stesso padre e madre verso il suo popolo. Questo deve avvenire anche a livello economico, con molta chiarezza e radicalità”. E come risponderebbe a chi pensa che sia la comunità cristiana a dover valutare l’idoneità di un candidato al sacerdozio? “Per quanto riguarda il giudizio sui candidati: tutti coloro che li conoscono possono contribuire, con ovvia riservatezza, alla formazione del giudizio dei superiori. Di più non credo sarebbe opportuno. Quale comunità, infatti, può assumersi una tale responsabilità? Con la mobilità di oggi inoltre non è neppure possibile immaginare una comunità stabile. Penso perciò, in conclusione, che la decisione a riguardo dell’ordinazione di un candidato debba restare purtroppo nella prassi attuale. Dico ‘purtroppo’ perché è certamente uno dei pesi più grossi che deve assumersi un vescovo”.
Viviamo un’epoca in cui constatiamo il crollo di tutte le evidenze. Ma forse dovremmo domandarci perché queste evidenze sono crollate e su questo mons. Camisasca premette di essere “alieno, per temperamento, a tutti gli slogan. Esteriormente darei ragione all’affermazione da lei citata. In realtà, basta condividere anche brevemente la vita di una persona, basta dedicarle un po’ di tempo per notare che anche nel giovane più sballato, nell’adulto più disorientato, nell’anziano più impaurito esiste una coscienza, forse ridotta, ma non annullata, di ciò che è bene e di ciò che è male, di ciò che porta distruzione e di ciò che dà felicità. Il grande problema di oggi – sottolinea – mi sembra invece la solitudine, cioè l’individualismo, il tradimento degli adulti, per cui esistono sempre meno compagni di viaggio e maestri che si affianchino al nostro cammino, come Gesù ai discepoli di Emmaus. Dio non è morto nel cuore dell’uomo. Talvolta è sepolto sotto i drammi e le fatiche, bestemmiato, irriso… Ma tutto ciò è il segno del grande bisogno che l’uomo ha di Dio. Tocca a noi essere il buon samaritano che non abbandona l’uomo sul ciglio della strada, ma lo soccorre e lo porta in una casa, cioè gli dà la possibilità di rapporti intensi e caritatevoli, di una comunità viva e misericordiosa, che gli rivela il volto del Padre”. Forse la soluzione è in un nuovo slancio evangelizzatore, non a caso posto a cardine del pontificato di Francesco. Ma quant’è difficile oggi evangelizzare? Anche qui, il rischio è di usare solo uno slogan vuoto. “Ogni epoca presenta le sue difficoltà. Quelle di oggi non sono certo minori di quelle di ieri, ma nulla può impedire l’incontro dell’uomo con Cristo, se non l’ignavia di noi cristiani o la chiusura irresistibile di un nostro fratello. Il pontificato di Papa Francesco, come quello dei suoi ultimi predecessori, ha posto l’accento sulla gioia del Vangelo. Il papa ritorna insistentemente, si può dire ogni giorno, su questo tema, invitandoci ad uscire dalle sacrestie in cui ci siamo chiusi, dalle formule pastorali in cui ci siamo accomodati, e soprattutto a sentire l’ansia e l’attesa di chi è povero, scartato, umiliato, abbandonato. Facciamo tutti un po’ fatica ad entrare in questo salutare shock, che viviamo molto spesso per l’interpretazione borghese della fede che siamo soliti vivere. Abbiamo diviso il mondo in buoni e cattivi e ci sentiamo sicuri nelle nostre case. L’ansia di Cristo, l’ansia di Paolo, l’ansia dei santi fatica a conquistare i nostri cuori. Dev’essere questo il contenuto della nostra incessante preghiera. Dobbiamo radicarci nella contemplazione della verità che è Cristo, fonte perenne e inesauribile della nostra conversione personale, e quindi di ogni missione evangelizzatrice della chiesa”.