Il whisky priest di Graham Greene. Il vero scandalo non è la morale ma la fede
Rileggere “Il potere e la Gloria”, romanzo su un sacerdote immeritevole ma santo nell’epoca degli scandali
Non è sul campo morale che si gioca oggi in Occidente la partita contro la chiesa cattolica. Pur senza dimenticare le innumerevoli persecuzioni fisiche alla vita dei cristiani nel mondo e alla loro presenza pubblica, l’accanimento è sulla presunta inconciliabilità tra la vita di Cristo e l’esperienza della vita. Certo, sul piano etico non è un periodo facile per i preti. Le innumerevoli accuse di pedofilia a esponenti della chiesa cattolica sono notizia di quasi ogni giorno, e magari dubbie, com’è in questi giorni per il cardinale George Pell. In modo più sottile ma sempre insidioso, pare non se la passi bene nemmeno il Vaticano, oggi considerato il punto più debole dell’intera comunità cristiana, causa l’idea dominante che il potere mondano e la gloria cristiana non possano convivere. Così, nella seconda serie dopo The Young Pope, venduto in 154 paesi, alla Mostra di Venezia saranno presentate le nove puntate di The New Pope di Paolo Sorrentino, che ha sviluppato in modo machiavellico ma accurato, e con mondana intelligenza, le relazioni tra Sua Santità e il potere, perché, dice il regista, “anche i propugnatori di valori possono nascondere scheletri negli armadi”. Chi predica bene razzola, sempre, male, e tale contraddizione è sempre la radice dello sguardo che immagina e fruga oltre Tevere. Lo scandalo e il conseguente interesse televisivo, ovviamente, nascono dal contrasto irredimibile tra la morale cattolica e il comportamento di cardinali e Papi, che in questa nuova serie saranno due, viventi. In un periodo in cui regna Papa Francesco, lo scontro tra il Papa positivo e la gestione di un potere di per sé cattivo può davvero riservare sorprese, forse non tutte negative.
Di chiesa corrotta e succuba, di persecuzioni, di immoralità e di incompatibilità della vita cristiana con il presente si occupa Il potere e la gloria di Graham Greene, un romanzo già giudicato da Time uno dei 100 migliori di lingua inglese del XX secolo, e dunque abbastanza accettato dalla cultura che conta, e che vale la pena riprendere in mano, vista la nostra predisposizione a pensare alle persone spregevoli nello stesso modo con cui Greene nel 1940 presentava il suo prete protagonista: “Gli anni alle sue spalle erano disseminati di analoghe capitolazioni… La sua vita quotidiana si era riempita di crepe, come una diga, e la dimenticanza si infiltrava nelle fessure spazzando via questo e quell’altro. Cinque anni prima aveva ceduto alla disperazione, il peccato imperdonabile, e adesso stava tornando sulla scena della sua disperazione con una curiosa leggerezza del cuore. Era un cattivo prete, lo sapeva. La gente aveva un nomignolo per quelli come lui: preti spugna [whisky priest]; ma, a una a una, le mancanze sparivano dalla vista e dalla memoria, per accumularsi in qualche luogo segreto: le macerie della sua indegnità”. Sono qui delineati i tratti di un uomo che a noi richiamano solo una impossibilità radicale, quella di vivere secondo i precetti di Gesù, dal momento che il potere e la carne rovinano ogni cosa pura.
Nato a Berkhamsted, nella cintura londinese, da padre preside e madre cugina di Robert Louis Stevenson, Graham Greene, nel 1926, a 22 anni, si converte al cattolicesimo e viene battezzato. Tra i suoi punti di riferimento, di allora e di una vita, John Henry Newman e Gilbert Keith Chesterton, due altri “convertiti”. Con una differenza, come ha scritto Andrea Monda: “Se Chesterton sceglierà, nel momento del battesimo cattolico, di chiamarsi Lazzaro, il resuscitato, Greene opterà invece per il nome Tommaso in onore dell’apostolo scettico e incredulo”. In tal senso, se una caratteristica animò la scrittura di Graham Greene per tutta la vita fu quella di cimentarsi “per lo più con squallidi agenti segreti per raccontare gli abissi della meschinità e della fragilità umana, quel ‘territorio del diavolo’, ambiente privilegiato dalla Grazia nel suo operare”.
Il potere e la gloria venne scritto dopo una permanenza dello scrittore nel sud del Messico, negli stati del Tabasco, affacciato sulla baia di Campeche del Golfo del Messico, e delle Chiapas. Nel Tabasco permaneva una situazione drammatica per la chiesa a seguito della costituzione anticlericale del 1917, anche a causa della feroce persecuzione del governatore ateo e socialista Tomás Garrido Canabal, dopo le carneficine della guerra Cristera, o Cristiada, che fece 90 mila vittime nel Messico tra il 1926 e il 1929. Il romanzo è dunque la storia dell’ultimo sacerdote cattolico ancora presente in quello stato, braccato da una feroce caccia all’uomo, il cui promotore è “il tenente” (the lieutenant). Anche il prete non ha un nome; per contro, come detto, ha diverse caratteristiche che non lasciano ben sperare: egli infatti è un whisky priest, è un uomo indegno, debole e impuro, ha anche una bambina, concepita tra i fumi dell’alcol, Brigitta. Il prete è un uomo perseguitato dalla propria immagine immeritevole. Da questi pochi tratti, si comprende il motivo per cui il libro fu messo dalla chiesa cattolica all’indice, se così si poteva ancora chiamare, nel 1953. A causa di “certe parti del suo romanzo [che] non possono non offendere alcuni cattolici”. Sono parole di Paolo VI, che, da monsignore, si era opposto a tale provvedimento e che incontrò Greene in udienza privata il 13 luglio 1965, complimentandosi con lui per questo romanzo. A onore di come la chiesa agì nei suoi confronti, Greene riconoscerà poi che “il prezzo della libertà, anche nella chiesa, è l’eterna vigilanza, ma io mi domando se uno qualsiasi degli Stati totalitari, sia di destra o di sinistra, mi avrebbe trattato con la stessa gentilezza quando mi rifiutai di rivedere il libro con il cavilloso pretesto che il copyright apparteneva ai miei editori”.
Sulle tracce del prete spugna vi è dunque un giustiziere ideologico e spietato, che alla testa dei suoi uomini lo ricerca senza sosta, prendendo ostaggi nei villaggi in cui crede che il prete sia passato, uccidendo innocenti e mettendo sulla testa del prete una forte taglia, alla pari del famigerato gringo americano che attraversa lo stato uccidendo anche donne e bambini. Comprendiamo bene che si tratta solo di attendere quando e come il prete verrà catturato e giustiziato. Va detto che lo scrittore venne particolarmente colpito dalla fede della gente del Tabasco, perché “la loro devozione era tale che se ne resta segnati fin nel fondo dell’anima… Comunque io pensavo allora alla piccola decorosa congregazione di Chelsea, dove ero stato qualche volta, alle signore con il cappellino, e sentivo che non era quella, la religione. La religione era il contadino che strisciava in ginocchio verso l’altare, le braccia aperte come in croce”.
Greene decide, tuttavia, di prendere in esame una situazione di persecuzione storica estrema e di mettere come protagonista un uomo del tutto indegno, ancor più perché sacerdote. Domina in tutto il romanzo l’idea di una debolezza insanabile. Greene affronta, così, di petto quella ripugnanza morale contro i cristiani che ha una sua metafisica, un fondamento ancor più pericoloso dell’accusa di immoralità e che non è privo di elementi più volte emersi nella storia: non è davvero pensabile accettare il ripugnante annuncio di un Dio che vive nella carne, e ciò proprio a causa dell’impossibilità di viverlo. Il vero scandalo è, dunque, quello della fede. L’annuncio dell’incarnazione deve essere restituito al mittente. Cristo, “cruciato martire, tu cruci gli uomini”, come scrive Giosue Carducci. Versi che certamente sarebbero parsi interessante sfida a Greene. Anche per il prete di Greene, infatti, le macerie della sua indegnità “un giorno, ne era certo, avrebbero finito per ostruire la sorgente della grazia”. Eppure, segnato dalla fede degli umili, Greene indaga le caratteristiche di un prete disperato per verificare se e dove vi siano le condizioni per il manifestarsi della grazia.
La grazia, infatti, non è un controllo su se stessi né una capacità morale di cui vantarsi, ma è una direzione da intraprendere. Così, anche se il prete vorrebbe e potrebbe mettersi in salvo, e allontanarsi per sempre da quella terra per raggiungere la salvezza personale, un richiamo più grande della sua debolezza, una fedeltà, la grazia, lo costringe a ritornare ogni volta sulla via della croce. Perciò il libro si apre, in modo apparentemente banale, con il prete, in incognito presso un dentista, che non prende la nave che lo porterebbe in salvo al nord, a Veracruz, perché un ragazzo gli chiede di assistere sua madre morente a sud. Allo stesso modo, il prete, stretto da angoscia e amore verso la figlia che invano egli cerca di abbracciare, consigliato di salvarsi, va proprio nella direzione dove vi è l’esercito che lo cerca, ancora verso sud.
Per gratitudine ai “territori concreti” della fede, anche il prete indegno di Greene rifiuta la moderna eresia dell’impossibilità dell’incarnazione, che condanna chi richiede alla persona umana, addirittura nel privato e nella coscienza, una sorta di controllo non praticabile. E’ possibile, in virtù di questo, accettare lo scandalo della morale cattolica e dei suoi sacrifici, quella morale che per il pensiero neopagano inesorabilmente produce “assassini che mangiano di magro” e di cui, peraltro, Manzoni ha scritto la difesa più precisa, contro le pretese del razionalismo d’origine protestante. Il romanzo sviluppa bene anche un’altra idea, quella del sacramento, inteso come forza che cambia e sicurezza della speranza. Da quando diviene “cosciente della propria drammatica insufficienza”, infatti, il prete comprende che la fede non è una coerenza e tantomeno non risiede laddove vi sia abbondanza devota e formale, ma è in un’altra forza. Così, la direzione intrapresa lo porta ancora a cercare il vino, ma per un nuovo motivo; e piange, perché quel poco che trova viene malamente bevuto e, senza vino, non può celebrare la Messa. Può ancora fuggire, giunge al di là del confine, ma deliberatamente torna indietro per confessare un vero assassino, pur sapendo che chi lo aveva chiamato gli sta tendendo un tranello. Riconosciuto e arrestato, nell’ultimo dialogo con il tenente, prima della fucilazione, si mostra consapevole della propria missione e, finalmente, di quale forza possieda un sacramento. Al tenente, che “tutto voleva distruggere: e rimanere solo, senza ricordi”, perché aveva capito e fatto esperienza del vuoto, che possedeva “la certezza totale dell’esistenza di un mondo morente, in via di raffreddamento, di esseri umani che si erano evoluti dagli animali per niente”, il prete oppone un’altra logica, che riprende l’unicità e la sola possibilità per l’esistenza cristiana.
Ecco perché il romanzo ha come protagonista un prete santo e peccatore, che nel momento culminante, un attimo prima dell plotone d’esecuzione, oppone la logica del sacramento al tenente che lo ha catturato: “Questa è un’altra differenza tra noi. E’ inutile che lavoriate per il vostro scopo, a meno che non siate un uomo buono voi stesso. E non ci saranno sempre uomini buoni nel vostro partito. E allora si avrà di nuovo tutta la vecchia fame, le violenze, l’arricchirsi ad ogni costo. Ma il fatto ch’io sia un codardo, e tutto il resto, non ha molta importanza. Posso mettere Dio stesso nella bocca di un uomo, e posso dargli il perdono di Dio. Anche se ogni prete della chiesa fosse come me, non ci sarebbe nessuna differenza sotto questo aspetto”. Nel suo romanzo Il nocciolo della questione, Greene cita questa affermazione di Charles Peguy: “Al cuore stesso della cristianità nessuno è così competente come il peccatore in materia di cristianità. Nessuno se non il santo”. E’ il senso autentico de Il potere e la gloria, e il motivo per cui vale la pena di rileggerlo oggi.