Matteo Salvini (Foto LaPresse)

Né con Salvini né con padre Spadaro. Gli equilibri difficili

Alfredo Mantovano

L’abuso dei rosari, sì. Ma dovremmo preoccuparci di più delle scelte bioetiche

Mettiamola dal lato dei cattolici italiani. Dal lato di quella minoranza che mantiene la frequenza della Messa domenicale, che tenta di orientare la vita secondo un senso religioso ricevuto o acquisito, che prova perfino a riferirsi a un quadro essenziale di principi, la cui trasmissione attende dalla chiesa, che è disponibile a manifestare il proprio sentirsi cristiani nell’educazione dei figli e in opere concrete di aiuto al prossimo, che riesce a mobilitarsi in manifestazioni di piazza, come è stato per i due Family day del 2015 e del 2016. Quest’area, che non è la maggioranza degli italiani, ma nemmeno un circolo isolato, ha assistito negli ultimi mesi, soprattutto negli ultimi giorni, all’ostentazione da parte del leader della Lega dei simboli più cari alla religiosità popolare: in occasione non di celebrazioni sacre, bensì di eventi politici e istituzionali. E ha contestualmente assistito alla pesante critica rivolta a Salvini da esponenti significativi della realtà ecclesiale italiana, di strumentalizzazione, se non di uso blasfemo.

 

Il livello della polemica politica è tale che non ci si meraviglia se, a un vicepremier che bacia la corona del Rosario nell’Aula del Senato fa da pendant il presidente della commissione Antimafia, per il quale in Calabria il Rosario è uno dei simboli della ndrangheta; la questione è troppo seria per essere liquidata in poche battute, ma l’equazione del pentastellato Morra si qualifica da sé. Né ci si meraviglia dell’ira laicista esplosa dentro e fuori quell’Aula alla mera comparsa di quei simboli: per ribadire il divieto di riferirsi a Dio nella vita pubblica, comunque si manifesti, quasi come se fosse una bestemmia. Ma dal direttore di Civiltà cattolica ci si aspetta qualcosa di più: uno sforzo di analisi invece che un anatema, in linea con la tradizione di quella testata… E non è solo Civiltà cattolica, vi è un orientamento diffuso nella comunicazione ecclesiale, che si percepisce al di là della sua connotazione di ufficialità.

 

I Pontefici hanno sempre insegnato che i criteri di valutazione della linea di un partito, o di un governo, o di una iniziativa politica sono quelli elaborati dalla Dottrina sociale della chiesa: che continua a restare “parte integrante della concezione cristiana della vita”, come la definiva San Giovanni XXIII nell’enciclica Mater et magistra. Essa non indica soluzioni concrete, ma prospetta principi di riferimento, criteri di giudizio e direttive di azione, il cui filo conduttore, prima ancora del dato confessionale, sono l’adesione a una sana antropologia e la verifica ex fructibus.

 

Non è complicato valutare l’anno abbondante di governo gialloverde alla stregua di questi criteri; nel “contratto” che lo ha fondato, poiché le questioni attenenti alla vita e alla famiglia sono fra le più divisive in assoluto, è stata concordata una moratoria: non rivedere, neanche in parte, le norme fortemente ostili introdotte dai Governi della precedente legislatura, dal divorzio breve e facile alle unioni same sex, fino alle dat, ma nemmeno andare oltre.

 

I cattolici hanno pieno titolo a mostrarsi delusi sulla tenuta della tregua, che non vi è stata. Basta ricordare tre vicende: la prima è l’ordinanza n. 207/2018 con cui la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della disposizione del codice penale che sanziona l’aiuto al suicidio, ha messo in mora il Parlamento affinché, entro il 24 settembre 2019, vari una normativa sostanzialmente eutanasica, lasciando intendere che altrimenti provvederà la stessa Consulta. Vi è stata la lodevole proposta di legge di qualche deputato leghista, per evitare l’inserimento del suicidio medicalizzato nel Sistema sanitario nazionale, ma il vertice della Lega non ha fatto nulla perché tale proposta pervenisse nell’Aula della Camera. Né oggi il tema è minimamente evocato fra le questioni importanti: la crisi di governo rischia di lasciarla al destino di una grave decisione già nella sostanza anticipata.

 

La seconda è la Determina con la quale a fine febbraio l’Aifa-agenzia italiana del farmaco ha inserito la molecola TRP-triptorelina fra i medicinali erogabili a carico del Servizio sanitario nazionale: da somministrare, sotto controllo medico, ad adolescenti ritenuti affetti da DG-disforia di genere, al fine di procurare loro un blocco temporaneo, fino a un massimo di qualche anno, dello sviluppo puberale, con l’ipotesi che ciò “alleggerisca” in qualche modo il “percorso di definizione della loro identità di genere”. E’ uno strumento per la riaffermazione dell’ideologia del gender in danno del minore, in spregio alle preoccupazioni di ordine scientifico e giuridico espresse da realtà qualificate. Qui il governo è stato parte in causa, dal momento che Aifa opera sotto la vigilanza dei ministeri della Salute e dell’Economia. Vi è stato qualche cenno di agitazione, qualche interrogazione presentata, poi è calato il silenzio.

 

La terza è l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri – il 28 febbraio –, fra gli altri, di un disegno di legge delega di riscrittura del codice civile, con la previsione degli accordi prematrimoniali, che riducono il matrimonio a un contratto come tanti altri che, come per la somministrazione di un servizio, disciplina le modalità di conclusione prima ancora di iniziare, in un’ottica mercantilistica consacrata in clausole negoziali. Questo per non dire, al di fuori delle decisioni romane, della deriva libertaria inspiegabilmente imposta dalla guida leghista della Regione Lombardia.

 

Lo spazio complessivo dedicato a queste voci dagli opinion maker della realtà ecclesiale italiana è stato minimo, del tutto incomparabile con la questione immigrazione, che ha polarizzato, al di là dei simboli, la critica al governo, e in particolare al vicepremier Salvini, peraltro spesso aspra, emozionale, senza quelle distinzioni che fanno cogliere la complessità dei fenomeni, e per questo alla fine non incisiva.

 

Vi è però un ulteriore dato di riflessione. Salvini – al di là delle intenzioni, per le quali dovrebbe comunque valere il “chi sono io per giudicare?”, e al di là del necessario equilibrio fra la propria fede e la sua ostentazione – riempie lo spazio dell’uso in calo di simboli della fede popolare. Sarei curioso di sapere se egli conosce la radice e il senso della devozione al Cuore Immacolato di Maria, come e perché essa nasce, quale importanza abbia oggi per la Chiesa e per il mondo, quanto essa sfugga ad appropriazioni politiche. Quel che è certo è che però si tratta di una pratica religiosa poco diffusa. Far riferimento a essa provoca l’effetto di risvegliare l’attenzione remota di fedeli che non ne sentono più parlare: oggettivamente cattura un segmento di elettorato, non esteso ma da sommare ad altri.

 

La reazione negativa dei media ecclesiali ci sta tutta. Ma non si svolge alcun orientamento se ci si ferma alla demonizzazione. Se non ci si domanda quanto l’abbandono di preziosi territori di fede – la devozione al Cuore Immacolato lo è – lasci spazi che vengono occupati, se pur in modo distorto. In quest’ottica, la risposta, al posto della quotidiana scomunica, potrebbe essere ridare senso a quel bene prezioso che è la fede in Italia, uscendo dalla sovrapposizione della realtà ecclesiale nazionale a una megaonlus orientata quasi monotematicamente – questa è la percezione - sull’accoglienza dei migranti. Tornando alla politica, l’alternativa alle manifestazioni religiose di Salvini, comunque apprezzate da una parte del popolo dei cattolici, non è il silenzio dei “cattolici democratici”, né il timore che nelle istituzioni o nelle piazze si dica o si faccia qualcosa di cattolico, ma il coraggio di riprendere a applicare la Dottrina sociale cristiana.

 

Il prezzo del tratto ecclesiale su vicende come il “caso Salvini”, è l’accentuazione dell’irrilevanza della presenza pubblica dei cattolici in Italia. E non dipende dalle corone del Rosario che il capo della Lega ostenta.