Non scherzate con lo scisma
Ultimatum per uno scisma. Nella chiesa di Francesco si riapre la frattura con la chiesa di Germania. Il cardinale Marx fa sul serio o cerca una vittoria simbolica? Lo si vedrà al Sinodo sull’Amazzonia
“Una mucca resta una mucca anche se qualcuno ha deciso di chiamarla cavallo”, e il Sinodo vincolante per la chiesa tedesca indetto lo scorso marzo tra fanfare, squilli di tromba e parecchie minacce spedite a Roma dal cardinale Reinhard Marx con l’approvazione pressoché unanime della Conferenza episcopale che guida, altro non è che un “concilio particolare”, ha detto mons. Ansgar Puff, vescovo ausiliare di Colonia. Una fattispecie che ha diversi precedenti nella storia, che presuppone di attenersi alle norme del diritto canonico, che non può discutere di questioni che non gli competono, quali ad esempio l’ordinazione delle donne e il celibato sacerdotale e che alla fine deve spedire a Roma le decisioni prese affinché siano approvate dal Papa. “Ma in Germania si è scelta la ‘via sinodale’, che non vincola nessuno”, ha aggiunto mons. Puff, spiegando che lui la proposta di un concilio particolare l’aveva avanzata, scontrandosi però il parere contrario dei confratelli vescovi. In un concilio particolare votano i vescovi, mentre i laici possono essere solo ascoltati. Il cardinale Marx ha invece fatto sapere che sui temi all’ordine del giorno della grande assemblea locale – potere ecclesiastico, celibato, donne, morale sessuale – il laicato tedesco avrà parecchia voce in capitolo. Che piaccia o meno a Roma.
“Una mucca resta una mucca anche se qualcuno ha deciso di chiamarla cavallo. Non ci può essere nulla di vincolante, qui”
La corda è parecchio tesa, la compagine episcopale tedesca da una parte, il Vaticano dall’altra, con l’incognita rappresentata da Francesco. E’ proprio questo l’enigma da risolvere: il Papa con chi sta?
È un problema culturale, c’entrano Hegel e il post Concilio. Proprio per questo non si risolverà con un paio di lettere spedite da Roma
Lo scorso 29 giugno Bergoglio recapitò a Marx e confratelli una lunga lettera “al popolo di Dio che è in cammino in Germania” nella quale, pur incoraggiando il percorso intrapreso, chiariva che “gli interrogativi presenti, come pure le risposte che diamo, esigono, affinché ne possa derivare un sano aggiornamento, una lunga fermentazione della vita e la collaborazione di tutto un popolo per anni. Ciò porta a generare e mettere in atto processi che ci costruiscano come popolo di Dio, più che la ricerca di risultati immediati che generino conseguenze rapide e mediatiche, ma effimere per mancanza di maturazione o perché non rispondono alla vocazione alla quale siamo chiamati”. Il vaticanista americano John Allen scrisse che se uno non avesse visto la firma in calce avrebbe potuto tranquillamente pensare che l’autore fosse uno tra Pio IX e Benedetto XVI, ma fin da subito l’interpretazione del testo creò non pochi problemi: esultarono tutti. Esultò il cardinale arcivescovo di Colonia, Rainer Maria Woelki, critico della mossa di Marx e autore di una proposta alternativa che pensasse alla crisi della fede più che alla rincorsa dello Zeitgeist, esultò il suo vicario generale Fuchs – “Al Papa non è sfuggito che alcune richieste dei promotori del cammino sinodale non hanno preso in considerazione il fatto che le basi della fede cattolica sono valide in tutto il mondo” – ma applaudì la missiva papale anche il vicepresidente della Conferenza episcopale, mons. Franz-Josef Bode: “Innanzitutto, il Papa si è detto favorevole al cammino sinodale. E questo per me è un sollievo. Nulla viene smentito. Possiamo andare avanti e percorrere questa strada”.
In queste settimane, il cardinale Marx ha picchiato duro sulla burocrazia romana, su Ouellet che avrebbe fatto meglio a cercare un confronto prima di recapitare lettere, sull’incapacità della curia di capire la crisi in cui versa la chiesa e di agire di conseguenza. Da qui, spiega, l’iniziativa tedesca, che si ripromette di divenire faro anche per le altre chiese particolari. D’altronde, è il sottotesto implicito di tutta la vicenda, è il Papa che nel suo programma di pontificato, Evangelii gaudium, ha scritto che è giunta l’ora di devolvere alle conferenze episcopali locali anche competenze in materia dottrinale. Il che rappresentava uno dei punti fondamentali e più carichi di conseguenze dell’enciclopedica esortazione apostolica pubblicata nel novembre del 2013, poi dimenticato e sovrastato nella narrazione mediatica dai paragrafi sulla missionarietà, l’evangelizzazione e l’apertura dell’ospedale da campo permanente. Ai tedeschi, però, quella frase, non è sfuggita.
Si attendeva l’occasione propizia per rimettere in moto un processo avviato da decenni che a cadenza ciclica riemerge. E’ quella tentazione che l’episcopato della chiesa tedesca ha da sempre, ancora di più dopo il Concilio che, osservò nel 1985 l’allora cardinale Joseph Ratzinger, “sembrava essere simile a un grande parlamento della chiesa, che potesse cambiare e rivoluzionare tutto a modo suo”. Era evidente in alcuni suoi precisi settori, ricordava ancora Ratzinger, “un crescente risentimento nei confronti di Roma e della curia, che appariva come il vero nemico di ogni rinnovamento e progresso”. Non c’è dunque poi troppa differenza con quanto si vede oggi, i toni sembrano i medesimi. Le rivendicazioni, pure.
Nonostante Francesco, sembra di essere tornati indietro di trent’anni, alla “Dichiarazione di Colonia” contro Giovanni Paolo II
Sembra di essere tornati indietro di trent’anni, quando nel 1989 centosessantadue professori di Teologia sottoscrissero la “Dichiarazione di Colonia”, una lettera aperta che partendo dalla contestata nomina di Joachim Meisner ad arcivescovo della città, fu l’occasione per dare una sferzata al pontificato di Karol Wojtyla. “Questo testo, che inizialmente non andava oltre il livello consueto delle rimostranze, crebbe tuttavia molto velocemente sino a trasformarsi in grido di protesta contro il magistero della chiesa, raccogliendo in modo ben visibile e udibile il potenziale di opposizione che in tutto il mondo andava montando contro gli attesi testi magisteriali di Giovanni Paolo II”, ha scritto la scorsa primavera Ratzinger nei suoi “appunti” relativi alla crisi della fede e all’assenza di Dio nel mondo contemporaneo, banalmente ridotti a riflessione sulla pedofilia e il 1968. Rileggendo la Dichiarazione, si trova parecchio di quel che oggi perora Marx: “Vediamo i segni di una trasformazione della chiesa postconciliare di una progressiva interdizione delle chiese particolari, di un rifiuto dell’argomentazione teologica, e di una diminuzione dell’ambito di competenza dei laici nella chiesa; di un antagonismo proveniente dall’alto, che inasprisce i conflitti nella chiesa con il ricorso a misure disciplinari”. Ancora, si affermava che “l’apertura della chiesa cattolica alla collegialità tra Papa e vescovi, che pure è stata una delle acquisizioni fondamentali del Concilio Vaticano II, viene soffocata da un nuovo centralismo romano”. “La coscienza – poi – non è un surrogato del magistero pontificio. Piuttosto, nell’interpretazione della verità, il magistero deve anche tenere conto della coscienza dei fedeli. Sopprimere la tensione tra dottrina e coscienza equivale ad attentare alla dignità di quest’ultima”.
E’ insomma un problema tedesco, che va avanti da secoli e che il post Concilio ha acuito nella sua gravità. C’entra di sicuro Hegel con la sua idea di progresso secondo la quale ogni sommovimento contiene in sé il passaggio a una forma superiore e più evoluta d’esistenza storica. Progresso che si attua attraverso il conflitto, con l’assunto determinante che la distruzione del passato consente allo Spirito di svilupparsi. E lo Spirito, ça va sans dire, si realizza solo tramite la relativizzazione di ogni passato. In sintesi, la storia è mutamento perenne. E’ un problema culturale profondo, che di certo non sarà risolto con un altolà burocratico del Vaticano. Potrà essere di sicuro rallentato, cosa della quale è certo Thomas Schüller, professore di diritto canonico all’Università di Münster, che al portale online Kirche und Leben si dice convinto che “Roma interromperà questo processo”, visto che “finora ha purtroppo reagito in modo restrittivo come alcuni hanno temuto”. I laici “non avranno alcun potere reale, al massimo saranno consultori”. E Marx lo sa.
La Frankfurter Allgemeine Zeitung attacca Bergoglio: “Ha accoltellato alle spalle i vescovi tedeschi”, ha teso loro “un agguato”
Allora perché i pugni sbattuti sul tavolo? Le minacce di rottura, la rivendicazione di autonomia che a leggere certe dichiarazioni spesso sembra più una richiesta di autocefalia? I media laici locali soffiano sul fuoco, la Frankfurter Allgemeine Zeitung ha accusato il Papa di aver “pugnalato alle spalle i vescovi tedeschi” e di aver teso loro “un agguato”, prima incoraggiandoli a intraprendere un cammino sinodale e poi rimproverandoli. Il cardinale Marx, ricevuto a Roma da Francesco in persona lo scorso giovedì, fa sapere che il dialogo “è costruttivo”, termine vago e abusato nel gergo politico per dire che le distanze ci sono e non sono neppure troppo piccole. Arriverà davvero la rottura o l’obiettivo è di ottenere qualcosa di concreto dall’imminente Sinodo per l’Amazzonia? Stando alle vecchie dichiarazioni del vescovo di Essen, mons. Franz-Josef Overbeck, la seconda opzione parrebbe la più accreditata: “Dopo il Sinodo nulla sarà più come prima”, aveva detto con una certa sicurezza il presule, aggiungendo che inevitabilmente l’assemblea “porterà a una rottura nella chiesa cattolica”. L’assise convocata dal Papa per affrontare i non pochi problemi dell’immensa regione sudamericana trasformata dunque nell’ennesima occasione per agitare la chiesa universale. Un revival dell’indimenticabile doppio Sinodo sulla famiglia del 2014 e 2015, con la drammatica conta finale paragrafo per paragrafo e le risse intra ed extra aula tra uditori, vescovi, cardinali. Allora a porre sul tavolo la questione del riaccostamento alla comunione dei divorziati risposati era stato, con i modi eleganti che gli sono propri e robusta argomentazione teologica, il cardinale Walter Kasper, stavolta tocca a Marx, con meno delicatezza e più risolutezza. Si delinea il tentativo, insomma, di trasformare la discussione sui viri probati necessari per amministrare i sacramenti nei villaggi che un prete lo vedono ora una o due volte all’anno nel grimaldello per farla finita con il celibato sacerdotale, nell’illusione che la crisi della chiesa cesserà non appena si consentirà ai sacerdoti di mettere su famiglia. Partire da una situazione limitata a una precisa regione del pianeta per renderla universale, risolvendo così qualche problema alle declinanti chiese europee. Non è un caso che il preconizzato cardinale Michael Czerny S.I. proprio ieri abbia detto che “è davvero importante capire che il Sinodo non cercherà una soluzione per un gruppo singolo, bensì per l’intera chiesa”.
Vangelo a portata di mano