Al Sinodo sull'Amazzonia si cerca la soluzione che metta (quasi) tutti d'accordo
Mentre le statuette di Pachamama finiscono nel Tevere, si anima la discussione sui viri probati, dal cui esito si potrà valutare quanto è ampia la spaccatura interna alla chiesa
Roma. Sabato pomeriggio sarà votato il documento finale del Sinodo sull’Amazzonia, poi spetterà al Papa decidere che farne e quali decisioni conseguenti adottare. Il grosso del lavoro è stato fatto, in aula e nei circoli minori, ora è il tempo della sintesi. Prima sarà presentata una bozza del testo conclusivo sul quale l’assemblea sarà chiamata a dibattere ancora. Quindi, il voto paragrafo per paragrafo. Dalle relazioni dei circoli minori è già possibile trarre qualche indicazione sull’andamento del Sinodo, in attesa dei “modi”, gli emendamenti. Sui temi “ambientali” e sociali c’è poco da discutere: più o meno la concordia è unanime – al netto di qualche padre soddisfatto per il raid all’interno di Santa Maria in Traspontina, con le statuette di Pachamama lì presenti buttate nel Tevere di primo mattino –, così come sull’accoglimento del grido di dolore delle popolazioni della Panamazzonia sempre più minacciate dall’opulenza capitalista. Il problema è l’altro capitolo, quello relativo al celibato dei sacerdoti. E’ lì che si determinerà l’esito dell’assemblea e si valuterà quanto ampia sia la spaccatura interna alla chiesa. Perché nonostante l’invito a spostare l’attenzione sul quadro globale, sull’ecologia, la foresta polmone del pianeta, il rito amazzonico e così via, era chiaro fin dall’inizio che la discussione si sarebbe animata sui viri probati. E così è stato. I circoli minori sono divisi, cinque-sei sono favorevoli – con sfumature diverse – quattro contrari, due-tre pensano che la decisione non possa arrivare da un Sinodo convocato per discutere di situazioni peculiari della realtà amazzonica. E questo è il punto centrale: autorizzare l’ordinazione di uomini sposati, magari “con una famiglia costituita e stabile” come si legge nella relazione del circolo di lingua italiano A, aprirebbe o meno all’adozione di analoghi provvedimenti anche altrove? Secondo una corrente di pensiero robusta, capitanata dalla Conferenza episcopale tedesca, sì. Il vescovo Overbeck, di Essen, lo disse già mesi fa: “Dopo il Sinodo sull’Amazzonia niente sarà più come prima”. Poche settimane fa, il neo cardinale Michael Czerny, riconobbe che questa assemblea “ha una portata universale per la chiesa”. I contrari e i dubbiosi hanno dunque ben più d’una ragione per sospettare che in breve tempo l’eccezione possa diventare la regola. Cercando così, attraverso l’ordinazione di uomini maturi con famiglia, di sopperire alla carenza di clero nelle impervie regioni latinoamericane e a uno slancio missionario che si è perso. Una scorciatoia che risolverebbe il problema di amministrare i sacramenti con frequenza maggiore rispetto a quella odierna alle comunità dei villaggi che non vedono preti se non una o due volte all’anno, ma che gioverebbe ben poco alla necessaria opera di evangelizzazione. Non è un caso che nella propria relazione, il gruppo italiano B (relatore mons. Filippo Santoro, moderatore il prefetto della Dottrina della fede, il cardinale Luis Ladaria Ferrer) si sottolinei una certa “perplessità circa la mancanza di riflessione sulle cause che hanno portato alla proposta di superare in qualche forma il celibato sacerdotale come espresso dal Concilio Vaticano II e dal magistero successivo”. Parafrasando il testo, constatando l’indubbia carenza di ministri, ci si chiede come mai non si siano approfondite le cause che hanno portato a ciò. Come a dire, siamo davvero sicuri che il problema sia rivedere le norme che regolano il celibato? Il vescovo Erwin Kräutler – che però è un teologo della liberazione – durante il briefing in sala stampa vaticana ha tagliato corto dicendo che “gli indigeni non capiscono il celibato”. La migliore risposta gliel’ha data don Justino Sarmento Rezende, salesiano e unico sacerdote indigeno presente al Sinodo, che pure contrario ai viri probati non è: “Il celibato è un dono che Dio dona a uomini di qualsiasi cultura. Se un giorno capissi che il celibato non fa più per me, lascerei”.
Mons. Wellington Tadeu de Queiroz, vescovo di Cristalândia, è sicuro che non sia il celibato “la causa principale che allontana in giovani dal sacerdozio. Abbiamo altri problemi e quello principale che deve essere affrontato è la nostra mancanza di coerenza, la nostra infedeltà, gli scandali, la nostra mancanza di santità”. Mons. Queiroz dice che parecchi, nell’Aula nuova, la pensano come lui. Si vedrà. Di certo è su questo, più ancora che sul ruolo da dare alle donne nelle comunità cattoliche dell’Amazzonia – che la partita si farà delicata. Di certo la direzione del Sinodo, a cominciare dal relatore generale, il cardinale Cláudio Hummes, è favorevole a ogni tipo di innovazione, così come parecchi dei membri chiamati a stendere il documento finale. Il Papa, però, oltre a mons. Marcelo Sánchez Sorondo passato alla storia per aver detto che il regime cinese rappresenta il miglior esempio di applicazione della dottrina sociale della chiesa, ha chiamato a sbrogliare la matassa il cardinale Schönborn. Anche lui di vedute per così dire aperte, ma non fino al punto che vorrebbero Kräutler e sodali. D’altronde fu proprio l’arcivescovo di Vienna, quattro anni fa, a favorire il compromesso sulla riammissione dei divorziati risposati alla comunione, seppure caso per caso ed escludendo così l’ipotesi di un grande condono come perorato da tanti presuli dell’Europa centro-settentrionale. Difficile capire, però, se per rendere meno certo il celibato sacerdotale basterà una nota a piè di pagina. Ieri, parlando ai giornalisti, un indizio sulla soluzione che si potrebbe trovare, l’ha dato proprio Schönborn, ricordando che a Vienna con 180 diaconi permanenti per lo più sposati si sta benissimo. D’altronde, i diaconi permanenti non sono una novità, non ci sarebbe alcuna rivoluzione.