Dopo sei anni e mezzo di pontificato Washington resta ben lontana da Roma
Nel segno della continuità (conservatrice) i nuovi vertici episcopali. Royal: “Qui la sinodalità bergogliana non e’ arrivata”
Roma. La scorsa settimana i vescovi degli Stati Uniti si sono riuniti in assemblea per eleggere i nuovi vertici, non solo il presidente e il vicepresidente ma anche i responsabili delle varie commissioni. E’ un appuntamento triennale atteso perché funge da barometro per capire l’orientamento che si respira nella vasta (e potente) compagine episcopal nordamericana. Certo, ci sono i comunicati, le lettere pastorali, le photo opportunity, ma gli umori reali vengono affidati al segreto dell’urna. In epoca bergogliana, con una sintonia che dopo sei anni e mezzo ancora stenta a vedersi tra Santa Marta e i vescovi d’America, l’assemblea di Baltimora è un punto di passaggio fondamentale per fotografare lo stato delle cose. Scontata è stata l’elezione di mons. José Horacio Gómez alla carica di presidente: sarà il primo latino a occupare quel posto, un fattore evidenziato anche da quanti – la netta minoranza, ma pur sempre presente e combattiva – non lo amano.
Gómez è l’arcivescovo di Los Angeles, la più vasta diocesi degli Stati Uniti. Papa Francesco, finora, gli ha negato la porpora cardinalizia. I motivi sono chiari: la preferenza è caduta su presuli a lui più affini, dall’arcivescovo di Chicago Blase J. Cupich a quello di Newark, Joseph W. Tobin. Gómez, pur essendo vicino alle istanze dei migranti e da sempre “nemico” del muro al confine con il Messico, è un conservatore classico: membro dell’Opus dei, la sua nomina a Los Angeles (avvenuta nel 2011) rappresentò una netta discontinuità rispetto al progressista Roger Mahony. Però Gómez era anche vicepresidente uscente, e la prassi – disattesa solo nel 2010, quando alla preconizzata elezione del liberal Gerald Kicana, allora vescovo di Tucson, seguì nell’urna la sorpresa Timothy Dolan – è quella di eleggere alla massima carica il numero due giunto a fine mandato. Più interessante è infatti l’elezione del vice, cioè di colui che è designato a diventare presidente tre anni più tardi. E’ stata, questa, una votazione combattuta, al punto che è stato necessario un ballottaggio. L’ha spuntata l’arcivescovo di Detroit, mons. Allen Vigneron, che però ha 71 anni e al termine del triennio ora iniziato sarà già vicino all’avvicendamento per raggiunti limiti d’età (salvo deroghe di pertinenza papale). La sensazione è quindi che i vescovi abbiano voluto sì seguire la strada della continuità – scegliendo un conservatore – ma che per il 2022 si lascino aperte tutte le porte. “Vedremo se Francesco farà Gómez cardinale, come dovrebbe. Finora è stato molto vicino al Papa per quanto riguarda l’immigrazione, ma è anche un membro dell’Opus dei e come la maggioranza dei nostri vescovi non esita a proseguire la culture war sull’aborto, l’omosessualità, la difesa della famiglia”, dice al Foglio Robert Royal, presidente del Faith and Reason Institute nonché direttore di The Catholic Thing. “A mio parere – aggiunge – i nostri vescovi hanno ragione nel proseguire su questa linea negli Stati Uniti. L’elezione di Vigneron indica, forse, che i presuli hanno intenzione di andare avanti così, essendo lui noto come un vescovo piuttosto tradizionale”.
La spaccatura tra la maggioranza ancora legata alla stagione delle culture war e la minoranza più attenta alle nuove priorità del pontificato è emersa in superficie quando si è discusso sul contenuto di un messaggio ai cattolici d’America circa il loro coinvolgimento in politica. E’ stato il cardinale Cupich a proporre di inserire una lunga citazione di Papa Francesco in cui si sottolinea che la difesa “ferma e appassionata” del nascituro deve accompagnarsi alla difesa, altrettanto netta, dei poveri e degli scartati. La commissione che ha esaminato la proposta di emendamento ha dato parere favorevole, sostenendo però che la citazione era troppo lunga. Cupich ha ribattuto sulla necessità di non tagliare nulla, trovando sostegno in mons. Robert McElroy, vescovo di San Diego e punta dell’ala liberal americana, il quale ha ammonito sul rischio di “tradire il magistero di Francesco” se non fosse stata accettata la linea di Cupich. “Non è l’aborto la questione principale che dobbiamo affrontare secondo la dottrina sociale cattolica”, ha sottolineato McElroy, trovando subito l’opposizione di mons. Charles Chaput, arcivescovo uscente di Philadelphia: “Lo è invece. Non sono contrario a inserire tutta la dichiarazione del Santo Padre, che è bellissima. Ma sono contrario a chiunque sostenga la tesi secondo la quale dire che l’aborto è la questione preminente è contrario all’insegnamento del Papa. Perché non è vero. Non farebbe altro che creare così una battaglia artificiale tra la conferenza episcopale degli Stati Uniti e il Santo Padre, che non ha ragione d’esserci”.
Nell’urna l’emendamento Cupich-McElroy è stato bocciato. “I nostri vescovi hanno spesso detto che non tutti gli aspetti della dottrina sociale della chiesa hanno lo stesso livello d’importanza”, dice Royal: “E’ stato proprio Theodore McCarrick – il cardinale Sean O’Malley ha assicurato proprio a Baltimora che presto, entro la fine dell’ anno, saranno propbabilmente resi noti i documenti relativi all’inchiesta vaticana contro l’ex arcivescovo di Washington cui Francesco ha tolto la berretta cardinalizia – a cercare di nascondere anni fa una parte di una lettera inviata da Joseph Ratzinger in cui si sosteneva che l’aborto è un attacco diretto alla vita umana innocente e che dunque è una questione che va posta su un altro livello. Il problema è che certi vescovi (pochi) non vogliono dare l’impressione di opporsi ai Democratici. E poi Cupich e McElroy preferiscono parlare più di giustizia sociale che di argomenti pro life”.
Al di là degli scontri interni, s’intravede un cambiamento d’orientamento tra i presuli americani dopo sei anni e mezzo di pontificato bergogliano? “No”, dice subito presidente del Faith and Reason Institute. “I nostri vescovi sono un po’ perplessi rispetto al tipo d’approccio con il Vaticano. Da una parte vogliono stare con il Papa (e direi che vogliono anche che ciò si veda all’esterno), dall’altra vi sono urgenze diverse in America: gli abusi, la vicenda McCarrick, la guerra culturale. Il Papa e il suo ‘cerchio magico’ capiscono poco gli Stati Uniti. Il discorso tenuto dal nunzio Christophe Pierre la settimana scorsa mostra questa incomprensione. I cattolici americani non stanno domandando l’applicazione dell’esortazione post sinodale Amoris laetitia nelle parrocchie e poi qui abbiamo già un movimento ecologico, anche se non tanto radicale e irreale come propongono le figure che il Vaticano consulta di solito. Insomma, quel discorso del nunzio mostra – almeno a me – una certa frustrazione che si respira a Roma nei confronti degli Stati Uniti, paese con una chiesa ferita sì in diverse sue componenti, ma che è anche dinamica. Direi che dopo sei anni e mezzo la sinodalità bergogliana non sembra essere giunta da queste parti”.
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