Fino a che punto potrà durare la silenziosa neutralità vaticana su Hong Kong
Il Papa di Cina non parla: l'accordo con Pechino è ancora troppo fragile
Roma. “Il mondo non può stare a guardare”, dice in un’intervista ad Avvenire Joshua Wong, il ventiduenne fondatore del movimento studentesco “Scholarism” che promosse la “rivolta degli ombrelli” a Hong Kong al quale è stato confermato il divieto di espatrio. Più di mille arresti al PolyU, mentre la governatrice Carrie Lam avverte che “Pechino potrebbe intervenire”. E se lo farà non sarà di certo col ramoscello d’ulivo in bocca. Se il mondo non sta a guardare e lentamente alza lo sguardo su quel che accade nell’ex colonia britannica, si porrà prima o poi lo stesso problema anche ai piani alti della Santa Sede. Fino a quando il Papa potrà continuare a non spendere una parola su quanto accade a Hong Kong? Se l’è chiesto, con toni come di consueto poco diplomatici anche il cardinale Joseph Zen, vescovo emerito della città-stato, che ha parlato di “vergogna” in riferimento all’atteggiamento attendista e molto realista perseguito dal Vaticano, anche perché l’accordo provvisorio e segreto con Pechino è in piedi da poco, è fragile e le fondamenta vanno consolidate. Ogni parola fuori luogo capace di irritare il Politburo potrebbe cancellare in un istante anni di lavoro certosino condotto per lo più sottotraccia.
Però è assai rumoroso il silenzio di Francesco su Hong Kong se rapportato ai continui riferimenti riguardanti l’attualità politica europea. Sempre più spesso, infatti, il Pontefice ammonisce sul rischio di dimenticare quel che sono stati il nazismo e l’antisemitismo in Europa. Francesco, insomma, di politica parla eccome. Dice sì ai vescovi “fate voi”, ma la sua voce s’alza e non di rado per puntare il dito con chi ai ponti preferisce i muri. “Il sovranismo isola e porta alle guerre. Sento discorsi che assomigliano a quelli di Hitler. L’Europa va salvata”, diceva in un’intervista alla Stampa lo scorso agosto. Pochi giorni fa, nel discorso ai penalisti ricevuti in udienza, è stato ancora più esplicito: “Confesso che quando sento qualche discorso, qualche responsabile dell’ordine o del governo, mi vengono in mente i discorsi di Hitler nel ’34 o nel ’36. Non è un caso che a volte ricompaiano emblemi e azioni tipiche del nazismo che, con le sue persecuzioni contro gli ebrei, gli zingari, le persone di orientamento omosessuale, rappresenta il modello negativo per eccellenza di cultura dello scarto e dell’odio. Occorre vigilare”. Su Hong Kong, silenzio. Anche gli organi ufficiali della Santa Sede, pur dando conto di quanto accade lì, si guardano bene dal denunciare il ruolo del governo cinese nella vicenda. Una questione talmente delicata che non è prevista in tempi brevi neppure la nomina del nuovo vescovo della città, dopo che il precedente, mons. Michael Yeung Ming-cheung, è morto lo scorso gennaio. Se fosse scelto un presule sgradito a Pechino, le conseguenze sulle relazioni tra la Cina e il Vaticano sarebbero facilmente intuibili. Viceversa, se il nominato fosse convinto della necessità di continuare sulla strada dell’intesa con Xi Jinping, a scatenarsi sarebbero i cattolici locali.
Muoversi in tale contesto è complicato. Che la linea politica della Santa Sede sia quella realista non troppo distante dalle teorie del politologo americano Hans Morgenthau, secondo cui solo il “concetto di interesse permette di comprendere in modo razionale la politica”, è acclarato. Più arduo stabilire a tavolino se la condotta con il regime cinese sia in qualche modo paragonabile alla stagione della Ostpolitik casaroliana. Di questa, infatti, si ricordano sovente i lati positivi, meno le laceranti spaccature che si ebbero non solo tra gli episcopati dell’est, ma anche tra il popolo fedele. Il paragone è quindi problematico. Soprattutto perché Pechino non è Mosca e trattare con il Politburo è una missione ben più ardua. Il Vaticano è pronto a (quasi) tutto pur di “conquistare” la Cina, rafforzare l’intesa sulla nomina dei vescovi – che comunque concede un maggiore spazio di libertà alla missione della chiesa, ché qualcosa è sempre meglio di niente, come recita l’adagio – e, in un prossimo futuro, stabilire relazioni diplomatiche. Il problema è che nel frattempo rischia di apparire sotto il ricatto costante dei maggiorenti cinesi, che di fatto costringono il Papa a non dire nulla che possa indebolire la posizione del regime. Il risultato, però, è che a indebolirsi sia solo la voce della chiesa.
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