La chiesa del Dragone
Fede e potere. Il modello cinese affascina non pochi esponenti delle alte gerarchie vaticane in nome della promozione del bene comune. Con il rischio di legittimare uno spietato autoritarismo. Indagine
Diceva all’inizio del 2018 mons. Marcelo Sánchez Sorondo, cancelliere della Pontificia accademia delle Scienze, che chi oggi applica al meglio la dottrina sociale della chiesa è la Cina. “Ho incontrato una Cina straordinaria, ciò che la gente non capisce è che il principio centrale cinese è il lavoro, lavoro, lavoro. Non c’è altro. In fondo è come diceva san Paolo, ‘chi non lavora, non mangia’”. I cinesi, aggiungeva il presule, “tengono al bene comune, subordinano le cose al bene comune. Vi è come una coscienza nazionale positiva, essi desiderano dimostrare che sono cambiati, che accettano la proprietà privata”. E poi, spiegava Sorondo, la Cina “difende la dignità della persona”. Non erano parole a caso, quelle dell’arcivescovo argentino, da sempre un fiero sostenitore delle politiche di Pechino, ma la manifestazione esplicita, ancorché sgraziata, di un apprezzamento per uno dei due grandi modelli che reggono oggi il mondo: quello statalista cinese e quello liberale americano. “L’economia [in Cina] non domina la politica, come succede negli Stati Uniti, come dicono gli stessi americani. Come è possibile che le multinazionali del petrolio influenzino Trump? Il pensiero liberale ha liquidato il concetto del bene comune, non vuole nemmeno tenerne conto, afferma che è un’idea vuota, senza alcun interesse. Al contrario, i cinesi propongono lavoro e bene comune”.
“Ho incontrato una Cina straordinaria. Il principio centrale cinese è il lavoro. Non c’è altro”, diceva mons. Sánchez Sorondo
Un bel problema, ha scritto di recente Matthew Schmitz, senior editor della rivista conservatrice americana First Things: “Come può un cattolico di alto rango elogiare un simile regime?”. Secondo Schmitz non si tratta di “semplice ingenuità”, ma la questione è più profonda, dal momento che viene esemplificato “il modo in cui la difesa del bene comune talvolta scivola in scuse per l’autoritarismo”. E’ utile riprendere in mano quanto scrisse in On the Primacy of the Common Good: Against the Personalists, nel 1943, il filosofo tomista Charles de Koninck, che criticò non poche tensioni liberali e individualiste riscontrabili nel pensiero cattolico. In particolare, lo ricordava sempre Schmitz su First Things, De Koninck “credeva che alcuni pensatori cattolici in sintonia con la società liberale avessero un’idea carente del bene comune. Respinse le loro opinioni avvertendo però che rifiutare il liberalismo in nome del bene comune non avrebbe mai potuto significare abbracciare la tirannia”. I regimi totalitari, scriveva il filosofo, “colgono il bene comune come preteso per schiavizzare le persone nella maniera più ignobile. Rispetto alla schiavitù cui minacciano di ridurci, la servitù delle bestie è la libertà. Siamo così codardi da concedere ai totalitaristi questa perversione del bene comune?”. Dopotutto, i liberali e i totalitaristi condividono alcuni errori. I liberali esaltano l’individuo a spese dello stato, i totalitaristi glorificano lo stato a spese dell’individuo. Non solo: sempre seguendo la riflessione di De Koninck, si può affermare che se “i liberali tendono a pensare che l’uomo sia più libero quando non è vincolato da alcuna legge, i totalitari – che sembrano rifiutare quest’idea – in realtà la abbracciano su un altro piano di discussione. Piuttosto che cercare di liberare l’individuo da ogni vincolo, cercano di liberare lo stato. Lo stato totalitario, che non è vincolato dalla legge divina, non ha bisogno di fare alcun riferimento al fine ultimo dell’uomo, al suo bene supremo. Può fare quello che vuole, come vuole. “Proprio come l’individuo liberale”, osserva Schmitz. In entrambi i modelli, scrive De Koninck, “l’obbedienza è il sostituto della giustizia”. Ma quale è la strada migliore?
“In questi mesi di manifestazioni a Hong Kong, il Vaticano non ha criticato Pechino. Questo è deplorevole”, ha scritto il card. Zen
Mons. Sánchez Sorondo ha scelto la Cina, nuova terra promessa della diplomazia vaticana. E’ lì che pulserebbe – stando alle statistiche, per quel che valgono – il cuore del cristianesimo, tra le comunità sotterranee invise al regime e le chiese ufficiali approvate e benedette dal Politburo. Territori sconfinati, messe abbondante che non attende altro se non d’essere raccolta. Il Papa, soprattutto dopo l’accordo relativo alla nomina dei vescovi dello scorso anno – accordo provvisorio e segreto – ha ribadito che si tratta di un passo, non d’un compromesso. La spiegazione di ciò l’ha fornita il sinologo Francesco Sisci, quando ha sottolineato che “il punto non è se il governo comunista cinese sia ideale o malvagio. Il punto è: che fare?”. Restare fermi o andare avanti? Citando una delle massime fondamentali di Francesco, è utile generare processi anche sul fronte cinese, nonostante le immani difficoltà esistenti, o bisogna piuttosto fermarsi, diffidando di Xi Jinping e ascoltando maggiormente chi come il cardinale Joseph Zen avverte che con il regime che considera le croci elemento capace di creare disturbo agli skyline cittadini non si può scendere a patti? John A. Worthley, su America magazine, ha scritto che “i rischi per la chiesa cattolica in Cina sono reali, ma la chiesa stessa è pronta ad affrontarli”. Rischi che sono quelli elencati, sempre sulla rivista dei gesuiti della East coast, da padre Paul P. Mariani a fine dicembre 2018: “L'accordo provvisorio non è privo di rischi. Sarebbe ingenuo pensare che il governo di Pechino desideri risultati positivi per la chiesa. Il governo cinese ha visto la chiesa sotterranea come una spina nel fianco per decenni e per decenni ha cercato di calpestare quella chiesa. Pechino probabilmente vede l'accordo come un modo per controllare ulteriormente la comunità sotterranea. Se il Vaticano è disposto a essere cooptato in questo progetto, allora tanto meglio. Quindi – sono sempre parole di padre Mariani – il Papa sta vendendo la chiesa sotterranea? Questa è una domanda che si pone in continuazione, anche al Papa stesso. I fedeli sotterranei saranno feriti. In passato hanno sofferto molto per le mani del governo cinese. Ora soffriranno per mano del Vaticano. Questi sono alcuni dei sentimenti che ho sentito durante il mio recente viaggio estivo in Cina. Il cardinale Zen, con il quale ho avuto l'opportunità di parlare, ha fatto rumore con i suoi attacchi all'accordo. Alcuni cattolici hanno paura di essere abbandonati ai lupi”. Se è vero che l’accordo è un passo – non il primo, ci fu anche la Lettera ai cattolici cinesi firmata da Benedetto XVI nel 2007 – verso un miglioramento della situazione per le comunità cattoliche in Cina, è acclarato che diversi elementi inducono a pensare che si tratti innanzitutto di una carta da giocare nella lotta per la sopravvivenza. Concedere molto, semplicemente per vivere. Il pericolo, va da sé, è che si ingeneri un rapporto squilibrato, con la chiesa che poco potrà fare per arginare le politiche di Xi. Il cardinale segretario di stato, Pietro Parolin, ha ricordato che “le finalità proprie della Santa Sede rimangono quelle di sempre: la salus animarum e la libertas ecclesiae. Per la chiesa in Cina ciò significa la possibilità di annunciare il Vangelo di Cristo e di farlo in una cornice sociale, culturale e politica di maggiore fiducia”. Secondo padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, “la chiesa cattolica è chiamata a ridefinire il suo ruolo e le sue relazioni con il Partito comunista e con la sua ideologia. Questo non significa che la chiesa debba essere sempre d’accordo con la politica e i valori del partito, ma piuttosto che essa deve trovare soluzioni per continuare la sua missione e il suo ministero in Cina. (…) I valori culturali e tradizionali cinesi e i valori evangelici e l’insegnamento ecclesiale, del resto, hanno molte cose in comune. La società cinese e la chiesa devono capire e apprezzare i valori condivisibili e proseguire il loro dialogo alla ricerca del bene comune”. Sempre sulla rivista della Compagna di Gesù, Benoît Vermander scriveva che “rendere più cinesi le religioni non vuol dire semplicemente sviluppare un rituale locale e una prospettiva dottrinale, ma in primo luogo aderire alla definizione di cultura cinese proposta dalla stessa relazione del presidente Xi al XIX Congresso”. Definizione che è “di natura politica”. Aggiungeva Spadaro che “poiché la Cina ha caratteristiche proprie, la chiesa cattolica cinese è chiamata a essere pienamente cattolica e pienamente cinese, in modo da inculturare i suoi insegnamenti e i valori del Vangelo. Assumere caratteristiche cinesi significa andare a fondo nel processo di inculturazione”.
Scrisse il filosofo De Koninck: “Rifiutare il liberalismo in nome del bene comune non significherà mai abbracciare il totalitarismo”
E’ proprio questo il punto decisivo: fino a quanto potrà la chiesa andare avanti lungo la strada della sinizzazione? Vi è un limite accettabile? Anche perché da parte cinese la situazione appare sovente ambigua. “Forze occidentali stanno tentando di usare il cristianesimo per influenzare la società cinese e sovvertire il governo. I cristiani cinesi devono seguire un modello religioso cinese”. Erano i primi mesi del 2019 e un funzionario governativo tagliava corto sulle possibilità di vedere aumentare lo spazio d’azione – che poi altro non è che maggiore libertà – per le religioni nella Cina di Xi Jinping. Xu Xiaohong, capo del comitato nazionale della chiesa delle Tre autonomie (la chiesa protestante unitaria strettamente controllata dal partito), aggiungeva che “il cognome del nostro movimento è ‘Cina’ e non ‘occidente’. Ci sono molti problemi con il cristianesimo nel paese, inclusa l’infiltrazione dall’esterno e luoghi di ritrovo privati. Forze anticinesi in occidente cercano ancora di influenzare la stabilità sociale della Cina e anche di sovvertire il potere politico del paese attraverso il cristianesimo, e ciò è destinato a fallire. Per ogni pecora nera che sotto la bandiera del cristianesimo partecipa in azioni finalizzate a sovvertire la sicurezza nazionale, noi sosteniamo fermamente il diritto del paese di consegnarla alla giustizia”. Bitter Winter, periodico online sulla libertà religiosa e i diritti umani in Cina, ha pubblicato un reportage dall’Henan, visitando alcune chiese a Zhengdou e Luoyang “dove non c’è praticamente più alcuna immagine di Gesù o della Bibbia. Al loro posto, abbondano pannelli con la promozione di valori socialisti e il confronto fra i valori della cultura tradizionale cinese e la Bibbia. Le informazioni sulle tavole sono state intenzionalmente designate per enfatizzare i contenuti non religiosi”. Sempre sullo stesso periodico si segnala come “il culto della personalità di Xi Jinping” stia “raggiungendo vette inarrivabili”: “Nel quadro della sua campagna di sradicamento delle religioni, il regime totalitario cinese sta instancabilmente demolendo luoghi di culto, e trasformando templi, moschee e chiese in centri amministrati dalle autorità, in cui i simboli religiosi sono sostituiti con ritratti del presidente e materiali propagandistici”. I credenti, si racconta, “non possono praticare la religione neppure in casa propria. I funzionari ne ispezionano infatti le abitazioni per rimuovere sia croci sia immagini di santi e divinità, ordinando di sostituirli con l’unica divinità permessa in Cina: il presidente Xi Jinping”. Il tutto corredato da fotografie eloquenti che confermano come le affissioni sulle pareti domestiche siano cambiate. “Abbiamo ricevuto ordini dall’alto di rimuovere croci e distici religiosi nelle case dei credenti, altrimenti ritireremo il sussidio per le famiglie povere e altri aiuti”, diceva un funzionario del partito a una sessantenne, lo scorso agosto, nella provincia sudorientale dello Jiangxi. “Due giorni dopo, il segretario del villaggio è venuto a casa mia per appendere un ritratto di Xi Jinping”. Il tutto s’inserisce, com’è inevitabile nella complessa situazione di Hong Kong, da mesi attraversata da manifestazioni che col passare del tempo sono spesso sfociate nella violenza. La Santa Sede, con una prudenza che a tratti appare eccessiva – il Papa ha inserito quanto accade nell’ex città-colonia britannica nello stesso calderone delle devastazioni arrecate a Parigi dai gilet gialli e da altri disordini sparsi nei vari continenti –, è rimasta silente.
Il punto decisivo: vi è un limite accettabile alla sinizzazione? Fino a che punto potrà spingersi la chiesa considerando l’ambiguità cinese?
Troppo, a detta del cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong, che al Washington Post ha sfogato tutta la sua rabbia: “Com'è triste vedere i nostri figli picchiati, umiliati, arrestati e perseguiti. Di fronte a tale ingiustizia, diversi governi hanno parlato, nonostante i rischi per i loro interessi economici in Cina. Ma c'è stato un angolo di silenzio clamoroso. In tutti questi mesi di manifestazioni, il Vaticano non ha pronunciato critiche nei confronti di Pechino. Questo è deplorevole, ma non dovrebbe essere una sorpresa. La linea seguita dal Vaticano negli ultimi anni quando ha affrontato il minaccioso colosso cinese è stata quella di una pacificazione a tutti i costi. Il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato, è colui che ha tra le mani il dossier cinese. Crede chiaramente che una tale posizione sia necessaria per aprire una nuova via per l'evangelizzazione dell'immensa nazione cinese. Ho forti dubbi. Nel 2018 – prosegue Zen – la Cina e il Vaticano hanno firmato un accordo ‘segreto’ provvisorio sulla nomina di vescovi, che il governo cinese ha cercato di controllare. Perché era segreto? Ovviamente, perché era un pessimo accordo. L'accordo vide la chiesa legittimare sette vescovi nominati dalla Cina e precedentemente scomunicati. Molti – me compreso – hanno sollevato preoccupazioni su ciò che accadrebbe ai vescovi delle chiese sotterranee della Cina, che hanno diffuso il messaggio della chiesa per decenni”. A giugno, è la chiosa del commento del porporato consegnato al quotidiano di Washington, “sono volato a Roma per presentare la mia richiesta di chiarimenti al Santo Padre, concentrandomi sulle linee guida del Vaticano sulla Cina. Il Santo Padre mi ha invitato a una cena in presenza di Parolin, che non ha detto una parola. Alla fine della cena, non c’è stata discussione e il Santo Padre disse: ‘Esaminerò la questione’. Sono passati cinque mesi e sto ancora aspettando una parola da Papa Francesco”. La fine della storia è ancora ben lontana dall’essere scritta.
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